IL TRIBUNALE Decidendo sull'appello proposto ex art. 310 c.p.p. in data 25 settembre 2010 nell'interesse di L. G. rappresentata e difesa dall'avv. P. Cannoletta, avverso l'ordinanza di rigetto della istanza ex art. 299 c.p.p. di sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari emessa in data 20 agosto 2010 dalla Corte di Assise di Appello di Lecce. La L. essendo soggetta alla custodia cautelare in carcere per il reato di omicidio volontario in concorso, per il quale e' stata condannata ad anni sedici e mesi due di reclusione con sentenza della Corte di Assise di Appello emessa il 14 luglio 2010. Sentito il difensore; esaminati gli atti prodotti; sciogliendo la riserva di cui al verbale di udienza, ha emesso la seguente ordinanza di proposizione di questione di legittimita' costituzionale. In data 21 luglio 2008 L. G. veniva raggiunta da provvedimento di fermo per il reato di concorso con T. M. D. nell'omicidio volontario di C. B. S., oggetto di contestazione; il fermo veniva convalidato dal GIP che con ordinanza del 23 luglio 2008 applicava alla L. la misura della custodia cautelare in carcere; la difesa proponeva istanza ex art. 299 c.p.p. di sostituzione della misura al GIP, il quale rigettava l'istanza con ordinanza del 23 luglio 2008; avverso detta ordinanza la difesa proponeva appello ex art. 310 c.p.p. e il Tribunale del Riesame, con ordinanza del 19 settembre 2008, in accoglimento dell'appello, disponeva la sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari; detta ordinanza non veniva impugnata dal P.M. e diventava definitiva. Nel corso della requisitoria in primo grado il P.M. chiedeva il ripristino della custodia cautelare in carcere, in forza dell'entrata in vigore dell'art. 2 d.l. n. 11/2009; il GUP accoglieva l'istanza e ripristinava la custodia cautelare in carcere. Con istanza ex art. 299 c.p.p. la difesa adiva la Corte di Assise di Appello di Lecce, chiedendo la sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari, sia per una dedotta situazione di incompatibilita' delle condizioni di salute della L. con la detenzione carceraria e sia proponendo la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3 c.p.p. come novellato dall'art. 2 d.l. n. 11/2009; la Corte di Assise di Appello, con ordinanza del 20 agosto 2010, rigettava l'istanza; avverso detta ordinanza di rigetto viene oggi proposto appello ai sensi dell'art. 310 c.p.p., riproponendosi sia la questione dell'incompatibilita' delle condizioni di salute della L. con la detenzione carceraria e sia la questione di legittimita' costituzionale gia' sollevata in sede di prima istanza. Ritiene questo Tribunale non manifestamente infondata e rilevante la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3 del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonche' in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all'articoli 575 del codice penale, e' applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. La rilevanza della questione di legittimita' costituzionale. Al fine di valutare la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale, deve essere in primo luogo esaminata, in via incidentale, la questione relativa alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico della L. «Nulla quaestio» sul punto, atteso che l'imputata e' stata condannata in primo grado e successivamente in appello alla pena di anni sedici e mesi due di reclusione. Per costante giurisprudenza di legittimita', la sentenza di condanna (tanto piu' se in grado di appello) e' di per se' sufficiente ad integrare i gravi indizi di colpevolezza. In ordine al tema delle esigenze cautelari, occorre premettere quanto segue: come gia' detto, in data 21 luglio 2008 L. G. veniva raggiunta da provvedimento di fermo per il reato di omicidio oggetto di contestazione; il fermo veniva convalidato dal GIP che con ordinanza del 23 luglio 2008, applicava alla L. la misura della custodia cautelare in carcere; la difesa proponeva istanza ex art. 299 c.p.p. di sostituzione della misura al GIP, il quale rigettava l'istanza con ordinanza del 23 luglio 2008, avverso detta ordinanza la difesa proponeva appello ex art. 310 c.p.p. e il Tribunale del Riesame, con ordinanza del 19 settembre 2008, in accoglimento dell'appello, disponeva la sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari; detta ordinanza non veniva impugnata dal P.M. e diventava definitiva. Nel corso della requisitoria in primo grado il P.M. chiedeva il ripristino della custodia cautelare in carcere, in forza dell'entrata in vigore dell'art. 2 d.l. n. 11/2009; il GUP accoglieva l'istanza e ripristinava la custodia cautelare in carcere. Tale ricostruzione storica delle vicende processuali e' decisiva ai fini del giudizio di rilevanza sulla questione di legittimita' costituzionale, con specifico riferimento alla definizione nel caso in esame del tema delle esigenze cautelari. Ed infatti, il quadro delle esigenze cautelari, cosi' come accertato dal Tribunale del Riesame con la citata ordinanza del 19 settembre 2008 (non impugnata dal P.M. e divenuta definitiva), era stato giudicato tale da far ritenere che nel caso di specie le esigenze di cui all'art. 274, lett. c) c.p.p. (pericolo di reiterazione delle medesime condotte criminose) potevano essere soddisfatte con la misura degli arresti domiciliari. In particolare nella citata ordinanza si legge quanto segue: «... e' innegabile che la peculiarita' del caso - a carattere reattivo a fronte di una lunga storia di violenze subite - e la presenza nella vicenda di un uomo di ben maggiore esperienza, quale il T., con precedenti specifici, spinge ad assegnare alla donna un ruolo servente nella vicenda, e quindi a delineare una pericolosita' attenuata, che ben puo' essere arginata con la misura degli arresti domiciliari, tanto piu' che la prevenuta non risulta avere mai violato gli ordini dell'autorita'». Rispetto a quella valutazione espressa dal Tribunale del Riesame (divenuta giudicato cautelare) fino ad oggi non risultano assolutamente sopravvenuti elementi di novita' che possano avere determinato un aggravamento in concreto del quadro delle esigenze cautelari considerate. L'unico elemento di novita' sopravvenuto e' costituito dall'entrata in vigore della novella modificativa dell'art. 275, comma 3 c.p.p., in forza del quale oggi, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il reato di cui all'art. 575 c.p., «e' applicata la custodia cautelare in carcere salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari». Dalla ricostruzione che precede emerge l'indiscutibile e pregnante rilevanza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, atteso che nel caso di specie risulta gia' accertato, in forza della citata ordinanza ex art. 310 c.p.p. emessa il 19 settembre 2008, che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con la misura degli arresti domiciliari. E' appena il caso di rilevare che la circostanza dell'omessa impugnativa avverso l'ordinanza con la quale il GUP, accogliendo la richiesta del P.M., aveva a suo tempo disposto il ripristino della custodia cautelare in carcere, non e' di alcun ostacolo o impedimento processuale rispetto alla proponibilita' di un'autonoma richiesta di sostituzione della misura ai sensi dell'art. 299 c.p.p., tanto piu' ove tale istanza sia stata proposta sull'espresso rilievo della proposta questione di legittimita' costituzionale. Infine, il carattere decisivo che assume nel presente procedimento la definizione della questione di legittimita' dell'art. 275, comma 3 c.p.p. e' ulteriormente confermato dall'infondatezza (rilevabile fin da ora, quanto meno in via incidentale) del primo dei motivi di appello proposti dalla difesa, vale a dire quello avente ad oggetto la dedotta incompatibilita' delle condizioni di salute della L. con la detenzione carceraria; ed infatti, in ordine a tale questione si deve rilevare che il consulente medico legale incaricato da questo Collegio, dott. Roberto Vaglio, con relazione depositata il 6 novembre 2010, ha concluso che le condizioni di salute della L. non sono incompatibili con la detenzione carceraria. La non manifesta infondatezza. L'art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonche' in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all'articoli 575 del codice penale, e' applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure e' costituzionalmente illegittimo per violazione degli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., nei limiti di seguito specificati, che sono stati gia' ritenuti ed affermati dalla Corte costituzionale con sentenza n. 0265 del 2010 - Gazzetta Ufficiale n. 30 del 28 luglio 2010 - (dichiarativa dell'illegittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 - Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonche' in tema di atti persecutori - convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater del codice penale, e' applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure): 1. - La questione e' fondata in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., nei limiti di seguito specificati. 2. - La disposizione oggetto di scrutinio trova collocazione nell'ambito della disciplina codicistica delle misure cautelari personali, in particolare di quelle coercitive (artt. 272-286-bis), tutte consistenti nella privazione - in varie qualita', modalita' e tempi - della liberta' personale dell'indagato o dell'imputato durante il procedimento e prima comunque del giudizio definitivo sulla sua responsabilita'. In ragione di questi caratteri, i limiti di legittimita' costituzionale di dette misure, a fronte del principio di inviolabilita' della liberta' personale (art. 13, primo comma, Cost.), sono espressi - oltre che dalla riserva di legge, che esige la tipizzazione dei casi e dei modi, nonche' dei tempi di limitazione di tale liberta', e dalla riserva di giurisdizione, che esige sempre un atto motivato del giudice (art. 13, secondo e quinto comma, Cost.) - anche e soprattutto, per quanto qui rileva, dalla presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.), in forza della quale l'imputato non e' considerato colpevole sino alla condanna definitiva. L'antinomia tra tale presunzione e l'espressa previsione, da parte della stessa Carta costituzionale, di una detenzione ante iudicium (art. 13, quinto comma) e', in effetti, solo apparente: giacche' e' proprio la prima a segnare, in negativo, i confini di ammissibilita' della seconda. Affinche' le restrizioni della liberta' personale dell'indagato o imputato nel corso del procedimento siano compatibili con la presunzione di non colpevolezza e' necessario che esse assumano connotazioni nitidamente differenziate da quelle della pena, irrogabile solo dopo l'accertamento definitivo della responsabilita': e cio', ancorche' si tratti di misure - nella loro specie piu' gravi - ad essa corrispondenti sul piano del contenuto afflittivo. Il principio enunciato dall'art. 27, secondo comma, Cost. rappresenta, in altre parole, uno sbarramento insuperabile ad ogni ipotesi di assimilazione della coercizione processuale penale alla coercizione propria del diritto penale sostanziale, malgrado gli elementi che le accomunano. Da cio' consegue - come questa Corte ebbe a rilevare sin dalla sentenza n. 64 del 1970 - che l'applicazione delle misure cautelari non puo' essere legittimata in alcun caso esclusivamente da un giudizio anticipato di colpevolezza, ne' corrispondere - direttamente o indirettamente - a finalita' proprie della sanzione penale, ne', ancora e correlativamente, restare indifferente ad un preciso scopo (cosiddetto «vuoto dei fini»). Il legislatore ordinario e' infatti tenuto, nella tipizzazione dei casi e dei modi di privazione della liberta', ad individuare - soprattutto all'interno del procedimento e talora anche all'esterno (sentenza n. 1 del 1980) - esigenze diverse da quelle di anticipazione della pena e che debbano essere soddisfatte - entro tempi predeterminati (art. 13, quinto comma, Cost.) - durante il corso del procedimento stesso, tali da giustificare, nel bilanciamento di interessi meritevoli di tutela, il temporaneo sacrificio della liberta' personale di chi non e' stato ancora giudicato colpevole in via definitiva. Ulteriore indefettibile corollario dei principi costituzionali di riferimento e' che la disciplina della materia debba essere ispirata al criterio del «minore sacrificio necessario» (sentenza n. 299 del 2005): la compressione della liberta' personale dell'indagato o dell'imputato va contenuta, cioe', entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari riconoscibili nel caso concreto. Sul versante della «qualita'» delle misure, ne consegue che il ricorso alle forme di restrizione piu' intense - e particolarmente a quella «massima» della custodia carceraria - deve ritenersi consentito solo quando le esigenze processuali o extraprocessuali, cui il trattamento cautelare e' servente, non possano essere soddisfatte tramite misure di minore incisivita'. Questo principio e' stato affermato in termini netti anche dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, secondo la quale, in riferimento alla previsione dell'art. 5, paragrafo 3, della Convenzione, la carcerazione preventiva «deve apparire come la soluzione estrema che si giustifica solamente allorche' tutte le altre opzioni disponibili si rivelino insufficienti» (sentenze 2 luglio 2009, Vafiadis contro Grecia, e 8 novembre 2007. Lelievre contro Belgio). Il criterio del «minore sacrificio necessario» impegna, dunque, in linea di massima, il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della «pluralita' graduata», predisponendo una gamma alternativa di misure, connotate da differenti gradi di incidenza sulla liberta' personale; dall'altra, a prefigurare meccanismi «individualizzati» di selezione del trattamento cautelare, parametrati sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete. 3. - Il complesso di indicazioni costituzionali dinanzi evidenziate trova puntuale eco nella disciplina dettata dal codice di procedura penale, in attuazione della direttiva n. 59 della legge di delegazione 16 febbraio 1987, n. 81. Nella cornice di tale disciplina, la gravita' in astratto dei reati oggetto del procedimento rileva, difatti - in linea di principio - solo come limite generale di applicazione delle misure cautelari (art. 280, commi 1 e 2, cod. proc. pen.) o come quantum del limite temporale massimo di durata (ai fini della cosiddetta scarcerazione automatica: art. 303 cod. proc. pen.), non come criterio di scelta sul «se» e sulla «specie» della misura. Un giudizio di gravita' puo' essere legittimato, in determinate prospettive, solo sul fatto concreto oggetto del procedimento (ad esempio, artt. 274, comma 1, lettera c), e 275, comma 2, cod. proc. pen.) e in via generale e' richiesto, come condizione di applicazione delle misure, sugli indizi a carico: e' la cosiddetta gravita' indiziaria prevista dall'art. 273, comma 1, dello stesso codice. Si tratta, peraltro, di condizione necessaria, ma non sufficiente, dovendo la gravita' indiziaria sempre accompagnarsi ad esigenze cautelari, specificamente individuate dalla legge, legate alla tutela dell'acquisizione o della genuinita' della prova, al pericolo di fuga dell'imputato ovvero al rischio di commissione di gravi reati o di reati della stessa specie di quello per cui si procede (art. 274 cod. proc. pen.). In accordo con il modello sopra indicato, viene altresi' tipizzato un «ventaglio» di misure, di gravita' crescente in relazione all'incidenza sulla liberta' personale: divieto di espatrio (art. 281), obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria (art. 282), allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis), divieto e obbligo di dimora (variamente modulabile quanto ai tempi e ai limiti territoriali: art. 283), arresti domiciliari (variamente modulabili anche in luoghi diversi dall'abitazione propria del soggetto, vale a dire in altri luoghi privati o in luoghi pubblici di cura o di assistenza: art. 284), custodia cautelare in carcere (art. 285). Di particolare rilievo, ai presenti fini, sono poi i criteri di scelta delle misure nel novero di quelle tipizzate. Il primo e fondamentale e' quello di adeguatezza (art. 275, comma 1), secondo il quale, «nel disporre le misure, il giudice tiene conto della specifica idoneita' di ciascuna in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto». A questo precetto fa riscontro uno specifico obbligo di motivazione sul punto, sancito a pena di nullita' (art. 292, comma 2, lettera c), cod. proc. pen.). E' di tutta evidenza come proprio nel criterio di adeguatezza, correlato alla «gamma» graduata delle misure, trovi espressione il principio - implicato dal quadro costituzionale di riferimento - del «minore sacrificio necessario»: entro il «ventaglio» delle alternative prefigurate dalla legge, il giudice deve infatti prescegliere la misura meno afflittiva tra quelle astrattamente idonee a tutelare le esigenze cautelari nel caso concreto, in modo da ridurre al minimo indispensabile la lesivita' determinata dalla coercizione endoprocedimentale. A completamento e specificazione del criterio in parola e', poi, previsto che la piu' gravosa delle misure cautelari personali coercitive, vale a dire la custodia cautelare carceraria, «puo' essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata» (art. 275, comma 3, primo periodo, cod. proc. pen.). Su cio' il giudice che la applica e' tenuto a dare, a pena di nullita', una motivazione appropriata, mediante «l'esposizione delle concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all'articolo 274 non possono essere soddisfatte con altre misure» (art. 292, comma 2, lettera c-bis), cod. proc. pen.). Si tratta della natura cosiddetta residuale-eccezionale, o di extrema ratio, di questa misura. E' inoltre enunciato il criterio di proporzionalita', secondo il quale «ogni misura deve essere proporzionata all'entita' del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata» (art. 275, comma 2, cod. proc. pen.). 4. - Tratto saliente complessivo del regime ora ricordato - conforme al quadro costituzionale di riferimento - e' quello di non prevedere automatismi ne' presunzioni. Esso esige, invece, che le condizioni e i presupposti per l'applicazione di una misura cautelare restrittiva della liberta' personale siano apprezzati e motivati dal giudice sulla base della situazione concreta, alla stregua dei ricordati principi di adeguatezza, proporzionalita' e minor sacrificio, cosi' da realizzare una piena «individualizzazione» della coercizione cautelare. Da tali coordinate si discosta in modo vistoso - assumendo, con cio', carattere derogatorio ed eccezionale - la disciplina attualmente espressa dal secondo e dal terzo periodo del comma 3 dell'art. 275 cod. proc. pen., non presente nel testo originario del codice, ma in esso inserita via via, con lo strumento della decretazione d'urgenza, in un primo tempo tramite l'aggiunta del solo secondo periodo al citato art. 275, comma 3, sulla spinta di una situazione apprezzata come «emergenziale», legata segnatamente alla rilevata recrudescenza del fenomeno della criminalita' mafiosa e di altri gravi o gravissimi reati (art. 5, comma 1, del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, recante «Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalita' organizzata e di trasparenza e buon andamento dell'attivita' amministrativa», convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, e art. 1, comma 1, del decreto-legge 9 settembre 1991, n. 292, recante «Disposizioni in materia di custodia cautelare, di avocazione dei procedimenti penali per reati di criminalita' organizzata e di trasferimenti di ufficio di magistrati per la copertura di uffici giudiziari non richiesti», convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 1991, n. 356); successivamente (attraverso l'art. 5 della legge 8 agosto 1995, n. 332, recante «Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa») con un contenimento di questa speciale disciplina, mediante una drastica riduzione dei reati a essa assoggettati a quelli di cui all'art. 416-bis cod. pen. ovvero commessi avvalendosi delle condizioni previste da detto articolo o per agevolare le associazioni ivi indicate; infine, nuovamente e notevolmente ampliando il novero dei reati stessi, con le addizioni recate al vigente secondo periodo e con quelle ulteriori incluse nel nuovo terzo periodo del comma 3 dell'art. 275 (mediante gli interventi parimenti emergenziali dell'art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38). In base alla disciplina in questione, nei procedimenti per taluni delitti, analiticamente elencati, ove ricorra la condizione della gravita' indiziaria, il giudice dispone senz'altro l'applicazione della misura cautelare della custodia carceraria, «salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari». Per comune opinione, la previsione ora ricordata racchiude una duplice presunzione. La prima, a carattere relativo, attiene alle esigenze cautelari, che il giudice deve considerare sussistenti, quante volte non consti la prova della loro mancanza (prova di tipo negativo, dunque, che deve necessariamente proiettarsi su ciascuna delle fattispecie identificate dall'art. 274 cod. proc. pen.). La seconda, a carattere assoluto, concerne la scelta della misura: ove la presunzione relativa non risulti vinta, subentra un apprezzamento legale, vincolante e incontrovertibile, di adeguatezza della sola custodia carceraria a fronteggiare le esigenze presupposte, con conseguente esclusione di ogni soluzione «intermedia» tra questa e lo stato di piena liberta' dell'imputato. Il modello ora evidenziato si traduce, sul piano pratico, in una marcata attenuazione dell'obbligo di motivazione dei provvedimenti applicativi della custodia cautelare in carcere. Secondo un indirizzo consolidato della giurisprudenza di legittimita', difatti, in presenza di gravi indizi di colpevolezza per uno dei reati considerati, il giudice assolve il suddetto obbligo dando semplicemente atto dell'inesistenza di elementi idonei a vincere la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari, senza dovere specificamente motivare sul punto; mentre solo nel caso in cui l'indagato o la sua difesa abbiano allegato elementi di segno contrario, egli sara' tenuto a giustificare la ritenuta inidoneita' degli stessi a superare la presunzione. Non vi sara' luogo, in ogni caso, ad esporre quanto ordinariamente richiesto dalla seconda parte delle lettere c) e c-bis) dell'art. 292, comma 2, cod. proc. pen., rimanendo irrilevante, a fronte dell'apprezzamento legale, l'eventuale convinzione del giudice che le esigenze cautelari possano essere concretamente soddisfatte tramite una misura cautelare meno incisiva di quella «massima». Tali marcati profili di scostamento rispetto al regime ordinario avevano indotto il legislatore - nell'ambito di un piu' generale disegno di recupero delle garanzie in materia di misure cautelari - a delimitare in senso restrittivo il campo di applicazione della disciplina derogatoria, costituente un vero e proprio regime cautelare speciale di natura eccezionale. Riferito, ai suoi esordi, ad una nutrita e disparata serie di figure criminose, il regime speciale era stato infatti circoscritto - a partire dal 1995, come dianzi ricordato - ai soli procedimenti per delitti di mafia in senso stretto (art. 5, comma 1, della citata legge n. 332 del 1995). In tali limiti, la previsione aveva superato il vaglio tanto di questa Corte che della Corte europea dei diritti dell'uomo. Entrambe le Corti avevano, infatti, in vario modo valorizzato la specificita' dei predetti delitti, la cui connotazione strutturale astratta (come reati associativi e, dunque, permanenti entro un contesto di criminalita' organizzata, o come reati a tale contesto comunque collegati) valeva a rendere «ragionevoli» - nei relativi procedimenti - le presunzioni in questione, e segnatamente quella di adeguatezza della sola custodia carceraria, trattandosi, in sostanza, della misura piu' idonea a neutralizzare il periculum libertatis connesso al verosimile protrarsi dei contatti tra imputato ed associazione. In particolare, con l'ordinanza n. 450 del 1995, questa Corte aveva escluso che la presunzione in parola violasse gli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., rilevando che se la verifica della sussistenza delle esigenze cautelari («l'an della cautela») non puo' prescindere da un accertamento in concreto, l'individuazione della misura da applicare («il quomodo») non comporta indefettibilmente l'affidamento al giudice di analogo potere di apprezzamento, potendo la scelta essere effettuata anche in termini generali dal legislatore, purche' «nel rispetto del limite della ragionevolezza e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti» (in senso analogo, sul punto, ordinanze n. 130 del 2003 e n. 40 del 2002). Nella specie, deponeva nel senso della ragionevolezza della soluzione adottata «la delimitazione della norma all'area dei delitti di criminalita' organizzata di tipo mafioso», tenuto conto del «coefficiente di pericolosita' per le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva che agli illeciti di quel genere e' connaturato». A sua volta, la Corte di Strasburgo - pronunciando su un ricorso volto a denunciare l'irragionevole durata della custodia cautelare in carcere applicata ad un indagato per il delitto di cui all'art. 416-bis cod. pen. e la conseguente violazione dell'art. 5, paragrafo 3, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo - non aveva mancato di rilevare come una presunzione quale quella prevista dall'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. potesse, in effetti, «impedire al giudice di adattare la misura cautelare alle esigenze del caso concreto» e, dunque, «apparire eccessivamente rigida». Nondimeno, secondo la Corte europea, la disciplina in esame rimaneva giustificabile alla luce «della natura specifica del fenomeno della criminalita' organizzata e soprattutto di quella di stampo mafioso», e segnatamente in considerazione del fatto che la carcerazione provvisoria delle persone accusate del delitto in questione «tende a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito criminale di origine, al fine di minimizzare il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo delitti» (sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia). 5. - E' su questo quadro che si innesta l'ulteriore intervento novellistico che da origine agli odierni quesiti di costituzionalita', operato con il decreto-legge n. 11 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 38 del 2009. Compiendo un «salto di qualita'» a ritroso, rispetto alla novella del 1995, l'art. 2, comma 1, lettere a) e a-bis), del citato provvedimento d'urgenza riespande l'ambito di applicazione della disciplina eccezionale ai procedimenti aventi ad oggetto numerosi altri reati, individuati in parte mediante diretto richiamo agli articoli di legge che descrivono le relative fattispecie e per il resto tramite rinvio «mediato» alle norme processuali di cui all'art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen.; reati tra i quali si annovera l'omicidio (art. 575 c.p). E' agevole constatare come le estensioni operate - successivamente implementate da modifiche legislative che non hanno interessato direttamente la norma impugnata (ad esempio, art. 12, comma 4-bis, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, recante il «Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero», aggiunto dalla legge 15 luglio 2009, n. 94, recante «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica») - riguardino fattispecie penali in larga misura eterogenee fra loro (fatta eccezione per i delitti «a sfondo sessuale»), e cioe' poste a tutela di differenti beni giuridici, assai diversamente strutturate e con trattamenti sanzionatori anche notevolmente differenti (si pensi all'omicidio volontario, al sequestro di persona a scopo di estorsione, all'associazione finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri, ai delitti commessi con finalita' di terrorismo o di eversione) e accomunate unicamente dall'essere i relativi procedimenti assoggettati al regime cautelare speciale in questione. 6. - La norma in esame deve essere censurata di illegittimita' costituzionale limitatamente al fatto che non consente di applicare una misura cautelare meno afflittivi nei procedimenti a quibus, aventi ad oggetto i delitti sessuali dinanzi citati. Deve essere, dunque, sottoposta allo scrutinio di costituzionalita' esclusivamente la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare carceraria, mentre resta fuori del devoluto la presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari: dandosi per scontata questa sussistenza, cio' che rileva, secondo i rimettenti, e determina l'illegittimita' costituzionale e' la lesione del principio del «minore sacrificio necessario». 7. - Secondo la giurisprudenza di questa Corte, «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioe' se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit». In particolare, l'irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia «agevole» formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa (sentenza n. 139 del 2010). Per questo verso, alle figure criminose che interessano (e specificamente all'omicidio) non puo' estendersi la ratio gia' ritenuta, sia da questa Corte che dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, idonea a giustificare la deroga alla disciplina ordinaria quanto ai procedimenti relativi a delitti di mafia in senso stretto: vale a dire che dalla struttura stessa della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche - connesse alla circostanza che l'appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un'adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice - deriva, nella generalita' dei casi concreti ad essa riferibili e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere (non essendo le misure «minori» sufficienti a troncare i rapporti tra l'indiziato e l'ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosita'). Con riguardo all'omicidio non e' consentito pervenire ad analoga conclusione. La regola di esperienza, in questo caso, e' ben diversa: ed e' che i fatti concreti, riferibili alle fattispecie in questione (pur a prescindere dalle ipotesi attenuate e considerando quelle ordinarie) non solo presentano disvalori nettamente differenziabili (basti pensare alla particolarita' dei casi di omicidio determinato da dolo d'impeto, o di omicidio commesso in stato di ira determinato da un fatto ingiusto altrui, o ancora di omicidio commesso per motivi di particolare valore morale o sociale), ma anche e soprattutto possono proporre esigenze cautelari suscettibili di essere soddisfatte con diverse misure. Per quanto odiosi e riprovevoli, i fatti che integrano le varie tipologie di omicidio ben possono essere e in effetti spesso sono tali, per le loro connotazioni, da non postulare esigenze cautelari affrontabili solo e rigidamente con la massima misura, ma da potere rendere adeguata anche la misura degli arresti domiciliari in luogo diverso dalla abitazione del soggetto (art. 284 cod. proc. pen.), eventualmente accompagnati anche da particolari strumenti di controllo (quale il cosiddetto braccialetto elettronico: art. 275-bis), l'obbligo o il divieto di dimora o anche solo di accesso in determinati luoghi (art. 283). 8. - La ragionevolezza della soluzione normativa scrutinata non potrebbe essere rinvenuta neppure, per altro verso, nella gravita' astratta del reato, considerata sia in rapporto alla misura della pena, sia in rapporto alla natura (e, in particolare, all'elevato rango) dell'interesse tutelato. Questi parametri giocano un ruolo di rilievo, ma neppure esaustivo, in sede di giudizio di colpevolezza, particolarmente per la determinazione della sanzione, ma risultano, di per se', inidonei a fungere da elementi preclusivi ai fini della verifica della sussistenza di esigenze cautelari e - per quanto qui rileva - del loro grado, che condiziona l'identificazione delle misure idonee a soddisfarle. D'altra parte, l'interesse tutelato penalmente e', nella generalita' dei casi, un interesse primario, dotato di diretto o indiretto aggancio costituzionale, invocando il quale si potrebbe allargare indefinitamente il novero dei reati sottratti in modo assoluto al principio di adeguatezza, fino a travolgere la valenza di quest'ultimo facendo leva sull'incensurabilita' della discrezionalita' legislativa. Ove dovesse aversi riguardo, poi, alla misura edittale della pena, la scelta del legislatore non potrebbe che apparire palesemente scompensata e arbitraria. Procedimenti relativi a gravissimi delitti - puniti con pene piu' severe di quelli che qui vengono in rilievo (taluni addirittura con l'ergastolo) - restano, infatti, sottratti al regime cautelare speciale: basti pensare alla strage (art. 422 cod. pen.), alla devastazione o saccheggio (art. 419 cod. pen.), alla rapina e all'estorsione aggravate (artt. 628, terzo comma, e 629, secondo comma, cod. pen.), alla produzione, traffico e detenzione illeciti di stupefacenti, anche con riguardo all'ipotesi aggravata di cessione a minorenni (artt. 73 e 80, comma 1, lettera a), del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309). 9. - Tanto meno, infine, la presunzione in esame potrebbe rinvenire la sua fonte di legittimazione nell'esigenza di contrastare situazioni causa di allarme sociale, determinate dalla asserita crescita numerica di taluni delitti. La eliminazione o riduzione dell'allarme sociale cagionato dal reato del quale l'imputata e' accusata non puo' essere peraltro annoverata tra le finalita' della custodia preventiva e non puo' essere considerata una sua funzione. La funzione di rimuovere l'allarme sociale cagionato dal reato e' una funzione istituzionale della pena perche' presuppone, ovviamente, la certezza circa il responsabile del delitto che ha provocato l'allarme e la reazione della societa'. Non e' dubitabile, in effetti, che il legislatore possa e debba rendersi interprete dell'acuirsi del sentimento di riprovazione sociale verso determinate forme di criminalita', avvertite dalla generalita' dei cittadini come particolarmente odiose e pericolose, quali indiscutibilmente sono quelle considerate. Ma a tale fine deve servirsi degli strumenti appropriati, costituiti dalla comminatoria di pene adeguate, da infliggere all'esito di processi rapidi a chi sia stato riconosciuto responsabile di quei reati; non gia' da una indebita anticipazione di queste prima di un giudizio di colpevolezza. Nella specie, per converso, la totale vanificazione del principio di adeguatezza, in difetto di una ratio correlata alla struttura delle fattispecie criminose di riferimento, cumulandosi alla presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari, orienta chiaramente lo «statuto custodiale» - conformita' alle evidenziate risultanze dei lavori parlamentari - verso finalita' «meta cautelari», che nel disegno costituzionale devono essere riservate esclusivamente alla sanzione penale inflitta all'esito di un giudizio definitivo di responsabilita'. 10. - Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve dunque concludere che la norma impugnata viola, in parte qua, sia l'art. 3 Cost., per l'ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi al delitto in questione a quelli concernenti i delitti di mafia nonche' per l'irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai paradigmi punitivi considerati; sia l'art. 13, primo comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della liberta' personale; sia, infine, l'art. 27, secondo comma, Cost., in quanto attribuisce alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena. Al fine di attingere, quanto meno ad un livello minimo e tenuto conto dei limiti delle questioni devolute allo scrutinio di questa Corte, la compatibilita' costituzionale della norma censurata non e' peraltro necessario rimuovere integralmente la presunzione di cui discute. Cio' che rende costituzionalmente inaccettabile la presunzione stessa e' per certo il suo carattere assoluto, che si risolve in una indiscriminata e totale negazione di rilievo al principio del «minore sacrificio necessario», anche quando sussistano - come nei casi oggetto dei procedimenti a quibus, secondo quanto riferiscono i giudici rimettenti - specifici elementi da cui desumere, in positivo, la sufficienza di misure diverse e meno rigorose della custodia in carcere. La previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza di quest'ultima - atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio suggerita da taluni aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile da elementi probatori di segno contrario - non eccede, per contro, i limiti di compatibilita' con i parametri evocati, rimanendo per tale verso non censurabile l'apprezzamento legislativo, in rapporto alle caratteristiche dei reati in questione, della ordinaria configurabilita' di esigenze cautelari nel grado piu' intenso (per una conclusione analoga, con riguardo alla fattispecie da essa esaminata, sentenza n. 139 del 2010). In tale modo, si evita comunque l'irrazionale equiparazione dei procedimenti relativi al reato di omicidio a quelli concernenti la criminalita' di tipo mafioso e si lascia spazio alla differenziazione delle varie fattispecie concrete riconducibili ai paradigmi punitivi astratti. Il reato in questione resta assoggettato ad un regime cautelare speciale, tuttavia attenuato dalla natura relativa - e quindi superabile - della presunzione di adeguatezza della custodia carceraria e, percio', non incompatibile con il quadro costituzionale di riferimento. L'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all'articolo 575 del codice penale, e' applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.