IL TRIBUNALE 
 
    Decidendo sull'appello proposto ex art. 310  c.p.p.  in  data  25
settembre  2010  nell'interesse  di  L.  G.  rappresentata  e  difesa
dall'avv. P. Cannoletta, avverso l'ordinanza di rigetto della istanza
ex art. 299  c.p.p.  di  sostituzione  della  custodia  cautelare  in
carcere con gli arresti domiciliari emessa in  data  20  agosto  2010
dalla Corte di Assise di Appello di Lecce. 
    La L. essendo soggetta alla custodia cautelare in carcere per  il
reato di omicidio volontario in  concorso,  per  il  quale  e'  stata
condannata ad anni sedici e mesi due di reclusione con sentenza della
Corte di Assise di Appello emessa il 14 luglio 2010. 
    Sentito il difensore; esaminati gli atti prodotti; sciogliendo la
riserva di cui al verbale di udienza, ha emesso la seguente ordinanza
di proposizione di questione di legittimita' costituzionale. 
    In data 21 luglio 2008 L. G. veniva raggiunta da provvedimento di
fermo per il reato di concorso con T. M. D. nell'omicidio  volontario
di C. B. S., oggetto di contestazione; il  fermo  veniva  convalidato
dal GIP che con ordinanza del 23 luglio 2008  applicava  alla  L.  la
misura della custodia  cautelare  in  carcere;  la  difesa  proponeva
istanza ex art. 299 c.p.p. di sostituzione della misura  al  GIP,  il
quale rigettava l'istanza con ordinanza del 23 luglio  2008;  avverso
detta ordinanza la difesa proponeva appello ex art. 310 c.p.p.  e  il
Tribunale del Riesame,  con  ordinanza  del  19  settembre  2008,  in
accoglimento dell'appello, disponeva la sostituzione  della  custodia
cautelare in carcere con gli arresti domiciliari; detta ordinanza non
veniva impugnata dal P.M. e diventava  definitiva.  Nel  corso  della
requisitoria in primo grado il  P.M.  chiedeva  il  ripristino  della
custodia cautelare  in  carcere,  in  forza  dell'entrata  in  vigore
dell'art.  2  d.l.  n.  11/2009;  il  GUP  accoglieva   l'istanza   e
ripristinava la custodia cautelare in carcere. Con  istanza  ex  art.
299 c.p.p. la difesa adiva la Corte di Assise di  Appello  di  Lecce,
chiedendo la sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli
arresti   domiciliari,   sia   per   una   dedotta   situazione    di
incompatibilita'  delle  condizioni  di  salute  della  L.   con   la
detenzione carceraria e sia proponendo la questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 275, comma 3 c.p.p. come novellato dall'art.
2 d.l. n. 11/2009; la Corte di Assise di Appello, con  ordinanza  del
20 agosto 2010,  rigettava  l'istanza;  avverso  detta  ordinanza  di
rigetto viene oggi proposto appello ai sensi  dell'art.  310  c.p.p.,
riproponendosi   sia   la   questione   dell'incompatibilita'   delle
condizioni di salute della L. con la detenzione carceraria e  sia  la
questione di legittimita' costituzionale gia' sollevata  in  sede  di
prima istanza. 
    Ritiene questo Tribunale non manifestamente infondata e rilevante
la questione di legittimita' costituzionale dell'art.  275,  comma  3
del codice di procedura  penale,  come  modificato  dall'art.  2  del
decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in  materia  di
sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonche'  in
tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge
23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui - nel prevedere che, quando
sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti  di  cui
all'articoli  575  del  codice  penale,  e'  applicata  la   custodia
cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti  elementi  dai  quali
risulti che  non  sussistono  esigenze  cautelari  -  non  fa  salva,
altresi', l'ipotesi in cui siano  acquisiti  elementi  specifici,  in
relazione al  caso  concreto,  dai  quali  risulti  che  le  esigenze
cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. 
La rilevanza della questione di legittimita' costituzionale. 
    Al fine di valutare la rilevanza della questione di  legittimita'
costituzionale,  deve  essere  in  primo  luogo  esaminata,  in   via
incidentale, la questione relativa alla sussistenza dei gravi  indizi
di colpevolezza a carico della L. «Nulla quaestio» sul punto,  atteso
che l'imputata e' stata condannata in primo grado  e  successivamente
in appello alla pena di anni sedici e mesi  due  di  reclusione.  Per
costante giurisprudenza di  legittimita',  la  sentenza  di  condanna
(tanto piu' se in grado di appello) e'  di  per  se'  sufficiente  ad
integrare i gravi indizi di colpevolezza. 
    In ordine al tema delle esigenze  cautelari,  occorre  premettere
quanto segue: come gia' detto, in data 21 luglio 2008  L.  G.  veniva
raggiunta da provvedimento di fermo per il reato di omicidio  oggetto
di contestazione;  il  fermo  veniva  convalidato  dal  GIP  che  con
ordinanza del 23 luglio 2008,  applicava  alla  L.  la  misura  della
custodia cautelare in carcere; la difesa proponeva  istanza  ex  art.
299 c.p.p. di sostituzione della misura al GIP,  il  quale  rigettava
l'istanza con ordinanza del 23 luglio 2008, avverso  detta  ordinanza
la difesa proponeva appello ex art. 310 c.p.p.  e  il  Tribunale  del
Riesame,  con  ordinanza  del  19  settembre  2008,  in  accoglimento
dell'appello, disponeva la sostituzione della custodia  cautelare  in
carcere con gli  arresti  domiciliari;  detta  ordinanza  non  veniva
impugnata  dal  P.M.  e  diventava  definitiva.   Nel   corso   della
requisitoria in primo grado il  P.M.  chiedeva  il  ripristino  della
custodia cautelare  in  carcere,  in  forza  dell'entrata  in  vigore
dell'art.  2  d.l.  n.  11/2009;  il  GUP  accoglieva   l'istanza   e
ripristinava la custodia cautelare  in  carcere.  Tale  ricostruzione
storica delle vicende processuali e' decisiva ai fini del giudizio di
rilevanza  sulla  questione  di  legittimita'   costituzionale,   con
specifico riferimento alla definizione nel caso  in  esame  del  tema
delle esigenze cautelari. 
    Ed infatti,  il  quadro  delle  esigenze  cautelari,  cosi'  come
accertato dal Tribunale del Riesame con la citata  ordinanza  del  19
settembre 2008 (non impugnata dal P.M. e  divenuta  definitiva),  era
stato giudicato tale da far  ritenere  che  nel  caso  di  specie  le
esigenze  di  cui  all'art.  274,  lett.  c)  c.p.p.   (pericolo   di
reiterazione  delle  medesime  condotte  criminose)  potevano  essere
soddisfatte con la misura degli arresti domiciliari.  In  particolare
nella citata ordinanza si legge quanto segue: «... e' innegabile  che
la peculiarita' del caso - a carattere reattivo a fronte di una lunga
storia di violenze subite - e la presenza nella vicenda di un uomo di
ben maggiore esperienza,  quale  il  T.,  con  precedenti  specifici,
spinge ad assegnare alla donna un ruolo  servente  nella  vicenda,  e
quindi a delineare una pericolosita' attenuata, che ben  puo'  essere
arginata con la misura degli arresti domiciliari, tanto piu'  che  la
prevenuta non risulta avere mai violato gli ordini dell'autorita'». 
    Rispetto a quella valutazione espressa dal Tribunale del  Riesame
(divenuta  giudicato  cautelare)   fino   ad   oggi   non   risultano
assolutamente sopravvenuti elementi  di  novita'  che  possano  avere
determinato un aggravamento in concreto  del  quadro  delle  esigenze
cautelari considerate. 
    L'unico  elemento   di   novita'   sopravvenuto   e'   costituito
dall'entrata in vigore  della  novella  modificativa  dell'art.  275,
comma 3 c.p.p., in forza del  quale  oggi,  quando  sussistono  gravi
indizi di colpevolezza per il reato di cui  all'art.  575  c.p.,  «e'
applicata la custodia cautelare in carcere salvo che siano  acquisiti
elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari». 
    Dalla  ricostruzione  che  precede   emerge   l'indiscutibile   e
pregnante rilevanza della questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 275, comma 3,  secondo  e  terzo  periodo,  del  codice  di
procedura penale, come modificato dall'art. 2  del  decreto-legge  23
febbraio 2009, n. 11, atteso che nel  caso  di  specie  risulta  gia'
accertato, in forza della citata ordinanza ex art. 310 c.p.p.  emessa
il 19 settembre  2008,  che  le  esigenze  cautelari  possono  essere
soddisfatte con la misura degli arresti domiciliari. 
    E' appena il caso di  rilevare  che  la  circostanza  dell'omessa
impugnativa avverso l'ordinanza con la quale il GUP,  accogliendo  la
richiesta del P.M., aveva a suo tempo disposto  il  ripristino  della
custodia cautelare in carcere, non e' di alcun ostacolo o impedimento
processuale rispetto alla proponibilita' di un'autonoma richiesta  di
sostituzione della misura ai sensi dell'art. 299 c.p.p.,  tanto  piu'
ove tale istanza  sia  stata  proposta  sull'espresso  rilievo  della
proposta questione di legittimita' costituzionale. 
    Infine,  il  carattere   decisivo   che   assume   nel   presente
procedimento la definizione della questione di legittimita' dell'art.
275, comma 3 c.p.p.  e'  ulteriormente  confermato  dall'infondatezza
(rilevabile fin da ora, quanto meno in via incidentale) del primo dei
motivi di appello proposti dalla difesa, vale a dire quello avente ad
oggetto la dedotta incompatibilita' delle condizioni di salute  della
L. con la  detenzione  carceraria;  ed  infatti,  in  ordine  a  tale
questione si deve rilevare che il consulente medico legale incaricato
da questo Collegio, dott. Roberto Vaglio, con relazione depositata il
6 novembre 2010, ha concluso che le condizioni di salute della L. non
sono incompatibili con la detenzione carceraria. 
La non manifesta infondatezza. 
    L'art. 275, comma 3, secondo  e  terzo  periodo,  del  codice  di
procedura penale, come modificato dall'art. 2  del  decreto-legge  23
febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica
e di contrasto alla  violenza  sessuale,  nonche'  in  tema  di  atti
persecutori), convertito, con modificazioni, dalla  legge  23  aprile
2009, n.  38,  nella  parte  in  cui  -  nel  prevedere  che,  quando
sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti  di  cui
all'articoli  575  del  codice  penale,  e'  applicata  la   custodia
cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti  elementi  dai  quali
risulti che  non  sussistono  esigenze  cautelari  -  non  fa  salva,
altresi', l'ipotesi in cui siano  acquisiti  elementi  specifici,  in
relazione al  caso  concreto,  dai  quali  risulti  che  le  esigenze
cautelari  possono   essere   soddisfatte   con   altre   misure   e'
costituzionalmente illegittimo per  violazione  degli  artt.  3,  13,
primo comma, e 27,  secondo  comma,  Cost.,  nei  limiti  di  seguito
specificati, che sono stati gia' ritenuti ed  affermati  dalla  Corte
costituzionale con sentenza n. 0265 del 2010 - Gazzetta Ufficiale  n.
30  del  28   luglio   2010   -   (dichiarativa   dell'illegittimita'
costituzionale dell'art. 275, comma 3, secondo e terzo  periodo,  del
codice  di  procedura  penale,  come  modificato  dall'art.   2   del
decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 - Misure urgenti in materia  di
sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonche'  in
tema di atti persecutori - convertito, con modificazioni, dalla legge
23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui - nel prevedere che, quando
sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti  di  cui
agli articoli 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater  del  codice
penale, e' applicata la custodia  cautelare  in  carcere,  salvo  che
siano  acquisiti  elementi  dai  quali  risulti  che  non  sussistono
esigenze cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi in  cui  siano
acquisiti elementi specifici, in  relazione  al  caso  concreto,  dai
quali risulti che le esigenze cautelari  possono  essere  soddisfatte
con altre misure): 
    1. - La questione e' fondata in riferimento  agli  artt.  3,  13,
primo comma, e 27,  secondo  comma,  Cost.,  nei  limiti  di  seguito
specificati. 
    2. - La disposizione  oggetto  di  scrutinio  trova  collocazione
nell'ambito  della  disciplina  codicistica  delle  misure  cautelari
personali, in particolare di quelle coercitive  (artt.  272-286-bis),
tutte consistenti nella privazione - in varie qualita',  modalita'  e
tempi  -  della  liberta'  personale  dell'indagato  o  dell'imputato
durante il procedimento e  prima  comunque  del  giudizio  definitivo
sulla sua responsabilita'. 
    In  ragione  di  questi  caratteri,  i  limiti  di   legittimita'
costituzionale  di  dette  misure,  a   fronte   del   principio   di
inviolabilita'  della  liberta'  personale  (art.  13,  primo  comma,
Cost.), sono espressi - oltre che dalla riserva di legge,  che  esige
la tipizzazione dei casi e dei modi, nonche' dei tempi di limitazione
di tale liberta', e dalla riserva di giurisdizione, che esige  sempre
un atto motivato del giudice (art. 13, secondo e quinto comma, Cost.)
- anche e soprattutto, per quanto qui rileva,  dalla  presunzione  di
non colpevolezza (art. 27, secondo  comma,  Cost.),  in  forza  della
quale l'imputato non e'  considerato  colpevole  sino  alla  condanna
definitiva. 
    L'antinomia tra tale  presunzione  e  l'espressa  previsione,  da
parte della stessa  Carta  costituzionale,  di  una  detenzione  ante
iudicium (art. 13, quinto comma)  e',  in  effetti,  solo  apparente:
giacche' e' proprio la prima a segnare, in  negativo,  i  confini  di
ammissibilita' della seconda. Affinche' le restrizioni della liberta'
personale dell'indagato o imputato nel corso del  procedimento  siano
compatibili con la presunzione di non colpevolezza e' necessario  che
esse assumano connotazioni nitidamente differenziate da quelle  della
pena,  irrogabile   solo   dopo   l'accertamento   definitivo   della
responsabilita': e cio', ancorche' si tratti di misure -  nella  loro
specie piu' gravi - ad essa corrispondenti sul  piano  del  contenuto
afflittivo. Il principio enunciato dall'art. 27, secondo comma, Cost.
rappresenta, in altre parole, uno sbarramento  insuperabile  ad  ogni
ipotesi di assimilazione della coercizione  processuale  penale  alla
coercizione propria del  diritto  penale  sostanziale,  malgrado  gli
elementi che le accomunano. 
    Da cio' consegue - come questa Corte ebbe a  rilevare  sin  dalla
sentenza n. 64 del 1970 - che l'applicazione delle  misure  cautelari
non puo' essere  legittimata  in  alcun  caso  esclusivamente  da  un
giudizio anticipato di colpevolezza, ne' corrispondere - direttamente
o indirettamente - a finalita' proprie della  sanzione  penale,  ne',
ancora e correlativamente, restare indifferente ad un  preciso  scopo
(cosiddetto «vuoto dei fini»). Il legislatore  ordinario  e'  infatti
tenuto, nella tipizzazione dei casi e dei modi  di  privazione  della
liberta', ad individuare - soprattutto all'interno del procedimento e
talora anche all'esterno (sentenza n. 1 del 1980) - esigenze  diverse
da  quelle  di  anticipazione  della  pena  e  che   debbano   essere
soddisfatte - entro tempi  predeterminati  (art.  13,  quinto  comma,
Cost.)  -  durante  il  corso  del  procedimento  stesso,   tali   da
giustificare, nel bilanciamento di interessi meritevoli di tutela, il
temporaneo sacrificio della liberta' personale di chi  non  e'  stato
ancora giudicato colpevole in via definitiva. 
    Ulteriore indefettibile corollario dei principi costituzionali di
riferimento e' che la disciplina della materia debba essere  ispirata
al criterio del «minore sacrificio necessario» (sentenza n.  299  del
2005): la  compressione  della  liberta'  personale  dell'indagato  o
dell'imputato  va   contenuta,   cioe',   entro   i   limiti   minimi
indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari  riconoscibili  nel
caso concreto. 
    Sul versante della «qualita'» delle misure, ne  consegue  che  il
ricorso alle forme di restrizione piu' intense - e particolarmente  a
quella  «massima»  della  custodia  carceraria   -   deve   ritenersi
consentito solo quando le esigenze  processuali  o  extraprocessuali,
cui  il  trattamento  cautelare  e'  servente,  non  possano   essere
soddisfatte tramite misure di minore incisivita'. Questo principio e'
stato affermato in  termini  netti  anche  dalla  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo, secondo la quale, in riferimento  alla  previsione
dell'art.  5,  paragrafo  3,  della  Convenzione,   la   carcerazione
preventiva «deve apparire come la soluzione estrema che si giustifica
solamente allorche' tutte le altre opzioni  disponibili  si  rivelino
insufficienti» (sentenze 2 luglio 2009, Vafiadis contro Grecia,  e  8
novembre 2007. Lelievre contro Belgio). 
    Il criterio del «minore sacrificio necessario»  impegna,  dunque,
in linea di massima, il legislatore, da una parte, a  strutturare  il
sistema cautelare secondo il  modello  della  «pluralita'  graduata»,
predisponendo  una  gamma  alternativa  di   misure,   connotate   da
differenti gradi di incidenza sulla liberta' personale; dall'altra, a
prefigurare   meccanismi   «individualizzati»   di   selezione    del
trattamento cautelare, parametrati sulle esigenze configurabili nelle
singole fattispecie concrete. 
    3.  -  Il  complesso  di   indicazioni   costituzionali   dinanzi
evidenziate trova puntuale eco nella disciplina dettata dal codice di
procedura penale, in attuazione della direttiva n. 59 della legge  di
delegazione 16 febbraio 1987, n. 81. 
    Nella cornice di tale disciplina, la  gravita'  in  astratto  dei
reati  oggetto  del  procedimento  rileva,  difatti  -  in  linea  di
principio - solo come limite generale di  applicazione  delle  misure
cautelari (art. 280, commi 1 e 2, cod. proc. pen.) o come quantum del
limite  temporale  massimo  di  durata  (ai  fini  della   cosiddetta
scarcerazione  automatica:  art.  303  cod.  proc.  pen.),  non  come
criterio di scelta sul «se» e sulla «specie» della misura. 
    Un giudizio di gravita' puo' essere legittimato,  in  determinate
prospettive, solo sul fatto concreto  oggetto  del  procedimento  (ad
esempio, artt. 274, comma 1, lettera c), e 275, comma 2,  cod.  proc.
pen.) e in via generale e' richiesto, come condizione di applicazione
delle misure, sugli  indizi  a  carico:  e'  la  cosiddetta  gravita'
indiziaria prevista dall'art. 273, comma 1, dello stesso codice. 
    Si  tratta,  peraltro,   di   condizione   necessaria,   ma   non
sufficiente, dovendo la gravita' indiziaria sempre  accompagnarsi  ad
esigenze cautelari, specificamente individuate  dalla  legge,  legate
alla tutela dell'acquisizione o  della  genuinita'  della  prova,  al
pericolo di fuga dell'imputato ovvero al rischio  di  commissione  di
gravi reati o di reati della stessa  specie  di  quello  per  cui  si
procede (art. 274 cod. proc. pen.). 
    In  accordo  con  il  modello  sopra  indicato,  viene   altresi'
tipizzato  un  «ventaglio»  di  misure,  di  gravita'  crescente   in
relazione all'incidenza sulla liberta' personale: divieto di espatrio
(art. 281), obbligo di presentazione alla polizia  giudiziaria  (art.
282), allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis),  divieto  e
obbligo di dimora (variamente modulabile quanto ai tempi e ai  limiti
territoriali: art. 283), arresti domiciliari  (variamente  modulabili
anche in luoghi diversi dall'abitazione propria del soggetto, vale  a
dire in altri luoghi privati o  in  luoghi  pubblici  di  cura  o  di
assistenza: art. 284), custodia cautelare in carcere (art. 285). 
    Di particolare rilievo, ai presenti fini, sono poi i  criteri  di
scelta delle misure nel  novero  di  quelle  tipizzate.  Il  primo  e
fondamentale e' quello di adeguatezza (art. 275, comma 1), secondo il
quale,  «nel  disporre  le  misure,  il  giudice  tiene  conto  della
specifica idoneita' di ciascuna in relazione alla natura e  al  grado
delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto».  A  questo
precetto fa riscontro uno specifico obbligo di motivazione sul punto,
sancito a pena di nullita' (art. 292, comma 2, lettera c), cod. proc.
pen.). 
    E' di tutta evidenza come proprio nel  criterio  di  adeguatezza,
correlato alla «gamma» graduata delle misure,  trovi  espressione  il
principio - implicato dal quadro costituzionale di riferimento -  del
«minore  sacrificio   necessario»:   entro   il   «ventaglio»   delle
alternative  prefigurate  dalla  legge,  il  giudice   deve   infatti
prescegliere la  misura  meno  afflittiva  tra  quelle  astrattamente
idonee a tutelare le esigenze cautelari nel caso concreto, in modo da
ridurre al  minimo  indispensabile  la  lesivita'  determinata  dalla
coercizione endoprocedimentale. 
    A completamento e specificazione del criterio in parola e',  poi,
previsto  che  la  piu'  gravosa  delle  misure  cautelari  personali
coercitive, vale a  dire  la  custodia  cautelare  carceraria,  «puo'
essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata»
(art. 275, comma 3, primo periodo,  cod.  proc.  pen.).  Su  cio'  il
giudice che la applica e' tenuto a dare,  a  pena  di  nullita',  una
motivazione appropriata, mediante  «l'esposizione  delle  concrete  e
specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui  all'articolo  274
non possono essere soddisfatte con altre misure» (art. 292, comma  2,
lettera c-bis), cod. proc. pen.). Si tratta della  natura  cosiddetta
residuale-eccezionale, o di extrema ratio, di questa misura. 
    E' inoltre enunciato il criterio di proporzionalita', secondo  il
quale «ogni misura deve essere proporzionata all'entita' del fatto  e
alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata» (art.
275, comma 2, cod. proc. pen.). 
    4. - Tratto saliente  complessivo  del  regime  ora  ricordato  -
conforme al quadro costituzionale di riferimento - e' quello  di  non
prevedere automatismi ne' presunzioni. Esso  esige,  invece,  che  le
condizioni e i presupposti per l'applicazione di una misura cautelare
restrittiva della liberta' personale siano apprezzati e motivati  dal
giudice sulla  base  della  situazione  concreta,  alla  stregua  dei
ricordati  principi  di   adeguatezza,   proporzionalita'   e   minor
sacrificio, cosi' da realizzare una piena «individualizzazione» della
coercizione cautelare. 
    Da tali coordinate si discosta in modo vistoso -  assumendo,  con
cio',  carattere  derogatorio  ed   eccezionale   -   la   disciplina
attualmente espressa dal secondo e dal  terzo  periodo  del  comma  3
dell'art. 275 cod. proc. pen., non presente nel testo originario  del
codice,  ma  in  esso  inserita  via  via,  con  lo  strumento  della
decretazione d'urgenza, in un primo tempo tramite l'aggiunta del solo
secondo periodo al citato art. 275, comma  3,  sulla  spinta  di  una
situazione apprezzata come «emergenziale», legata  segnatamente  alla
rilevata recrudescenza del fenomeno della criminalita' mafiosa  e  di
altri gravi o gravissimi reati (art. 5, comma 1, del decreto-legge 13
maggio 1991, n. 152, recante «Provvedimenti urgenti in tema di  lotta
alla criminalita' organizzata  e  di  trasparenza  e  buon  andamento
dell'attivita' amministrativa», convertito, con modificazioni,  dalla
legge 12 luglio 1991, n. 203, e art. 1, comma 1, del decreto-legge  9
settembre 1991, n. 292, recante «Disposizioni in materia di  custodia
cautelare,  di  avocazione  dei  procedimenti  penali  per  reati  di
criminalita' organizzata e di trasferimenti di ufficio di  magistrati
per la copertura di uffici giudiziari non richiesti», convertito, con
modificazioni, dalla legge 8 novembre 1991, n. 356);  successivamente
(attraverso l'art. 5 della legge  8  agosto  1995,  n.  332,  recante
«Modifiche al codice di procedura penale in tema  di  semplificazione
dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa») con un
contenimento di questa speciale  disciplina,  mediante  una  drastica
riduzione dei reati a essa assoggettati  a  quelli  di  cui  all'art.
416-bis  cod.  pen.  ovvero  commessi  avvalendosi  delle  condizioni
previste da detto  articolo  o  per  agevolare  le  associazioni  ivi
indicate; infine, nuovamente e notevolmente ampliando il  novero  dei
reati stessi, con le addizioni recate al vigente  secondo  periodo  e
con quelle ulteriori incluse nel nuovo  terzo  periodo  del  comma  3
dell'art.  275  (mediante  gli  interventi   parimenti   emergenziali
dell'art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009,  n.  11,  convertito,
con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38). 
    In base alla disciplina in questione, nei procedimenti per taluni
delitti, analiticamente elencati, ove  ricorra  la  condizione  della
gravita' indiziaria, il  giudice  dispone  senz'altro  l'applicazione
della misura cautelare della custodia carceraria,  «salvo  che  siano
acquisiti elementi dai quali  risulti  che  non  sussistono  esigenze
cautelari». 
    Per comune opinione, la previsione ora  ricordata  racchiude  una
duplice presunzione. La prima, a  carattere  relativo,  attiene  alle
esigenze cautelari, che  il  giudice  deve  considerare  sussistenti,
quante volte non consti la prova della loro mancanza (prova  di  tipo
negativo, dunque, che deve necessariamente  proiettarsi  su  ciascuna
delle fattispecie identificate dall'art. 274  cod.  proc.  pen.).  La
seconda, a carattere assoluto, concerne la scelta della  misura:  ove
la presunzione relativa non risulti vinta, subentra un  apprezzamento
legale, vincolante e incontrovertibile,  di  adeguatezza  della  sola
custodia carceraria  a  fronteggiare  le  esigenze  presupposte,  con
conseguente esclusione di ogni soluzione «intermedia» tra questa e lo
stato di piena liberta' dell'imputato. 
    Il modello ora evidenziato si traduce, sul piano pratico, in  una
marcata attenuazione dell'obbligo di  motivazione  dei  provvedimenti
applicativi della custodia cautelare in carcere. Secondo un indirizzo
consolidato  della  giurisprudenza  di  legittimita',   difatti,   in
presenza  di  gravi  indizi  di  colpevolezza  per  uno   dei   reati
considerati,  il  giudice   assolve   il   suddetto   obbligo   dando
semplicemente atto dell'inesistenza di elementi idonei a  vincere  la
presunzione di sussistenza delle  esigenze  cautelari,  senza  dovere
specificamente motivare sul  punto;  mentre  solo  nel  caso  in  cui
l'indagato o  la  sua  difesa  abbiano  allegato  elementi  di  segno
contrario, egli sara' tenuto a giustificare la  ritenuta  inidoneita'
degli stessi a superare la presunzione. Non vi sara' luogo,  in  ogni
caso, ad esporre quanto ordinariamente richiesto dalla seconda  parte
delle lettere c) e c-bis) dell'art. 292, comma 2,  cod.  proc.  pen.,
rimanendo   irrilevante,   a   fronte   dell'apprezzamento    legale,
l'eventuale convinzione del giudice che le esigenze cautelari possano
essere concretamente soddisfatte tramite una  misura  cautelare  meno
incisiva di quella «massima». 
    Tali marcati profili di scostamento rispetto al regime  ordinario
avevano indotto il legislatore -  nell'ambito  di  un  piu'  generale
disegno di recupero delle garanzie in materia di misure cautelari - a
delimitare in  senso  restrittivo  il  campo  di  applicazione  della
disciplina  derogatoria,  costituente  un  vero  e   proprio   regime
cautelare speciale di natura eccezionale. Riferito, ai  suoi  esordi,
ad una nutrita e disparata  serie  di  figure  criminose,  il  regime
speciale era stato infatti circoscritto - a partire  dal  1995,  come
dianzi ricordato - ai soli procedimenti per delitti di mafia in senso
stretto (art. 5, comma 1, della citata legge n. 332 del 1995). 
    In tali limiti, la previsione aveva superato il vaglio  tanto  di
questa Corte che della Corte europea dei diritti dell'uomo.  Entrambe
le Corti avevano, infatti, in vario modo valorizzato la  specificita'
dei predetti delitti, la cui connotazione strutturale astratta  (come
reati  associativi  e,  dunque,  permanenti  entro  un  contesto   di
criminalita' organizzata, o  come  reati  a  tale  contesto  comunque
collegati) valeva a rendere «ragionevoli» - nei relativi procedimenti
- le presunzioni in questione, e segnatamente quella  di  adeguatezza
della sola  custodia  carceraria,  trattandosi,  in  sostanza,  della
misura piu' idonea a neutralizzare il periculum  libertatis  connesso
al verosimile protrarsi dei contatti tra imputato ed associazione. 
    In particolare, con l'ordinanza n. 450  del  1995,  questa  Corte
aveva escluso che la presunzione in parola violasse gli artt. 3,  13,
primo comma, e 27, secondo comma, Cost., rilevando che se la verifica
della sussistenza delle esigenze cautelari («l'an della cautela») non
puo' prescindere da un  accertamento  in  concreto,  l'individuazione
della   misura   da   applicare   («il   quomodo»)    non    comporta
indefettibilmente l'affidamento  al  giudice  di  analogo  potere  di
apprezzamento, potendo la scelta essere effettuata anche  in  termini
generali dal legislatore, purche'  «nel  rispetto  del  limite  della
ragionevolezza e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali
coinvolti» (in senso analogo, sul punto, ordinanze n. 130 del 2003  e
n.  40  del  2002).  Nella   specie,   deponeva   nel   senso   della
ragionevolezza della soluzione adottata «la delimitazione della norma
all'area dei delitti di criminalita' organizzata  di  tipo  mafioso»,
tenuto conto del «coefficiente di pericolosita' per le condizioni  di
base della convivenza e della sicurezza collettiva che agli  illeciti
di quel genere e' connaturato». 
    A sua volta, la Corte di Strasburgo - pronunciando su un  ricorso
volto a denunciare l'irragionevole durata della custodia cautelare in
carcere applicata ad un indagato  per  il  delitto  di  cui  all'art.
416-bis cod. pen. e la conseguente violazione dell'art. 5,  paragrafo
3,  della  Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei   diritti
dell'uomo - non aveva mancato di rilevare come una presunzione  quale
quella prevista dall'art. 275, comma 3, cod. proc. pen.  potesse,  in
effetti, «impedire al giudice di adattare la  misura  cautelare  alle
esigenze del  caso  concreto»  e,  dunque,  «apparire  eccessivamente
rigida». Nondimeno, secondo la Corte europea, la disciplina in  esame
rimaneva  giustificabile  alla  luce  «della  natura  specifica   del
fenomeno della criminalita' organizzata e soprattutto  di  quella  di
stampo mafioso», e segnatamente in considerazione del  fatto  che  la
carcerazione  provvisoria  delle  persone  accusate  del  delitto  in
questione «tende  a  tagliare  i  legami  esistenti  tra  le  persone
interessate e il  loro  ambito  criminale  di  origine,  al  fine  di
minimizzare il rischio che esse mantengano contatti personali con  le
strutture delle organizzazioni criminali  e  possano  commettere  nel
frattempo delitti» (sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia). 
    5. - E' su questo quadro che si  innesta  l'ulteriore  intervento
novellistico   che   da   origine    agli    odierni    quesiti    di
costituzionalita', operato con  il  decreto-legge  n.  11  del  2009,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 38 del 2009. 
    Compiendo un «salto di qualita'» a ritroso, rispetto alla novella
del 1995, l'art.  2,  comma  1,  lettere  a)  e  a-bis),  del  citato
provvedimento d'urgenza  riespande  l'ambito  di  applicazione  della
disciplina eccezionale ai procedimenti  aventi  ad  oggetto  numerosi
altri reati, individuati in  parte  mediante  diretto  richiamo  agli
articoli di legge che descrivono le relative  fattispecie  e  per  il
resto tramite rinvio «mediato» alle norme processuali di cui all'art.
51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen.; reati  tra  i  quali  si
annovera l'omicidio (art. 575 c.p). 
    E'   agevole   constatare   come   le   estensioni   operate    -
successivamente implementate da modifiche legislative che  non  hanno
interessato direttamente la norma impugnata  (ad  esempio,  art.  12,
comma 4-bis, del d.lgs. 25 luglio 1998, n.  286,  recante  il  «Testo
unico delle disposizioni concernenti la disciplina  dell'immigrazione
e norme sulla condizione dello straniero», aggiunto  dalla  legge  15
luglio 2009, n. 94, recante «Disposizioni  in  materia  di  sicurezza
pubblica») - riguardino fattispecie penali in larga misura eterogenee
fra loro (fatta eccezione per i delitti «a sfondo sessuale»), e cioe'
poste a tutela  di  differenti  beni  giuridici,  assai  diversamente
strutturate  e  con  trattamenti  sanzionatori   anche   notevolmente
differenti (si pensi all'omicidio volontario, al sequestro di persona
a scopo di estorsione, all'associazione finalizzata  al  contrabbando
di tabacchi lavorati esteri, ai delitti  commessi  con  finalita'  di
terrorismo o di eversione)  e  accomunate  unicamente  dall'essere  i
relativi procedimenti assoggettati al regime  cautelare  speciale  in
questione. 
    6. - La norma in esame deve essere  censurata  di  illegittimita'
costituzionale limitatamente al fatto che non consente  di  applicare
una misura cautelare  meno  afflittivi  nei  procedimenti  a  quibus,
aventi ad oggetto i delitti sessuali  dinanzi  citati.  Deve  essere,
dunque, sottoposta allo scrutinio di costituzionalita' esclusivamente
la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia  cautelare
carceraria, mentre resta fuori del devoluto la  presunzione  relativa
di sussistenza delle esigenze cautelari: dandosi per scontata  questa
sussistenza, cio' che  rileva,  secondo  i  rimettenti,  e  determina
l'illegittimita' costituzionale  e'  la  lesione  del  principio  del
«minore sacrificio necessario». 
    7. - Secondo la giurisprudenza di questa Corte,  «le  presunzioni
assolute,  specie  quando  limitano  un  diritto  fondamentale  della
persona, violano il principio di eguaglianza, se  sono  arbitrarie  e
irrazionali,  cioe'  se  non  rispondono   a   dati   di   esperienza
generalizzati,  riassunti  nella  formula  dell'id   quod   plerumque
accidit».  In  particolare,  l'irragionevolezza   della   presunzione
assoluta si coglie tutte le volte  in  cui  sia  «agevole»  formulare
ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione  posta  a
base della presunzione stessa (sentenza n. 139 del 2010). 
    Per questo  verso,  alle  figure  criminose  che  interessano  (e
specificamente  all'omicidio)  non  puo'  estendersi  la  ratio  gia'
ritenuta, sia da questa Corte che dalla  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo, idonea a giustificare la deroga alla disciplina  ordinaria
quanto ai procedimenti relativi a delitti di mafia in senso  stretto:
vale a dire che dalla struttura stessa della fattispecie e dalle  sue
connotazioni  criminologiche  -   connesse   alla   circostanza   che
l'appartenenza ad associazioni di tipo  mafioso  implica  un'adesione
permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel
territorio,  caratterizzato  da  una  fitta  rete   di   collegamenti
personali e dotato di particolare forza intimidatrice - deriva, nella
generalita' dei casi concreti ad essa riferibili e secondo una regola
di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla
cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in  carcere  (non
essendo le misure «minori» sufficienti  a  troncare  i  rapporti  tra
l'indiziato    e    l'ambito    delinquenziale    di    appartenenza,
neutralizzandone la pericolosita'). 
    Con riguardo all'omicidio non e' consentito pervenire ad  analoga
conclusione. La regola di esperienza, in questo caso, e' ben diversa:
ed e' che i fatti concreti, riferibili alle fattispecie in  questione
(pur a prescindere dalle  ipotesi  attenuate  e  considerando  quelle
ordinarie) non solo presentano disvalori  nettamente  differenziabili
(basti pensare alla particolarita' dei casi di  omicidio  determinato
da dolo d'impeto, o di omicidio commesso in stato di ira  determinato
da un fatto ingiusto altrui, o ancora di omicidio commesso per motivi
di particolare valore morale  o  sociale),  ma  anche  e  soprattutto
possono  proporre   esigenze   cautelari   suscettibili   di   essere
soddisfatte con diverse misure. 
    Per quanto odiosi e riprovevoli, i fatti che integrano  le  varie
tipologie di omicidio ben possono essere e  in  effetti  spesso  sono
tali, per le loro connotazioni, da non postulare  esigenze  cautelari
affrontabili solo e rigidamente con la massima misura, ma  da  potere
rendere adeguata anche la misura degli arresti domiciliari  in  luogo
diverso dalla abitazione del soggetto (art.  284  cod.  proc.  pen.),
eventualmente  accompagnati  anche  da   particolari   strumenti   di
controllo  (quale  il  cosiddetto  braccialetto   elettronico:   art.
275-bis), l'obbligo o il divieto di dimora o anche solo di accesso in
determinati luoghi (art. 283). 
    8. - La ragionevolezza della soluzione normativa  scrutinata  non
potrebbe essere rinvenuta neppure, per altro  verso,  nella  gravita'
astratta del reato, considerata sia in  rapporto  alla  misura  della
pena, sia in rapporto alla natura  (e,  in  particolare,  all'elevato
rango) dell'interesse tutelato. Questi parametri giocano un ruolo  di
rilievo, ma neppure esaustivo, in sede di giudizio  di  colpevolezza,
particolarmente per la determinazione della sanzione,  ma  risultano,
di per se', inidonei a fungere da elementi preclusivi ai  fini  della
verifica della sussistenza di esigenze cautelari e - per  quanto  qui
rileva - del  loro  grado,  che  condiziona  l'identificazione  delle
misure idonee a soddisfarle. 
    D'altra  parte,  l'interesse  tutelato   penalmente   e',   nella
generalita' dei casi, un interesse  primario,  dotato  di  diretto  o
indiretto aggancio costituzionale, invocando  il  quale  si  potrebbe
allargare indefinitamente il  novero  dei  reati  sottratti  in  modo
assoluto al principio di adeguatezza, fino a travolgere la valenza di
quest'ultimo     facendo     leva     sull'incensurabilita'     della
discrezionalita' legislativa. 
    Ove dovesse aversi riguardo,  poi,  alla  misura  edittale  della
pena, la scelta del legislatore non potrebbe che apparire palesemente
scompensata e arbitraria. Procedimenti relativi a gravissimi  delitti
- puniti con pene piu' severe di quelli che qui  vengono  in  rilievo
(taluni addirittura con l'ergastolo) - restano, infatti, sottratti al
regime cautelare speciale: basti pensare alla strage (art.  422  cod.
pen.), alla devastazione o saccheggio  (art.  419  cod.  pen.),  alla
rapina e all'estorsione aggravate (artt. 628,  terzo  comma,  e  629,
secondo comma, cod. pen.), alla  produzione,  traffico  e  detenzione
illeciti di stupefacenti, anche con riguardo all'ipotesi aggravata di
cessione a minorenni (artt. 73 e 80, comma 1, lettera a), del  d.P.R.
9 ottobre 1990, n. 309). 
    9. -  Tanto  meno,  infine,  la  presunzione  in  esame  potrebbe
rinvenire la sua fonte di legittimazione nell'esigenza di contrastare
situazioni causa  di  allarme  sociale,  determinate  dalla  asserita
crescita numerica di taluni delitti. 
    La eliminazione o riduzione dell'allarme  sociale  cagionato  dal
reato del quale l'imputata  e'  accusata  non  puo'  essere  peraltro
annoverata tra le finalita' della  custodia  preventiva  e  non  puo'
essere  considerata  una  sua  funzione.  La  funzione  di  rimuovere
l'allarme sociale cagionato dal reato e' una  funzione  istituzionale
della pena perche'  presuppone,  ovviamente,  la  certezza  circa  il
responsabile del delitto che ha provocato  l'allarme  e  la  reazione
della societa'. 
    Non e' dubitabile, in effetti, che il legislatore possa  e  debba
rendersi  interprete  dell'acuirsi  del  sentimento  di  riprovazione
sociale verso determinate  forme  di  criminalita',  avvertite  dalla
generalita' dei cittadini come particolarmente odiose  e  pericolose,
quali indiscutibilmente sono quelle considerate. Ma a tale fine  deve
servirsi degli strumenti appropriati, costituiti  dalla  comminatoria
di pene adeguate, da infliggere all'esito di processi  rapidi  a  chi
sia stato riconosciuto responsabile di quei reati; non  gia'  da  una
indebita  anticipazione  di  queste   prima   di   un   giudizio   di
colpevolezza. 
    Nella specie, per converso, la totale vanificazione del principio
di adeguatezza, in difetto di  una  ratio  correlata  alla  struttura
delle  fattispecie  criminose  di   riferimento,   cumulandosi   alla
presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari, orienta
chiaramente lo «statuto custodiale» -  conformita'  alle  evidenziate
risultanze  dei  lavori  parlamentari   -   verso   finalita'   «meta
cautelari», che nel disegno costituzionale  devono  essere  riservate
esclusivamente alla sanzione penale inflitta all'esito di un giudizio
definitivo di responsabilita'. 
    10. - Alla luce  delle  considerazioni  che  precedono,  si  deve
dunque concludere che la norma impugnata viola,  in  parte  qua,  sia
l'art. 3 Cost., per l'ingiustificata parificazione  dei  procedimenti
relativi al delitto in questione a quelli concernenti  i  delitti  di
mafia nonche' per l'irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime
cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili  ai  paradigmi
punitivi considerati;  sia  l'art.  13,  primo  comma,  Cost.,  quale
referente fondamentale del regime ordinario  delle  misure  cautelari
privative della liberta' personale; sia, infine, l'art.  27,  secondo
comma, Cost., in  quanto  attribuisce  alla  coercizione  processuale
tratti funzionali tipici della pena. 
    Al fine di attingere, quanto meno ad un livello minimo  e  tenuto
conto dei limiti delle questioni devolute allo  scrutinio  di  questa
Corte, la compatibilita' costituzionale della norma censurata non  e'
peraltro necessario rimuovere integralmente  la  presunzione  di  cui
discute. 
    Cio' che rende costituzionalmente  inaccettabile  la  presunzione
stessa e' per certo il suo carattere assoluto, che si risolve in  una
indiscriminata e totale negazione di rilievo al principio del «minore
sacrificio necessario», anche  quando  sussistano  -  come  nei  casi
oggetto dei procedimenti  a  quibus,  secondo  quanto  riferiscono  i
giudici rimettenti - specifici elementi da cui desumere, in positivo,
la sufficienza di misure diverse e meno rigorose  della  custodia  in
carcere. 
    La previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza  di
quest'ultima - atta a realizzare una semplificazione del procedimento
probatorio  suggerita  da  taluni  aspetti  ricorrenti  del  fenomeno
criminoso considerato, ma comunque superabile da  elementi  probatori
di  segno  contrario  -  non  eccede,  per  contro,   i   limiti   di
compatibilita' con i parametri evocati, rimanendo per tale verso  non
censurabile   l'apprezzamento   legislativo,   in    rapporto    alle
caratteristiche   dei   reati   in   questione,    della    ordinaria
configurabilita' di esigenze cautelari nel grado  piu'  intenso  (per
una conclusione  analoga,  con  riguardo  alla  fattispecie  da  essa
esaminata, sentenza n. 139 del 2010). In tale modo, si evita comunque
l'irrazionale equiparazione dei procedimenti  relativi  al  reato  di
omicidio a quelli concernenti la criminalita' di tipo  mafioso  e  si
lascia spazio alla differenziazione delle varie fattispecie  concrete
riconducibili ai paradigmi punitivi astratti. 
    Il reato in questione resta assoggettato ad un  regime  cautelare
speciale,  tuttavia  attenuato  dalla  natura  relativa  -  e  quindi
superabile  -  della  presunzione  di  adeguatezza   della   custodia
carceraria e, percio', non incompatibile con il quadro costituzionale
di riferimento. 
    L'art. 275, comma 3, cod. proc.  pen.  va  dichiarato,  pertanto,
costituzionalmente illegittimo nella parte in  cui  -  nel  prevedere
che, quando sussistono gravi indizi  di  colpevolezza  in  ordine  ai
delitti di cui all'articolo 575 del codice penale,  e'  applicata  la
custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai
quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non  fa  salva,
altresi', l'ipotesi in cui siano  acquisiti  elementi  specifici,  in
relazione  al  caso  concreto,  dai  quali  risulti  che  le esigenze
cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.