Ordinanza 
 
nel giudizio di legittimita' costituzionale del comma 4-bis dell'art.
14 della legge 24 dicembre 1993, n.  537  (Interventi  correttivi  di
finanza pubblica), aggiunto dal comma 8 dell'art. 2  della  legge  27
dicembre 2002, n. 289 (Disposizioni per la  formazione  del  bilancio
annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2003), promosso
con ordinanza dell'11  novembre  2009  dalla  Commissione  tributaria
provinciale di Terni, nel giudizio vertente tra la ricorrente  s.p.a.
S.A.O. - Servizi Ambientali Orvieto, l'intervenuta s.p.a. ERG Renew e
l'Agenzia delle entrate, ufficio di Orvieto, iscritta al n.  161  del
registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della
Repubblica n. 23, 1ª serie speciale, dell'anno 2010. 
    Visti gli atti di costituzione  della  s.p.a.  S.A.O.  -  Servizi
Ambientali Orvieto e della s.p.a. ERG Renew e  l'atto  di  intervento
del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    Udito nell'udienza  pubblica  dell'8  febbraio  2011  il  giudice
relatore Franco Gallo; 
    Uditi gli avvocati Livia Salvini per la s.p.a. S.A.O.  -  Servizi
Ambientali Orvieto, Livia Salvini e Gabriele Escalar  per  la  s.p.a.
ERG Renew e l'avvocato dello Stato Gianni De Bellis per il Presidente
del Consiglio dei ministri. 
    Ritenuto che, con ordinanza dell'11 novembre 2009, la Commissione
tributaria provinciale di Terni - nel corso di due giudizi riuniti in
cui una societa' di capitali aveva impugnato avvisi  di  accertamento
emessi dall'Agenzia delle entrate per il  recupero  a  tassazione  di
costi ritenuti indeducibili dall'Agenzia delle entrate  in  relazione
all'IRPEG, all'IRAP ed  all'IVA  per  l'anno  2003  ed  in  relazione
all'IRAP ed all'IVA per l'anno 2004 - ha  sollevato,  in  riferimento
agli artt. 3, 27, secondo comma, e 53 della  Costituzione,  questioni
di legittimita' costituzionale del comma  4-bis  dell'art.  14  della
legge 24 dicembre 1993, n.  537  (Interventi  correttivi  di  finanza
pubblica), aggiunto dal comma 8 dell'art. 2 della legge  27  dicembre
2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale  e
pluriennale dello Stato - legge  finanziaria  2003),  per  il  quale:
«Nella determinazione dei redditi di cui all'articolo 6, comma 1, del
testo unico  delle  imposte  sui  redditi,  di  cui  al  decreto  del
Presidente della Repubblica  22  dicembre  1986,  n.  917,  non  sono
ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o
attivita'  qualificabili  come  reato,  fatto  salvo  l'esercizio  di
diritti costituzionalmente riconosciuti»; 
    che la Commissione tributaria premette che le suddette  questioni
sono  state  sollevate  dalla  societa'   ricorrente   nel   giudizio
principale e riferisce che detta societa' ha precisato, in  punto  di
fatto, che: a) era stata esercitata  l'azione  penale  nei  confronti
degli  amministratori  della  societa'  per  concorso  nei  reati  di
falsita' ideologica e materiale in atti pubblici  e  di  concorso  in
abuso  di  ufficio,  nonche'  «per   reati   ambientali   nell'ambito
dell'attivita' di trasferimento e trattamento di rifiuti  provenienti
dalla Campania»; b) il relativo  procedimento  penale,  pervenuto  al
dibattimento davanti al Tribunale di  Orvieto,  era  «regredito  alla
fase delle indagini preliminari» a  seguito  della  sentenza  con  la
quale il medesimo Tribunale aveva dichiarato la propria  incompetenza
per territorio e disposto la  trasmissione  degli  atti  al  pubblico
ministero presso il giudice  competente;  c)  con  i  due  avvisi  di
accertamento impugnati erano stati recuperati a tassazione costi che,
a parere dell'ufficio tributario, non  potevano  essere  dedotti  dal
reddito  sociale  perche'  riconducibili  ai  sopra  indicati  reati,
commessi dagli amministratori; d)  al  momento  dell'emissione  degli
avvisi, i reati degli amministratori «erano bensi'  ipotizzabili,  ma
non [...] accertati  in  via  definitiva  con  sentenza  di  condanna
irrevocabile»; 
    che, quanto alla censura relativa all'art. 27,  secondo  comma  -
prosegue il giudice rimettente - la societa' ha osservato che: a)  la
norma denunciata «si presta, tenuto conto del suo  tenore  letterale,
ad essere interpretata nel senso» che i costi e le spese non  possono
essere dedotti quando siano riconducibili a fatti per i quali vi  sia
soltanto una notizia di reato  trasmessa  al  pubblico  ministero  e,
quindi, anche quando l'azione penale non sia stata ancora  esercitata
ed il  reato  non  sia  stato  accertato  con  sentenza  di  condanna
(circolare 26 settembre 2005, n.  42/E  dell'Agenzia  delle  entrate,
Direzione centrale normativa e contenzioso); b) tale  indeducibilita'
costituisce  «un  effetto  sanzionatorio   ed   afflittivo   per   il
contribuente», una  «sanzione  indiretta»,  anteriore  alla  condanna
definitiva, e percio' in contrasto con il principio costituzionale di
non colpevolezza; 
    che, quanto alla censura relativa all'art. 3 Cost.,  la  societa'
ha affermato che la  norma  denunciata  determina  una  irragionevole
disparita' di trattamento fiscale tra i soggetti responsabili  di  un
illecito civile o amministrativo, per i quali  i  costi  e  le  spese
riconducibili a tale illecito possono esser dedotti dai redditi, e  i
soggetti responsabili di illeciti penali, per i quali i  costi  e  le
spese riconducibili al reato non possono, invece, essere dedotti; 
    che, quanto alla censura relativa agli artt. 3  e  53  Cost.,  la
societa' ricorrente ha dedotto che la norma censurata non e' conforme
al principio  di  capacita'  contributiva,  «poiche'  il  reddito  si
accresce non gia' in virtu' di maggiori proventi conseguiti,  ma  per
effetto di una  sostanziale  equiparazione  di  costi  effettivamente
sostenuti ai proventi, che vengono a sommarsi tra loro»; 
    che,  tanto  premesso  «in  ordine  ai  termini  ed   ai   motivi
dell'istanza con la quale e'  stata  sollevata  la  questione»  dalla
contribuente, la Commissione tributaria  osserva  che  «la  questione
sollevata non appare manifestamente infondata [...] considerato anche
che cospicua parte della dottrina ha manifestato forti dubbi circa la
costituzionalita' della norma in esame per  motivi  corrispondenti  a
quelli rassegnati dalla societa' ricorrente [...]»; 
    che in  punto  di  rilevanza,  infine,  la  medesima  Commissione
afferma che «il giudizio non puo' essere  definito  indipendentemente
dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale,  in
quanto la pretesa tributaria [...] e' fondata sull'applicazione della
norma denunciata di incostituzionalita'»; 
    che si e' costituita nel giudizio di legittimita'  costituzionale
la societa' ricorrente, chiedendo che le  questioni  sollevate  siano
dichiarate fondate; 
    che ad avviso della  parte  privata  la  disposizione  censurata,
interpretata nel senso prospettato dall'amministrazione  finanziaria,
comporterebbe l'irragionevole tassazione di una ricchezza  (effettiva
o potenziale) inesistente, perche' calcolata al lordo dei  costi,  e,
quindi,  comporterebbe  la  violazione  del  principio  di  capacita'
contributiva di cui agli artt.  3  e  53  Cost..  La  tassazione  del
reddito d'impresa al lordo dei costi non  troverebbe  infatti,  nella
specie, giustificazione ne' nella disciplina generale  delle  imposte
sui redditi (in base alla quale, invece, debbono  essere  dedotte  le
componenti  negative  del  reddito,  ivi  comprese   perfino   quelle
costituite dai cosiddetti "costi neri"); ne' in inesistenti «esigenze
di  semplificazione  o  [...]   discriminazione   qualitativa   della
categoria reddituale» (esigenze comunemente addotte per  giustificare
la tassazione, al lordo, dei redditi di capitale); ne'  nella  natura
penale dell'illecito commesso, in relazione alla quale  l'ordinamento
esprime «solo un giudizio di disvalore normativo che, come tale,  non
e' espressivo di alcuna capacita' contributiva»; ne' in una  sanzione
impropria, la quale potrebbe considerarsi legittima solo se  prevista
in funzione di un interesse fiscale (viene citata,  al  riguardo,  la
sentenza della Corte costituzionale n. 201 del 1970),  mentre,  nella
specie, l'indeducibilita' dei costi si pone a tutela di un  interesse
penale e non di un obbligo tributario, sostanziale o strumentale; ne'
in esigenze di un equo contemperamento tra capacita'  contributiva  e
esigenze di gettito - come per il caso della parziale indeducibilita'
di spese mediche ai fini dell'IRPEF  -,  perche'  nella  specie  tali
esigenze, avendo  a  riguardo  i  costi  di  produzione  del  reddito
tassato,   inciderebbero   direttamente   ed   illegittimamente   sul
presupposto  stesso  del  tributo;  ne'  in  finalita'   antielusive,
riguardando anche costi debitamente documentati e registrati; 
    che, sempre ad avviso della parte privata, la necessita' di  dare
rilievo,  ai  sensi  dell'art.  53  Cost.,  ai  costi  inerenti  alla
produzione della base imponibile delle imposte sui  redditi,  sarebbe
stata evidenziata dalla stessa Corte costituzionale (sentenze n.  143
del 1982 e n. 179 del 1976) e risulterebbe, per il reddito d'impresa,
anche dal combinato disposto degli artt. 89 e 52 (nella  formulazione
anteriore a quella vigente) del  d.P.R.  22  dicembre  1986,  n.  917
(Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi); 
    che per la suddetta societa', inoltre, la disposizione denunciata
creerebbe  una  ingiustificata  disparita'  di  trattamento   tra   i
destinatari  di  essa  (tassati  al  lordo  di  costi  inerenti  alla
produzione) e tutti gli altri percettori di reddito (tassati, invece,
al netto di detti costi); 
    che   la   medesima    parte    privata    sostiene,    altresi',
l'impossibilita' di interpretare il comma 4-bis  dell'art.  14  della
legge n. 537  del  1993  nel  senso  che:  a)  i  costi  e  le  spese
riconducibili a reati non possono essere dedotti  nel  solo  caso  di
sottoposizione a sequestro o  a  confisca  penale  dei  proventi  del
reato; b) l'indeducibilita' di detti costi deriva da una  presunzione
assoluta della loro non inerenza al reddito d'impresa; 
    che  l'interpretazione  sub  a)  non   sarebbe   praticabile   in
considerazione sia della marginalita'  dell'ipotesi  di  sequestro  o
confisca penale, sia dell'irragionevolezza di ammettere,  invece,  la
deducibilita' nei casi di  «sequestro  e  di  confisca  derivanti  da
illeciti di natura diversa da quella  penale,  quali  ad  esempio  la
confisca ed il sequestro amministrativo»;  l'interpretazione  sub  b)
non  sarebbe  praticabile   in   considerazione   dell'illegittimita'
costituzionale di presunzioni  assolute  non  corrispondenti  -  come
nella specie - a massime d'esperienza (Corte costituzionale, sentenze
n. 131 del 1991, n. 42 del 1980 e n. 200 del 1976); 
    che la contribuente afferma che la disposizione  censurata  viola
anche gli artt. 3 e 27 Cost.,  perche'  l'indeducibilita'  dei  costi
riconducibili  a  fatti  qualificabili   come   reati   integra   una
irragionevole ed arbitraria sanzione, in violazione della presunzione
di non colpevolezza, ove si ritenga detta sanzione applicabile  sulla
base della sola trasmissione di una  notizia  di  reato  al  pubblico
ministero,  cioe'  prima   ancora   della   verifica   dell'effettiva
sussistenza  del  reato  (al  riguardo  viene   richiamata   sia   la
giurisprudenza costituzionale - sentenze n. 78 del 2005; n.  206  del
1999; n. 296 del 1997 - in tema di  norme  che  riconnettono  effetti
sfavorevoli alla mera denuncia di  reato  o  alla  mera  apertura  di
indagini preliminari, sia la giurisprudenza della Corte  europea  dei
diritti dell'uomo - sentenze 25 marzo 1983, Minelli contro  Svizzera;
19 settembre 2006, Matijasevic contro Serbia - in tema di presunzione
di non colpevolezza); 
    che la disposizione  censurata  non  potrebbe  interpretarsi  nel
senso che l'indeducibilita' conseguirebbe all'accertamento del  reato
da parte del giudice tributario, perche' in tal modo - sempre secondo
la parte privata -  verrebbe  attribuita  al  giudice  tributario  la
cognizione del reato quale oggetto  principale  di  accertamento,  in
contrasto sia con la struttura  del  processo  tributario,  attesi  i
limiti di prova da esso previsti, sia con il  divieto  di  estensione
della  giurisdizione  dei  giudici   speciali   previsto   dalla   VI
disposizione transitoria e finale della Costituzione; 
    che la parte privata,  infine,  prospetta  vizi  di  legittimita'
costituzionale ulteriori  rispetto  a  quelli  indicati  dal  giudice
rimettente, in quanto la  disposizione  denunciata:  a)  prevede  una
sanzione indipendente dalla gravita' del reato e, pertanto, viola «il
principio di proporzionalita' della sanzione», ricavabile dagli artt.
3  e  27,  primo  e  terzo  comma,  Cost.;  b)  prescinde  «da   ogni
considerazione circa  l'elemento  soggettivo»  del  reato  (tanto  da
legittimare «addirittura» l'indeducibilita' dei costi «a  carico  del
contribuente vittima del reato») e non rinvia neppure ai  criteri  di
imputabilita' stabiliti dall'art. 6, comma 1,  del  d.lgs.  8  agosto
2001, n. 231 (Disciplina della responsabilita'  amministrativa  delle
persone giuridiche, delle societa' e delle associazioni  anche  prive
di personalita' giuridica, a norma dell'articolo 11  della  Legge  29
settembre 2000, n. 300) per la responsabilita'  amministrativa  della
persona giuridica in relazione ai  reati  commessi  da  soggetti  che
agiscano nell'interesse o a vantaggio di essa e, pertanto,  viola  il
principio - ricavabile dal primo comma dell'art. 27 Cost.  -  secondo
cui la sanzione penale puo' essere inflitta  solo  se  il  fatto  sia
stato commesso con dolo o colpa; 
    che si e' costituita nel giudizio di legittimita'  costituzionale
anche un'altra societa' di capitali - intervenuta nel giudizio a  quo
in qualita' di consolidante nazionale con la societa'  ricorrente,  a
decorrere dal periodo di imposta 2004 - chiedendo  che  le  questioni
sollevate  siano  dichiarate  fondate  e   svolgendo   argomentazioni
coincidenti  con  quelle  della  societa'  ricorrente  nel   giudizio
principale; 
    che e' intervenuto nel giudizio di legittimita' costituzionale il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello  Stato,  chiedendo  che  le  questioni
sollevate siano dichiarate inammissibili o, comunque,  manifestamente
infondate; 
    che secondo la difesa dello Stato, le  questioni  sollevate  sono
inammissibili: a) «per mancanza di autosufficienza» dell'ordinanza di
rimessione, dalla quale non  sarebbe  possibile  comprendere  ne'  la
rilevanza ne' le  ragioni  della  non  manifesta  infondatezza  delle
sollevate questioni; b) per l'omesso tentativo del giudice rimettente
di ricercare una interpretazione costituzionalmente  orientata  della
disposizione censurata, entrata in  vigore  solo  da  alcuni  anni  e
rispetto alla quale non sussiste ancora un diritto vivente; 
    che secondo la medesima Avvocatura generale, nel caso in  cui  le
suddette eccezioni di inammissibilita' si potessero ritenere superate
per  avere  il  rimettente  fatto  proprie  le  argomentazioni  della
societa' ricorrente, le questioni sollevate sarebbero  manifestamente
infondate; 
    che, quanto alla questione sollevata in riferimento all'art.  27,
secondo comma, Cost., la difesa dello Stato  rileva  che  essa  muove
dall'erroneo   assunto   per   il   quale   la   valutazione    della
riconducibilita' del costo o della spesa a un fatto, atto o attivita'
«qualificabile come reato» deve essere effettuata esclusivamente  dal
giudice  penale.   Secondo   l'Avvocatura   generale   dello   Stato,
l'erroneita' di tale assunto e' dimostrata dai numerosi casi  in  cui
un giudice non penale valuta, a fini diversi dalla irrogazione di una
sanzione penale, se una determinata attivita' integri un reato  (come
quando:  1.-  il  giudice  civile  accerta   incidenter   tantum   la
sussistenza di un reato per applicare  la  eventualmente  piu'  lunga
prescrizione del diritto al risarcimento del danno da fatto illecito,
ai sensi dell'art. 2947, terzo  comma,  cod.  civ.;  2.-  il  giudice
tributario, ai sensi dell'art. 2, comma 3,  del  d.lgs.  31  dicembre
1992, n.  546,  recante  «Disposizioni  sul  processo  tributario  in
attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge
30 dicembre 1991, n. 413», risolve «in via incidentale ogni questione
da cui dipende  la  decisione  delle  controversie  rientranti  nella
propria giurisdizione, fatta eccezione per le questioni in materia di
querela di falso e sullo stato e la capacita' delle persone,  diversa
dalla capacita' di stare in giudizio»; 3.- deve essere  registrata  a
debito, ai sensi dell'art. 59, comma 1, lettera  d),  del  d.P.R.  26
aprile 1986, n. 131, recante  «Approvazione  del  testo  unico  delle
disposizioni concernenti l'imposta di  registro»,  una  sentenza  che
condanni al risarcimento del  danno  prodotto  da  fatto  costituente
reato); 
    che,  nella  specie  -  sottolinea  l'Avvocatura  generale  -  la
valutazione  compiuta  dall'Agenzia  delle  entrate  in  ordine  alla
qualificabilita' come reato di un fatto sarebbe  sempre  sindacabile,
nel merito, dal giudice tributario, al fine dell'applicazione non  di
una  sanzione  penale,  ma  della  denunciata  disposizione   fiscale
concernente l'indeducibilita'  di  costi  e  spese,  con  conseguente
rispetto della presunzione di non colpevolezza di  cui  all'art.  27,
secondo comma, Cost.; 
    che, quanto alla questione sollevata in  riferimento  all'art.  3
Cost., sotto il profilo della irragionevole disparita' di trattamento
fiscale tra i soggetti  responsabili  di  illeciti  penali  e  quelli
responsabili di illeciti civili o amministrativi,  l'Avvocatura  nega
tale disparita' essendo oggettivamente diverse le situazioni messe  a
raffronto dalla Commissione rimettente, dato  il  maggiore  disvalore
sociale dell'illecito penale; 
    che quanto, infine, alla questione sollevata in riferimento  agli
artt. 3 e 53 Cost., la difesa dello Stato osserva che la  definizione
degli oneri e delle spese deducibili dal reddito  e'  frutto  di  una
scelta discrezionale del legislatore, con l'ovvio limite del rispetto
del canone della ragionevolezza, canone non  violato,  nella  specie,
perche' il  legislatore,  con  la  disposizione  censurata,  ha  solo
escluso che il costo riconducibile a  una  fattispecie  qualificabile
come  reato  sia   considerato   inerente   all'attivita'   economica
esercitata, la quale «dovrebbe essere intesa anzitutto come attivita'
lecita»; 
    che in prossimita' della  data  fissata  per  la  discussione  in
udienza  pubblica  entrambe  le  parti   private   costituite   hanno
depositato memorie illustrative, di analogo  contenuto,  nelle  quali
viene ribadita l'ammissibilita' e la fondatezza delle questioni; 
    che, in  particolare,  dette  parti  private  affermano  che:  a)
secondo la Corte di cassazione, l'indeducibilita' di  costi  prevista
dalla disposizione  censurata  costituisce  «un  intervento  di  tipo
sanzionatorio che si aggiunge a quelli normalmente previsti  per  gli
illeciti piu' gravi, costituenti reato» (sentenza n. 16750 del  2008;
analogamente,  sentenza  n.  25617  del  2010);  b)   tale   funzione
sanzionatoria  di  reati  e',  pero',  incompatibile   sia   con   la
Costituzione (Corte costituzionale, sentenza n. 103 del 1967) sia con
il   principio,   evidenziato   dalla   giurisprudenza   comunitaria,
dell'estraneita'  di  tale  funzione  sanzionatoria   all'ordinamento
tributario (Corte  di  giustizia  dell'Unione  europea,  ordinanza  7
luglio 2010, in causa C-381/09, Curia; sentenza  2  agosto  1993,  in
causa C-111/92, Lange); c) l'inserzione nella dichiarazione di  costi
riconducibili a reati potrebbe comportare l'integrazione di  uno  dei
reati di infedelta' nella dichiarazione previsti dal d.lgs. 10  marzo
2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in  materia  di  imposte  sui
redditi e sul valore aggiunto, a norma dell'articolo 9 della legge 25
giugno 1999, n. 205), ed innescare cosi', a partire da un unico fatto
originario diversamente considerato da distinte norme incriminatrici,
una vera e propria «spirale delle condanne» penali (fenomeno  la  cui
incostituzionalita' la Corte costituzionale ha piu' volte dichiarato:
sentenze n. 467 del 1991 e  n.  409  del  1989),  in  violazione  del
«principio di non colpevolezza»;  d)  l'indeducibilita'  in  discorso
riguarda solo i costi inerenti alla produzione del reddito (Corte  di
cassazione, sentenze n. 19112 e n. 19113 del 2005) e,  pertanto,  non
puo' costituire una presunzione assoluta di non inerenza; e)  sarebbe
comunque irragionevole escludere l'inerenza per i costi riconducibili
ad un illecito penale e non per quelli riconducibili ad  un  illecito
civile od amministrativo; f) per la  giurisprudenza  della  Corte  di
giustizia  dell'Unione   europea,   e'   immediatamente   applicabile
nell'ordinamento  interno,  in  relazione  ai  tributi  di  rilevanza
comunitaria (come l'IVA), il  principio  secondo  cui,  da  un  lato,
l'illiceita' del fatto generatore non  esclude  l'applicabilita'  del
tributo e, dall'altro, la natura illecita dell'attivita'  svolta  non
preclude l'applicazione delle norme  ordinarie,  comprese  quelle  di
favore applicabili ad analoghe attivita' lecite; g) per la  Corte  di
cassazione, il comma 4 dell'art. 14 della  legge  n.  537  del  1993,
sebbene  testualmente  riferito  solo  alle  imposte  dirette,  trova
applicazione anche agli effetti dell'IVA (sentenze n. 1372 del 2006 e
n. 3550 del 2002); h) la ratio «di evitare  la  penalizzazione  degli
interessi erariali tutte le volte in cui, a fronte  di  un  pagamento
illecito, vi e' un soggetto che  non  corrisponde  le  imposte  sulle
somme percepite» non e' riscontrabile nella  disposizione  censurata,
perche' il  debitore  d'imposta  e'  solo  chi  riceve  il  pagamento
illecito e perche', altrimenti, opererebbe la presunzione assoluta  -
incostituzionale,  stante  l'impossibilita'  di  fornire   la   prova
contraria - dell'utilizzazione della somma, da parte  dell'accipiens,
per la produzione del reddito. 
    Considerato che la Commissione tributaria  provinciale  di  Terni
dubita, in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma,  e  53  della
Costituzione, della legittimita' del comma 4-bis dell'art.  14  della
legge 24 dicembre 1993, n.  537  (Interventi  correttivi  di  finanza
pubblica), aggiunto dal comma 8 dell'art. 2 della legge  27  dicembre
2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale  e
pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2003); 
    che, in forza della disposizione censurata: «Nella determinazione
dei redditi di cui all'articolo 6, comma 1,  del  testo  unico  delle
imposte  sui  redditi,  di  cui  al  decreto  del  Presidente   della
Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione  i
costi  o  le  spese  riconducibili  a   fatti,   atti   o   attivita'
qualificabili  come  reato,  fatto  salvo  l'esercizio   di   diritti
costituzionalmente riconosciuti»; 
    che il giudice a quo  muove  dal  presupposto  che  la  locuzione
«qualificabili come reato», contenuta nella  disposizione  censurata,
«si  presta  [...]  ad  essere  interpretata»   secondo   la   prassi
applicativa dell'Agenzia delle entrate, nel senso che e' sufficiente,
per l'indeducibilita' dei costi, che  questi  siano  riconducibili  a
fatti iscritti nel registro delle notizie di reato; 
    che,  secondo  il   giudice   rimettente,   tale   norma,   cosi'
interpretata, si pone in contrasto con: a) l'art.  3  Cost.,  perche'
comporta un'ingiustificata disparita' di trattamento tra  i  soggetti
che  si  sono  resi  responsabili  di   fatti,   atti   o   attivita'
qualificabili come illecito civile o amministrativo, per  i  quali  i
costi e le spese riconducibili a detti fatti, atti o  attivita'  sono
deducibili, e i soggetti che si sono resi responsabili di fatti, atti
o attivita' qualificabili come reato, per i quali i costi e le  spese
riconducibili  a  detti  fatti,  atti   o   attivita'   sono   invece
indeducibili; b)  l'art.  27,  secondo  comma,  Cost.,  perche',  col
prevedere l'indeducibilita' dei costi e delle spese anche nel caso in
cui il reato al quale gli stessi sono  riconducibili  non  sia  stato
accertato con condanna definitiva, produce un effetto  «sanzionatorio
ed afflittivo per il contribuente» (o di  «sanzione  indiretta»),  in
contrasto con la presunzione di non colpevolezza; c) gli artt. 3 e 53
Cost., perche' comporta l'assoggettamento  a  imposta  di  componenti
negative del reddito, non  espressive  della  capacita'  contributiva
dell'impresa; 
    che  la  difesa  del  Presidente  del  Consiglio  dei   ministri,
intervenuto  in  giudizio,  ha  eccepito   l'inammissibilita'   delle
questioni  per  «mancanza  di  autosufficienza»   dell'ordinanza   di
rimessione, deducendo che il giudice rimettente non avrebbe  indicato
le ragioni del proprio autonomo convincimento circa la rilevanza e la
non manifesta infondatezza delle questioni stesse; 
    che l'eccezione non e' fondata; 
        che,  quanto  alla  rilevanza,  il  rimettente   adotta   una
motivazione che - pur insufficiente in forza di quanto si  osservera'
- e' autonoma, perche' afferma espressamente che i giudizi principali
riuniti  non  possono  essere  definiti  senza  applicare  la   norma
denunciata,  avendo  essi  ad  oggetto  l'impugnazione   di   pretese
tributarie  basate  sull'indeducibilita'  di  costi  riconducibili  a
reati; 
        che, quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo
indica le ragioni a sostegno delle sollevate  questioni,  dichiarando
di  fare  integralmente  proprie  le  argomentazioni  prospettate  al
riguardo  dalla  societa'  ricorrente  e  da   lui   dettagliatamente
riportate nell'ordinanza di rimessione; 
        che,  tuttavia,  le  questioni  -  ancorche'  sollevate   con
ordinanza autosufficiente -  sono  manifestamente  inammissibili  per
inadeguata motivazione sulla rilevanza; 
        che, infatti, il giudice rimettente non  ha  considerato  che
gli avvisi di accertamento oggetto  dei  giudizi  principali  riuniti
sono stati impugnati, tra l'altro, perche': a) la societa' ricorrente
non potrebbe «essere chiamata a rispondere  di  reati  contestati  ai
propri amministratori»;  b)  ai  sensi  del  denunciato  comma  4-bis
dell'art. 14 della legge n. 537 del 1993,  i  costi  riconducibili  a
fatti di reato dovrebbero ritenersi non deducibili solo nel  caso  in
cui detti costi siano correlati a proventi che  non  concorrono  alla
formazione del reddito imponibile; c) non indicano le  ragioni  della
asserita   sussistenza   del   reato;    d)    muovono    dall'errata
interpretazione della  suddetta  disposizione,  secondo  cui  sarebbe
sufficiente,  per  l'indeducibilita'  dei  costi,  che  questi  siano
riconducibili a fatti iscritti nel registro delle notizie di reato; 
        che detti motivi di  ricorso,  risolvendosi  nella  negazione
della possibilita' di considerare  indeducibili  i  costi  ripresi  a
tassazione   con   gli   avvisi   impugnati,   sono   logicamente   e
giuridicamente prioritari rispetto  alle  questioni  di  legittimita'
costituzionale del  denunciato  comma  4-bis,  parimenti  prospettate
dalla societa' ricorrente; 
        che, pertanto,  la  Commissione  tributaria  rimettente,  nel
sollevare tali questioni, avrebbe dovuto preliminarmente affermare  -
motivando anche solo sommariamente sul  punto  -  l'infondatezza  dei
suddetti motivi di ricorso, perche'  questi,  se  accolti,  avrebbero
determinato l'annullamento degli avvisi di accertamento  impugnati  e
la conseguente irrilevanza delle questioni medesime.