LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
 
     Ha pronunciato la seguente ordinanza interlocutoria sul  ricorso
27019-2009 proposto da: Perelli Maurizio,  elettivamente  domiciliato
in Roma,  via  Maestro  Gaetano  Capocci  n.  14,  presso  lo  studio
dell'avvocato Perelli Antonio, che  lo  rappresenta  e  difende,  per
delega in atti; ricorrente; 
    Contro Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Rieti, procuratore
della Repubblica presso il tribunale di Rieti,  procuratore  generale
della Repubblica presso la Corte di cassazione, Procuratore  generale
della Repubblica presso la Corte d'appello di Roma - intimati; 
    Sul   ricorso   28247-2009   proposto   da:   Tavolazzi    Dario,
elettivamente domiciliato in Roma, via Antonelli 9, presso lo  studio
dell'avvocato Merla Michele, che lo rappresenta e difende  unitamente
all'avvocato Boglietti Lanfranco, per delega in atti - ricorrente; 
    Contro procuratore Repubblica presso  il  tribunale  di  Brescia,
Consiglio dell'ordine degli avvocati di Brescia, procuratore generale
della Repubblica presso la Corte suprema di  cassazione,  Procuratore
generale della Repubblica presso la  Corte  d'appello  di  Brescia  -
intimati; 
    Sul ricorso 9353-2010 proposto da: Puleo  Damiano,  elettivamente
domiciliato in  Roma,  viale  delle  Milizie  96,  presso  lo  studio
dell'avvocato De Caro Flora, che lo rappresenta e difende, per delega
in atti - ricorrente; 
    Contro Procuratore generale  della  Repubblica  presso  la  Corte
suprema  di  cassazione,  Consiglio  dell'Ordine  degli  avvocati  di
Caltanissetta - intimati; 
    Sul   ricorso   9356-2010   proposto   da:   Tomarchio    Sandra,
elettivamente domiciliato in Roma, viale delle Milizie 96, presso  lo
studio dell'avvocato De Caro Flora, che lo rappresenta e difende, per
delega in atti - ricorrente; 
    Contro  Consiglio  dell'Ordine   degli   avvocati   di   Catania,
procuratore generale della Repubblica  presso  la  Corte  suprema  di
cassazione - intimati; 
    Sul  ricorso  9359-2010  proposto  da:  Ferippi   Maria   Grazia,
elettivamente domiciliato in Roma, viale delle Milizie 96, presso  lo
studio dell'avvocato De Caro Flora, che lo rappresenta e difende, per
delega in atti - ricorrente; 
    Contro procuratore generale  della  Repubblica  presso  la  Corte
suprema di cassazione, Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Arezzo
- intimati; 
    Sul  ricorso  9360-2010   proposto   da:   Calabrese   Salvatore,
elettivamente domiciliato in Roma, viale delle Milizie 96, presso  lo
studio dell'avvocato De Caro Flora, che lo rappresenta e difende, per
delega in atti - ricorrente; 
    Contro Consiglio dell'Ordine  degli  avvocati  di  Caltanissetta,
Procuratore  generale  presso  la  Suprema  Corte  di  cassazione   -
intimati; 
    Sul   ricorso   9361-2010   proposto   da:   Conedera    Roberto,
elettivamente domiciliato in Roma, viale Delle Milizie 96, presso  lo
studio dell'avvocato De Caro Flora, che lo rappresenta e difende, per
delega in atti; ricorrente; 
    Contro  Consiglio   dell'ordine   degli   avvocati   di   Torino,
Procuratore generale presso la suprema Corte di Cassazione; intimati; 
    Sul  ricorso  9362-2010  proposto  da:  Celia  Maria   Gabriella,
elettivamente domiciliata in Roma, viale Delle Milizie 96, presso  lo
studio dell'avvocato De Caro Flora, che la rappresenta e difende, per
delega in atti; ricorrente; 
    Contro  Procuratore  generale  presso   la   suprema   Corte   di
cassazione,  Consiglio  dell'ordine  degli   avvocati   di   Catania;
intimati; 
    Sul   ricorso   9731-2010   proposto   da:   Mascellani   Teresa,
elettivamente domiciliata in Roma, via Varrone 9,  presso  lo  studio
dell'avvocato Vannicelli Francesco, che la rappresenta e difende, per
delega in atti; ricorrente; 
    Contro Pisoni Paola, ordine degli avvocati di  Trento,  Consiglio
nazionale forense; intimati; 
    Sul   ricorso   10223-2010   proposto   da:   Capotosti    Maura,
elettivamente domiciliata in Roma, via Aquileia 12, presso lo  studio
degli avvocati Morsillo Anna, Morsillo Andrea, che la rappresentano e
difendono, per delega in atti; ricorrenti; 
    Contro Procuratore generale  della  Repubblica  presso  la  Corte
suprema di Cassazione, Procuratore della Repubblica del Tribunale  di
Roma, Consiglio  dell'ordine  degli  avvocati  di  Roma,  Procuratore
generale  della  Repubblica  presso  la  Corte  d'appello  di   Roma;
intimati; 
    Sul ricorso 13660-2010 proposto da: Cenci Luciana,  elettivamente
domiciliata in  Roma,  viale  Delle  Milizie  96,  presso  lo  studio
dell'avvocato De Caro Flora, che la rappresenta e difende, per delega
in atti; ricorrente; 
    Contro Consiglio dell'ordine degli avvocati di Rieti, Procuratore
generale presso la suprema Corte di Cassazione; intimati; 
    Sul ricorso 13662-2010 proposto da: Felli Fabiana,  elettivamente
domiciliata in  Roma,  viale  delle  Milizie  96,  presso  lo  studio
dell'avvocato De Caro Flora, che la rappresenta e difende, per delega
in atti; 
    Contro Consiglio dell'ordine degli avvocati di Rieti, Procuratore
generale presso la suprema Corte di Cassazione; intimati; 
    Avverso le  decisioni  del  Consiglio  nazionale  forense:  92/09
depositata il 12 ottobre 2009, 90/09 (12 ottobre  2009),  193/09  (21
dicembre 2009), 194/09 (21 dicembre 2009), 208/09 (23 dicembre 2009),
192/09 (21 dicembre 2009), 258/09  (31  dicembre  2009),  202/09  (23
dicembre 2009), 205/09 (23 dicembre 2009), 259/09 (31 dicembre 2009),
212/09 (23 dicembre 2009), 209/09 (23 dicembre 2009); 
    udita la relazione della causa svolta nella pubblica Mazziotti Di
Celso; 
    uditi gli avvocati Michele Merla, Flora De Carlo,  Luca  Giordano
per delega Morsillo; 
    udito il p.m. in persona dell'Avvocato  generale  dott.  Domenico
Iannelli, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    I dodici ricorrenti in epigrafe indicati, pubblici  dipendenti  a
tempo  parziale,  venivano  iscritti  nell'albo  degli  avvocati   in
vinti'della disposizione di cui all'art. 1, comma 56, della legge  23
dicembre 1996, n. 662, che consentiva tale doppia attivita'. 
    A seguito dell'entrata in vigore della legge 25 novembre 2003, n.
339, di modifica della precedente, i ricorrenti manifestavano la loro
intenzione di continuare a mantenere il rapporto di pubblico impiego,
esercitando nel contempo anche la professione di avvocato. 
    I  vari  C.O.A.  interessati,  ritenendo  la  sussistenza   della
incompatibilita', ordinavano  la  cancellazione  dei  ricorrenti  dai
rispettivi albi con  decisioni  che  venivano  impugnate  davanti  al
Consiglio nazionale forense il quale rigettava tutti i ricorsi. 
    Avverso le separate pronunce del CNF  i  soccombenti  proponevano
singoli ricorsi per cassazione affidati a numerosi motivi. 
    Gli intimati di ciascun ricorso  (i  vari  COA  interessati)  non
hanno svolto attivita' difensiva in sede di legittimita'. 
    I ricorrenti Perelli e Tavolazzi hanno depositato memorie. 
    In applicazione analogica dell'art. 335 c.p.c., e' stata disposta
la riunione di tutti i ricorsi siccome implicanti la  risoluzione  di
identiche questioni. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    Innanzitutto va rilevata l'infondatezza dei seguenti  motivi  dei
vari  ricorsi  che  rivestono   carattere   preliminare   in   quanto
eventualmente assorbenti rispetto alle altre censure perche' relative
all'asserita nullita' delle decisioni impugnate. 
    1)  violazione  del  principio  di  terzieta'   del   giudice   e
illegittimita' di composizione del CNF per essere questo composto  in
via esclusiva da avvocati portatori  di  un  interesse  di  categoria
volto alla eliminazione dal mercato di un concorrente  (primo  motivo
dei ricorsi Puleo Damiano e altri); 
    2) violazione dell'articolo 37 r.d.l.  n.  1578/1933  per  omessa
notifica  al  p.m.  della  delibera  di  avvio  del  procedimento  di
cancellazione dall'albo (primo motivo ricorso Perelli,  sesto  motivo
ricorso Tavolazzi, secondo motivo dei ricorsi Puleo ed altri); 
    3) violazione dell'articolo 56 r.d.l.  n.  1578/1933  per  essere
stata la decisione impugnata notificata ben oltre i  30  giorni  come
previsto dal citato articolo 56 primo motivo ricorso Mascellani); 
    4) violazione degli articoli 37 r.d.l. n. 1578/1933  e  24  Cost.
oltre che della legge n. 241/1990 per il non rilevato errore commesso
dal COA nel non concedere  il  rinvio  per  l'audizione  chiesto  per
pregressi impegni personali non documentabili prima dello svolgimento
dell'impegno stesso (secondo motivo Mascellani). 
    Con riferimento alle dette censure va rispettivamente rilevato: 
    1) Il Consiglio nazionale forense, allorche' pronuncia in materia
disciplinare, e' un giudice speciale istituito  con  d.lgs.  lgt.  23
novembre 1944, n. 382, e tuttora legittimamente  operante  giusta  la
previsione della VI disp. Transitoria della  Costituzione.  Le  norme
che lo concernono, nel disciplinare  rispettivamente  la  nomina  dei
componenti del Consiglio nazionale ed il procedimento che davanti  al
medesimo si svolge, assicurano - per il metodo elettivo della prima e
per la prescrizione, quanto al secondo, dell'Osservanza delle  comuni
regole processuali e dell'Intervento del p.m. - il corretto esercizio
della funzione giurisdizionale affidata al suddetto  organo  in  tale
materia,  con  riguardo  alla  garanzia  del   diritto   di   difesa,
all'indipendenza  del  giudice  ed  all'imparzialita'  dei   giudizi.
Infatti, l'indipendenza del giudice consiste nella autonoma  potesta'
decisionale,  non  condizionata  da   interferenze   dirette   ovvero
indirette di  qualsiasi  provenienza.  E',  pertanto,  manifestamente
infondata,in riferimento agli artt. 24, 97 e 111 Cost.  la  questione
di legittimita' costituzionale delle  disposizioni  sul  procedimento
disciplinare innanzi al predetto  Consiglio  Nazionale  Forense,  non
potendo incidere sulla legittimita' costituzionale di detta normativa
neanche la circostanza  che  al  Consiglio  spettino  anche  funzioni
amministrative,  in  quanto,  come  evidenziato  anche  dalla   Corte
costituzionale, non e' la  mera  consistenza  delle  due  funzioni  a
menomare l'indipendenza del giudice, bensi' il fatto che le  funzioni
amministrative  siano  affidate  all'organo  giurisdizionale  in  una
posizione  gerarchicamente  sottordinata,  essendo  in  tale  ipotesi
immanente  il   rischio   che   il   potere   dell'organo   superiore
indirettamente si estenda anche  alle  funzioni  giurisdizionali  (in
tali sensi. tra le altre, Corte cost. sent. n. 73 del  1970;  n.  128
del 1974, n. 284 del 1986; sentenze Sezioni Unite 3  maggio  2005  n.
9097; 23 marzo 2005 n. 6213; 11 gennaio 2005 n. 309; 22  luglio  2002
n. 10688; 11 febbraio 2002 n. 1904). 
    2) Secondo quanto disposto dall'articolo 37 r.d.l.  n.  1578/1933
la cancellazione  dagli  albi  degli  avvocati  «e'  pronunciata  dal
Consiglio  dell'ordine,  di  ufficio  e  su  richiesta  del  Pubblico
ministero» e le deliberazioni del Consiglio dell'ordine in materia di
cancellazione   vanno    «notificate,    entro    quindici    giorni,
all'interessato ed al Pubblico ministero presso la Corte d'appello ed
il Tribunale». 
    Nel citato articolo e nella normativa speciale in  questione  non
si rinviene alcuna espressa indicazione in ordine  alla  notifica  al
p.m. dell'avvio del procedimento di  cancellazione  che  puo'  essere
richiesto dallo stesso p.m. ove ravvisi la sussistenza di  una  delle
ipotesi previste dalla norma in esame. Al PM va  solo  notificata  la
deliberazione adottata al termine del procedimento di cancellazione e
cio' in quanto il p.m. e' munito di potere autonomo di impugnazione. 
    3) In tema di procedimento disciplinare a carico di avvocati,  il
termine di trenta giorni previsto dall'art. 56 del R.D.L. 27 novembre
1933, n. 1578 per la notifica  all'interessato  della  decisione  del
Consiglio nazionale forense, ha natura ordinatoria e non  perentoria,
e cio' in mancanza di  un'espressa  qualificazione  nel  senso  della
perentorieta' da parte della legge, ne' detta qualificazione  essendo
desumibile dallo scopo di tale termine  e  dalla  funzione  cui  esso
assolve, atteso che  il  termine  in  questione  ha  la  funzione  di
consentire agli interessati ed al p.m. di  proporre  il  ricorso  per
cassazione previsto dal terzo comma dello stesso art.  56,  e  quindi
persegue uno scopo meramente  sollecitatorio  dello  svolgimento  del
processo. E' pertanto da  escludere  che  il  superamento  del  detto
termine determini la nullita' della decisione notificata, comportando
solo lo spostamento del termine per  l'impugnazione  della  decisione
medesima dinanzi  al  CNF  il  quale  decorre  dalla  data  di  detta
notificazione (nei sensi suddetti, sentenze di queste  Sezioni  Unite
23 dicembre 2004 n. 23832;11 febbraio 2003 n. 1991; 7  dicembre  1999
n. 869). 
    4)  L'impedimento  del  professionista  a  comparire  dinanzi  al
consiglio dell'ordine, nell'ambito di un  procedimento  disciplinare,
non  puo'  ritenersi  sussistente  qualora  sia  sorretto  da  motivi
generici con riferimento ad ostacoli non documentati. In particolare,
ove l'interessato adduca un impegno di  lavoro,  e'  giustificato  il
rigetto della richiesta  di  rinvio  per  essere  sentito  posto  che
l'impegno  lavorativo,  essendo  una  condizione  del  tutto  normale
dell'individuo, non  puo'  assurgere  a  causa  giustificativa  della
mancata  comparizione.  La  mancata  presentazione  e'  stata  quindi
correttamente ritenuta ingiustificata per cui sul punto la  decisione
impugnata dalla Mascellani non merita censura. 
    Le altre numerose. articolate e complesse  questioni  prospettate
dai ricorrenti riguardano essenzialmente - sia pur sotto  profili  ed
aspetti diversi - l'interpretazione dell'articolo 2  della  legge  n.
339/2003 e la  sua  conformita'  a  norme  e  principi  comunitari  e
costituzionali. 
    In  relazione  all'interpretazione  del  citato  articolo  nessun
dubbio puo'  sussistere  che  la  disposizione  riguarda  proprio  la
situazione di coloro i quali, come  gli  attuali  ricorrenti.  «hanno
ottenuto l'iscrizione all'albo degli  avvocati  successivamente  alla
data di entrata in vigore della legge 23 dicembre  1996,  n.  662,  e
risultano ancora iscritti». Nei confronti di costoro la legge prevede
un periodo di transizione di  tre  anni  entro  il  quale  essi  sono
obbligati a compiere una scelta  tra  l'esercizio  (esclusivo)  della
professione forense ovvero il ritorno al rapporto di lavoro  pubblico
a tempo pieno. 
    Sulla base di un simile dato normativo non e'  sostenibile  (come
prospettato dai ricorrenti con vari e diversi  argomenti)  una  linea
interpretativa diversa da quella che il testo impone con una  formula
sufficientemente chiara e che il C.N.F. ha adottato  nelle  decisioni
impugnate.  Non  puo'  quindi   compiersi   quella   che   la   Corte
costituzionale  ha  in  piu'  occasioni   definito   come   la   c.d.
interpretazione adeguatrice, ossia  tale  da  eliminare  i  dubbi  di
legittimita' costituzionale senza il ricorso alla Corte e tramite  la
normale attivita' ermeneutica del giudice. 
    Vanno di conseguenza  esaminate  le  questioni  circa  l'asserita
violazione della normativa comunitaria con riferimento in particolare
ai principi di: eguaglianza, libera prestazione  di  servizi,  tutela
della concorrenza, diritti quesiti. ragionevolezza. 
    Le dette questioni sono manifestamente  infondate:  la  legge  in
esame (in  particolare  l'articolo  2)  e'  rispettosa  dei  principi
comunitari. 
    Va posto in evidenza che la detta legge ha  inciso  sul  modo  di
svolgere il servizio presso enti pubblici e non  sulle  modalita'  di
organizzazione della professione forense: da cio'  l'estraneita'  dei
principi di concorrenza tra imprese e di  libera  circolazione  degli
avvocati nell'Unione europea. 
    I  dipendenti  pubblici   non   svolgono   servizi   configuranti
un'attivita'  economica  e  la  loro  attivita'   non   puo'   essere
considerata come quella di un impresa. 
    La normativa dettata dalla legge n. 339/2003 tende poi a regolare
non la concorrenza tra gli avvocati bensi' a  soddisfare  l'interesse
generale sia al corretto esercizio della professione forense sia alla
fedelta' dei pubblici dipendenti. 
    Il divieto in questione altresi' giustificato  in  considerazione
dell'ottica del pubblico impiego e della garanzia  che  i  dipendenti
pubblici siano al solo servizio dell'interesse pubblico. 
    Pertanto il legislatore non ha agito in modo irragionevole  o  al
di fuori della sua sfera di competenza, ne consegue che la  legge  n.
339/2003 non  e'  incompatibile  con  le  disposizioni  invocate  del
Trattato. 
    Con riferimento all'articolo 6 della direttiva 77/249/CEE  -  che
consente agli Stati membri di escludere dall'esercizio in  regime  di
libera  prestazione  dei  servizi  solo   gli   avvocati   dipendenti
provenienti da altri Stati membri, i quali  pretendano  di  difendere
nel territorio dello Stato ospitante l'ente da  cui  dipendono  -  la
legge n. 339/2003 e' conforme al dettato di tale direttiva in  quanto
rivolta  solo  agli  avvocati  italiani  che  siano  anche   pubblici
dipendenti, cioe'  ai  soli  avvocati  pubblici  dipendenti  iscritti
nell'albo forense  italiano.  La  normativa  nazionale  non  riguarda
quindi gli avvocati iscritti negli albi di  altri  Stati  membri.  La
direttiva non impedisce l'adozione  di  disposizioni  nazionali  come
quelle   dettate   dalla   legge   n.    339/2003    che    prevedano
l'incompatibilita' tra iscrizione ad albi di avvocati e lo  stato  di
dipendente pubblico  a  tempo  parziale.  trattandosi  di  situazione
diversa da quella prevista dalla direttiva. 
    In definitiva  il  diritto  comunitario  non  disciplina  materie
giuridiche - quale quella contemplata dalla legge n. 339/2003 - nelle
quali si esercita il potere pubblico e, pertanto,  in  dette  materie
gli Stati membri possono legiferare in assoluta autonomia. 
    I ricorrenti hanno poi in buona parte reintrodotto questioni gia'
sottoposte all'esame del C.N. F. ed hanno censurato quest'ultimo  per
averne (a torto) escluso la rilevanza e non delibato la non manifesta
infondatezza in relazione, in particolare, ai parametri di  cui  agli
articoli 3, 4, 35 e 41 della Costituzione. 
    Le dette questioni sono rilevanti e non manifestamente infondate. 
    In relazione al quadro normativo  di  riferimento  va  richiamato
l'articolo 1, comma 56, della legge n. 662 del  1996  che  stabilisce
che l'art. 58, comma 1, del d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29 e successive
integrazioni, nonche' le ulteriori norme «che vietano l'iscrizione in
albi professionali non si applicano  ai  dipendenti  delle  pubbliche
amministrazioni  con  rapporto  di  lavoro  a  tempo  parziale,   con
prestazione lavorativa non superiore al 50  per  cento  di  quella  a
tempo pieno». 
    La Corte costituzionale e' stata chiamata a pronunciarsi per  due
volte sule disposizioni sopra indicate sotto diverse angolazioni. 
    Con una  prima  sentenza,  la  n.  171  del  1999,  la  Corte  ha
dichiarato non fondata la questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 1 commi da 56 a 65, della legge n. 662 del 1996 - sollevata
in via principale dalle  Regioni  Veneto  e  Lombardia  per  sospetta
violazione del criterio di riparto delle competenze - affermando, tra
l'altro, che  la  revisione  dell'ordinamento  del  pubblico  impiego
attraverso la c.d. «privatizzazione» e' ispirata «da una  prospettiva
di maggiore valorizzazione dei risultati dell'azione  amministrativa,
alla luce di obiettivi di efficienza e di rigore di gestione». 
    Con la successiva sentenza n. 189 del 2001 la Corte ha dichiarato
non fondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art.  1,
commi 56 e 56-bis, della legge n. 662 del 1996,  sollevata  sotto  il
profilo concernente la professione forense. 
    La  questione  era  stata  sollevata,   questa   volta   in   via
incidentale, dal C.N.F. nella sua qualita'  di  giudice  a  quo,  con
undici   distinte   ordinanze.   Molteplici   erano   le   violazioni
costituzionali ivi prospettate, riassumibili, peraltro, in tre ordini
di censure: violazione dell'art. 3 Cost.  inteso  come  principio  di
uguaglianza. perche' il professionista pubblico  dipendente  potrebbe
avvalersi  di  un  bagaglio  di  nozioni  tecniche  e   scientifiche,
acquisite grazie all'ingresso  nella  pubblica  amministrazione,  non
ottenibili da parte  degli  altri;  violazione  dell'art.  24  Cost.,
perche' la particolare posizione dell'avvocato dipendente pubblico ne
porrebbe  in  dubbio  l'indipendenza   e   l'autonomia,   presupposto
dell'effettivita' del diritto di difesa; violazione del principio del
diritto al lavoro di cui all'art.  4  Cost.  e  di  quello  del  buon
andamento della pubblica amministrazione di cui agli arti.  97  e  98
della Costituzione. 
    La Corte ha respinto tutte le questioni. 
    La pronuncia ha confermato che il disegno riformatore  perseguito
dal   legislatore   ha   un   obiettivo   di   maggiore    efficienza
dell'amministrazione, perseguibile anche tramite «una piu' flessibile
utilizzazione  del  personale».  Proprio  l'espressa  previsione   di
disposizioni volte a prevenire il possibile conflitto di interessi fa
si' che la normativa in esame non presenti profili di irrazionalita'.
La Corte ha inoltre respinto la questione di costituzionalita'  sotto
il profilo dell'art. 4 Cost. rilevando che  la  discrezionalita'  del
legislatore nel dettare norme di regolazione dell'accesso  al  lavoro
e' stata esercitata «in modo tutt'altro  che  irragionevole,  ove  si
consideri che le  disposizioni  denunciate  sono  intese  a  favorire
l'accesso di tutti i soggetti in possesso  dei  prescritti  requisiti
alla libera professione e cioe' ad un ambito del mercato  del  lavoro
che e' naturalmente concorrenziale». 
    Con la legge n. 339 del 2003 il legislatore interviene nuovamente
con una modifica di segno uguale e contrario rispetto  a  quella  del
1996.  La  legge,  che  consta  di  tre  articoli,  non  riguarda  la
generalita' delle professioni, bensi' soltanto. come risulta gia' dal
titolo, la professione di avvocato, per la quale  viene  ripristinata
l'incompatibilita'. L'art. 1, infatti, dispone che le norme contenute
nell'art. l commi 56, 56-bis e 57, della legge n. 662 del 1996 non si
applicano all'iscrizione  agli  albi  degli  avvocati,  per  i  quali
«restano fermi i limiti e i divieti di cui al regio decreto legge  27
novembre 1933, n. 1578». Il successivo art. 2  impone  agli  avvocati
dipendenti pubblici a tempo parziale che hanno ottenuto  l'iscrizione
sulla base della normativa del 1996 di scegliere, nel termine di  tre
anni. fra il mantenimento del rapporto di pubblico  impiego,  che  in
questo caso ritorna ad essere a tempo  pieno  (comma  2),  ovvero  il
mantenimento dell'iscrizione all'albo degli avvocati, con contestuale
cessazione del rapporto di pubblico  impiego  (comma  3).  In  questo
secondo caso l'ormai  ex  dipendente  conserva  per  cinque  anni  il
diritto alla riammissione (comma 4).  L'art.  2,  comma  2.  inoltre,
dispone che, in caso di mancato  esercizio  dell'opzione  tra  libera
professione e pubblico impiego, i consigli  dell'ordine  territoriali
provvedano d'ufficio alla cancellazione. 
    Anche questo intervento legislativo giunge all'esame della  Corte
costituzionale, la quale si pronuncia con  la  sentenza  n.  390  del
2006. 
    Si  trattava  di  una  controversia  promossa  da  un  dipendente
pubblico che, essendo  in  possesso  dell'abilitazione  all'esercizio
della  professione  forense,  aveva  chiesto  all'amministrazione  di
essere ammesso a trasformare il proprio rapporto di  lavoro  a  tempo
pieno in rapporto a tempo  parziale,  allo  scopo  di  esercitare  la
professione di avvocato. Di fronte al rigetto, egli si era rivolto al
tribunale di Cuneo il quale ha sollevato la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 1 della legge n.  339  del  2003.  In  detto
giudizio, quindi, non si doveva esaminare il caso - oggi all'esame di
queste  Sezioni  Unite  -  del  professionista  che,   legittimamente
iscritto in base alla legge n. 662  del  1996,  e'  stato  cancellato
dall'albo a seguito della modifica legislativa in commento. 
    La Corte ha dichiarato non fondata  la  questione  definendo,  in
primo luogo, «priva di  consistenza»  la  censura  di  disparita'  di
trattamento prodotta dalla legge n. 339 in relazione  all'ordinamento
comunitario, poiche' l'art. 8 della direttiva n. 98/5  cit.,  cui  e'
stata data attuazione tramite l'art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 96 del
2001, estende agli avvocati di altri  Stati  membri  le  norme  sulle
incompatibilita' dettate per gli  avvocati  nazionali,  e  quindi  la
disciplina dell'art. 3 del r.d.l. n. 1578 del 1933. Quanto,  poi,  al
punto centrale  della  questione  -  cioe'  quello  della  intrinseca
irragionevolezza di  una  disciplina  che  ripristina  un  regime  di
incompatibilita' che era stato rimosso pochi anni prima - la Corte ha
osservato,  innanzitutto,  che  «la  non  irragionevolezza   di   una
disciplina  non  esclude  la  non  irragionevolezza  di  una  opposta
disciplina», in quanto il legislatore conserva la propria liberta' di
porre successivi regimi anche contrastanti tra loro. In altre parole,
il fatto che la legge abbia regolato una certa  materia  in  un  dato
modo  e  che  tale  regolazione  sia  stata  ritenuta  conforme  alla
Costituzione non esclude che ad analogo esito la Corte costituzionale
possa pervenire anche  in  riferimento  ad  una  legge  di  contenuto
contrario alla precedente. Oltre a cio', la sentenza ha notato che il
divieto ripristinato dalla legge n. 339 del 2003 appare «coerente con
la caratteristica - peculiare della professione forense  (tra  quelle
il cui  esercizio  e'  condizionato  all'iscrizione  in  un  albo)  -
dell'incompatibilita' con qualsiasi impiego retribuito». 
    Cio'  posto   va   innanzitutto   sottolineato   che   la   Corte
costituzionale, con le citate pronunce.  non  ha  affrontato  ne'  il
problema della legittimita' della legge n. 339/2003  nella  parte  in
cui estende i suoi effetti anche a coloro  che  erano  gia'  iscritti
negli albi degli avvocati ed esercitavano la professione, sulla  base
della disciplina preesistente. al momento  delta  entrata  in  vigore
della nuova leglle. ne problema della legittimita' del divieto, sopra
venuto a carico di costoro. di continuare l'esercizio  dell'attivita'
professionale gia' legittimamente intrapresa. 
    In relazione  a  detti  problemi  il  profilo  di  illegittimita'
costituzionale della nuova legge e' rilevante  e  non  manifestamente
infondato con riferimento agli articoli 3, 4, 35 e 41 Costituzione. 
    Occorre premettere che, se e' vero che il  legislatore  ben  puo'
dettare nuove  disposizioni  normative  contrastanti  con  quella  in
vigore, e' del pari vero che le nuove norme devono tener conto  delle
situazioni esistenti e dei  rapporti  giuridici  in  atto  sorti  nel
precedente quadro normativo oltre ad essere «non irragionevoli» -  in
quanto frutto di nuove ragioni ed esigenze - e  non  possono  violare
norme e principi costituzionali o valori  di  rilievo  costituzionale
quali la «certezza del diritto». Cio' vale in relazione sia  a  norme
retroattive - che incidono direttamente su tatti e rapporti sorti nel
passato  modificando  ex  post  g1i   effetti   giuridici   ad   essi
riconducibili sia alle nuove norme che dettate per operare  solo  per
il futuro, hanno incidenza su rapporti che si  prolungano  nel  tempo
(rapporti di durata), alterando gli equilibri  preesistenti,  facendo
venir meno o modificando  profondamente  situazioni  giuridiche  gia'
acquisite. 
    In proposito vanno  evidenziati  i  seguenti  punti  fermi  della
giurisprudenza costituzionale nelle materie che sono  al  centro  dei
ricorsi in  esame  (essenzialmente  tutela  dell'affidamento  e  c.d.
certezza del diritto): 
    non e' interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali
modifichino sfavorevolmente la disciplina  dei  rapporti  di  durata.
anche se  il  loro  oggetto  sia  costituito  da  diritti  soggettivi
perfetti, salvo, qualora si tratti di  disposizioni  retroattive,  il
limite costituzionale della materia penale (art. 25,  secondo  comma,
Cost.). Dette disposizioni  pero',  al  pari  di  qualsiasi  precetto
legislativo, non possono trasmodare in un regolamento  irrazionale  e
arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere
da  leggi  preesistenti  mostrando  cosi'  anche  l'affidamento   del
cittadino  nella  sicurezza  giuridica,  che   costituisce   elemento
fondamentale e indispensabile dello  Stato  di  diritto  sentenze  n.
349/l985 882/1988); 
    l'irretroattivita', pur fuori del campo penale, rappresenta  «una
regola  essenziale  del  sistema  a  cui,  salva  un'effettiva  causa
giustificatrice, il legislatore deve  ragionevolmente  attenersi,  in
quanto la certezza dei rapporti  preteriti  costituisce  un  indubbio
cardine della civile convivenza e della tranquillita' dei  cittadini»
(sentenze 155/1990: 471/1990; 390/1995): 
    interventi  legislativi  modificativi  in  pejus  di   situazioni
soggettive  e  attinenti   a   rapporti   di   durata   non   possono
arbitrariamente frustrare l'affidamento dei cittadini  fondato  sulla
situazione normativa preesistente,  senza  violare  il  principio  di
ragionevolezza di cui all'art.  3  della  Costituzione,  nonche',  in
ragione degli interessi nella specie coinvolti, agli artt. 4,  35,  e
41 della stessa Costituzione, relativi alle  garanzie  del  lavoro  e
della liberta' di iniziativa economica, anche sotto il profilo  della
concorrenza (sentenza n. 211/1997); 
    intervento legislativo diretto a regolare situazioni pregresse e'
legittimo a condizione che vengano rispettati i canoni costituzionali
di ragionevolezza e i  principi  generali  di  tutela  del  legittimo
affidamento e di certezza delle situazioni giuridiche  (sentenze  nn.
24/2009; 74/2008 e 376/1995); la norma successiva  non  puo'  tradire
l'affidamento del privato sull'avvenuto consolidamento di  situazioni
sostanziali (sentenze 24/2009 e 156/2007); 
    al  di  fuori  della  materia  penale   (dove   il   divieto   di
retroattivita' della legge e' stato elevato a dignita' costituzionale
dall'art. 25 Cost.), l'emanazione di leggi con efficacia  retroattiva
da parte del legislatore incontra una serie di limiti  che  attengono
alla salvaguardia, tra l'altro, di fondamentali  valori  di  civilta'
giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e  dello  stesso
ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto  del  principio
generale   di   ragionevolezza   e   di   eguaglianza,   la    tutela
dell'affidamento nelle situazioni giuridiche legittimamente sorto nei
soggetti quale principio connaturato  allo  Stato  di  diritto  e  il
rispetto  delle  funzioni  costituzionalmente  riservate  al   potere
giudiziario» (sentenza n. 282 del 2005 e, nello stesso senso, fra  le
molte, le sentenze n. 525 del 2000 e n. 416 del 1999). 
    Nella specie effettuato il necessario bilanciamento che  si  deve
compiere tra il perseguimento dell'obiettivo della nuova legge  e  la
tutela  da  riconoscere  al  legittimo  affidamento  nella  sicurezza
giuridica nutrita da quanti, sulla base della  normativa  precedente,
hanno  conseguito  una  situazione  sostanziale  consolidata   -   il
sacrificio imposto dalla legge n. 339/2003 ai soggetti  che  gia'  si
trovavano  nello  stato  di  avvocati  part-time  potrebbe  rivelarsi
ingiustificato   e,   percio',   irragionevole   traducendosi   nella
violazione del legittimo affidamento riposto  nella  possibilita'  di
proseguire nel tempo nel mantenimento  di  detto  stato.  Non  e'  da
escludere che  l'assetto  degli  interessi  in  questione  sia  stato
realizzato con la nuova normativa in  esame  sacrificando  situazioni
soggettive ormai consumatesi: cio' potrebbe non corrispondere al piu'
volte  richiamato  criterio  di  ragionevolezza.  Del  pari  potrebbe
ritenersi che l'affidamento degli avvocati part time nella  sicurezza
giuridica sia stato leso dalla nuova legge per  aver  questa  inciso.
con regolamento irrazionale, su  situazioni  sostanziali  fondate  su
leggi anteriori. 
    Ben potrebbe quindi ravvisarsi la violazione  -  ad  opera  della
legge n. 39/2003  -  dei  principi  di  legittimo  affidamento  e  di
«certezza del diritto» con riferimento alla posizione di  coloro  che
avevano gia' effettuata la loro scelta sulla base della  preesistente
normativa  dettata  dalla  legge  n.  662/1996.  La  detta  scelta  -
effettuata previa ponderata valutazione  di  conseguenze,  portata  e
prospettive - e' stata compiuta sulla base di una precisa  previsione
normativa, ritenuta legittima dalla Corte costituzionale,  in  virtu'
di un nuovo indirizzo legislativo chiaramente e logicamente di  lungo
termine. 
    Ne consegue che appare non manifestamente infondata la  tesi  dei
ricorrenti secondo cui la nuova normativa  dettata  dalla  legge  del
2003 non avrebbe tenuto nel debito conto  delle  situazioni  gia'  in
atto venutesi a creare in applicazione  della  precedente  normativa,
sconvolgendo in tal modo preesistenti e ormai consolidati  equilibri.
L'aspettativa dei  ricorrenti  alla  conservazione  dello  status  di
dipendenti pubblici part-time e di avvocati (attivita', quest'ultima,
esercitata in via continuativa per molti anni) era  pervenuta  ad  un
livello di consolidamento della propria scelta di vita  di  impiegato
pubblico part-time e di avvocato - anche a seguito delle sopra citate
pronunce  della  Corte  costituzionale  -  cosi'  elevato  da  creare
quell'affidamento  ritenuto  dal  giudice  delle  leggi   di   valore
costituzionalmente  protetto.  I  ricorrenti  avevano  acquisito   la
sicurezza della  permanenza  nel  tempo  dello  status  di  impiegato
pubblico part-time e di avvocato. 
    Risultano palesi gli effetti  pregiudizievoli  per  soggetti  che
avevano: fatto sicuro e giustificato  affidamento  di  mantenere  nel
tempo la nuova situazione  lavorativa;  effettuato  investimenti  per
iniziare la nuova  attivita'  professionale:  modificato  il  proprio
stile di vita; sacrificato possibili miglioramenti nella carriera  di
pubblico dipendente. Ne discende la lesione di legittime  aspettative
e di  affidamento  nella  certezza  del  diritto  e  nella  sicurezza
giuridica. 
    In questa prospettiva non  appare  sufficiente  ad  escludere  la
detta lesione la deroga  temporale  prevista  dall'articolo  2  della
legge  n.  339/2003   in   ordine   all'efficacia   del   regime   di
incompatibilita' con la concessione di un termine  di  tre  anni  per
esercitare l'opzione imposta tra pubblico impiego ed esercizio  della
professione forense e con possibilita' nei successivi cinque anni  di
essere riammessi in servizio. Si tratta di  una  misura  inidonea  da
sola ad evitare il sorgere del dubbio circa il «vulnus» ai  segnalati
principi costituzionali riducendosi la tutela ai pubblici  dipendenti
iscritti  all'albo  degli  avvocati  ad  un  limitato   periodo   con
successivo ripristino di un divieto rimosso da una precedente  legge.
Donde  sembra  sussistere  la  necessita'  di  proporre  alla   Corte
costituzionale i rilevati dubbi di legittimita' costituzionale. 
    Si deve dunque concludere per la rilevanza  e  la  non  manifesta
infondatezza   della   prospettata   questione   di    illegittimita'
costituzionale degli articoli 1 e 2 della legge n. 339 - in relazione
ai parametri (articoli 3, 4, 35  e  41  della  Costituzione,  sia  in
riferimento a quelli della ragionevolezza intrinseca della legge, sub
art. 3 c.p.v. Costituzione - nella parte in cui non prevedono che  il
regime di incompatibilita' stabilito nell'art. 1 non si  applichi  ai
dipendenti pubblici a tempo parziale ridotto non superiore al 50  per
cento del tempo pieno, gia' iscritti negli albi degli  avvocati  alla
data di entrata in vigore della  medesima  legge  n.  339  del  2003,
prevedono invece, all'art. 2, solo un breve  periodo  di  «moratoria»
per l'opzione imposta fra impiego ed esercizio della professione. 
    Va  infine  conseguentemente  accolta  l'istanza  formulata   dai
ricorrenti  (ad  eccezione  di  Teresa  Mascellani)   di   sospendere
l'efficacia delle impugnate decisioni del C.N.F. dovendo ravvisarsi i
presupposti di tale sospensione come ampiamente - e con ricchezza  di
argomentazioni - sostenuto dagli  istanti:  e'  infatti  evidente  il
danno  grave  che  deriva   ai   ricorrenti   dalla   efficacia   del
provvedimento di cancellazione dall'albo degli avvocati  adottato  in
applicazione di una norma la  cui  conformita'  a  norme  e  principi
costituzionali e' stata rimessa al giudice delle leggi.