LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza interlocutoria  sul  ricorso
16196-2010   proposto   da:   Sorrentino   Stefania,    elettivamente
domiciliata in Roma,  via  Ugo  De  Carolis  145,  presso  lo  studio
dell'avvocato Masotti Giulio,  che  la  rappresenta  e  difende,  per
delega a margine del ricorso;ricorrente; 
    Contro consiglio dell'ordine degli avvocati di Latina,Procuratore
generale  dellA  Repubblica  presso  la  Corte  d'appello  di   Roma,
Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di  cassazione;
intimati; 
    Sul   ricorso   16676-2010   proposto   da:   Nardelli   Lorenzo,
elettivamente domiciliato in Roma, viale delle Milizie 96, presso  lo
studio dell'avvocato De Caro Flora, che lo rappresenta e difende, per
delega a margine del ricorso; ricorrente; 
    Contro  Consiglio  dell'Ordine   degli   avvocati   di   Perugia,
Procuratore generale presso la Suprema Corte di cassazione; intimati; 
    Avverso le decisioni nn. 206/2009 depositata il 23 dicembre  2009
(ricorso r.g. n. 16196/2010), e n. 197/2009 depositata il 21 dicembre
2010 (ricorso r.g. n. 16676/2010), entrambe del  Consiglio  nazionale
Forense; 
    Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza  del
7 dicembre 2010 dal Consigliere dott. Lucio Mazziotti Di Celso; 
    Uditi gli avvocati Roberto  Giansante  per  delega  dell'avvocato
Giulio Masotti, Flora De Caro; 
    Udito il p.m. in persona dell'Avvocato  Generale  Dott.  Domenico
Iannelli, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    I due ricorrenti in  epigrafe  indicati,  Sorrentino  Stefania  e
Nardelli Lorenzo.  pubblici  dipendenti  a  tempo  parziale  venivano
iscritti nell'albo degli avvocati in virtu' della disposizione di cui
all'art. 1, comma 56, della legge  23  dicembre  1996,  n.  662,  che
consentiva tale doppia attivita'. 
    A seguito dell'entrata in vigore della legge 25 novembre 2003, n.
339, di modifica della precedente. i ricorrenti manifestavano la loro
intenzione di continuare a mantenere il rapporto di pubblico impiego,
esercitando nel contempo anche la professione di avvocato. 
    I  due  C.O.A.  interessati,  ritenendo  la   sussistenza   della
incompatibilita', ordinavano  la  cancellazione  dei  ricorrenti  dai
rispettivi albi con  decisioni  che  venivano  impugnate  davanti  al
Consiglio nazionale forense il quale rigettava tutti i ricorsi. 
    Avverso le separate pronunce del CNF  i  soccombenti  proponevano
singoli ricorsi per cassazione affidati a numerosi motivi. 
    Gli intimati di' ciascun ricorso (i COA di Perugia e  di  Latina)
non hanno svolto attivita' difensiva in sede di legittimita'. 
    In applicazione analogica dell'art. 335 c.p.c., e' stata disposta
la riunione dei due ricorsi  siccome  implicanti  la  risoluzione  di
identiche questioni. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    Innanzitutto va rilevata l'infondatezza dei seguenti  motivi  dei
due  ricorsi  che   rivestono   carattere   preliminare   in   quanto
eventualmente assorbenti rispetto alle altre censure perche' relativi
all'asserita nullita' delle decisioni impugnate. 
    1) violazione di legge  sostenendo  che  il  CNF  ha  errato  nel
rigettare  sollevata  eccezione  di  nullita'  del  provvedimento  di
cancellazione adottato dal COA e notificato  ad  essa  ricorrente  in
copia conforme senza  la  firma  del  Presidente  (primo  motivo  del
ricorso della Sorrentino); 
    nullita' del provvedimento di cancellazione adottato dal COA  per
carenza di motivazione (secondo motivo del ricorso della Sorrentino): 
    violazione dell'art. 37 r.d.l. n. 1578/1933 per  omessa  notifica
al p.m. della delibera di avvio  del  procedimento  di  cancellazione
dall'albo (quarto motivo  del  ricorso  della  Sorrentino  e  secondo
motivo del ricorso del Nardelli): 
    4)  violazione  del  principio  di  terzieta'   del   giudice   e
illegittimita' di composizione del CNF per essere questo composto  in
via esclusiva da avvocati portatori  di  un  interesse  di  categoria
volto alla eliminazione dal mercato di un concorrente (quinto  motivo
del  ricorso  della  Sorrentino  e  primo  motivo  del  ricorso   del
Nardelli). 
    Con riferimento alle dette censure va rispettivamente rilevato: 
    1 ) La mancanza della sottoscrizione  del  presidente  prescritta
unitamente a quella del segretario dall'art. 44 r.d. n. 37/1934,  non
e' motivo di nullita' per quanto riguarda la copia e non  l'originale
del provvedimento, tenuto anche conto che chi ha ricevuto notizia del
deposito dell'originale della decisione e' stato,  quindi,  messo  in
condizione di prendere visione dell'originale dell'atto  e  di  farsi
rilasciare   specifica   attestazione   della   mancanza   di   firma
sull'originale; 
    2) I vizi del  procedimento  disciplinare  nei  confronti  di  un
avvocato, svoltosi dinanzi  al  consiglio  dell'ordine  territoriale.
stante la natura amministrativa e non giurisdizionale  dello  stesso,
non sono sindacabili dalle Sezioni unite in sede di  ricorso  avverso
la decisione del Consiglio nazionale  forense,  a  meno  che  non  si
alleghi che essi abbiano dato luogo ad un vizio di motivazione  della
stessa decisione. Con riferimento alla  motivazione  della  decisione
del COA gli eventuali vizi e difetti ben possono essere rimediati dal
CNF. Nella specie dalla lettura  della  decisione  impugnata  risulta
evidente che il CNF ha esaminato nel merito la decisione  del  COA  e
l'ha ritenuta corretta dando al riguardo adeguata motivazione. 
    3) Secondo quanto disposto dall'art. 37 R.D.L.  n.  1578/1933  la
cancellazione dagli albi degli avvocati «e' pronunciata dal Consiglio
dell'ordine, di ufficio e su richiesta del Pubblico Ministero»  e  le
deliberazioni del Consiglio dell'ordine in materia  di  cancellazione
vanno «notificate,  entro  quindici  giorni,  all'interessato  ed  al
Pubblico Ministero presso la Corte d'appello d il Tribunale». 
    Nel citato articolo e nella normativa speciale in  questione  non
si rinviene alcuna espressa indicazione in ordine  alla  notifica  al
p.m. dell'avvio del procedimento di  cancellazione  che  puo'  essere
richiesto dallo stesso p.m. ove ravvisi la sussistenza di  una  delle
ipotesi previste dalla norma in esame. Al p.m. va solo notificata  la
deliberazione adottata al termine del procedimento di cancellazione e
cio' in quanto il p.m. e' munito di potere autonomo di impugnazione. 
    4) Il Consiglio nazionale forense, allorche' pronuncia in materia
disciplinare, e' un giudice speciale istituito  con  d.lgs.  lgt.  23
novembre 1944. n. 382, e tuttora legittimamente  operante  giusta  la
previsione della VI disp. Transitoria della  Costituzione.  Le  norme
che lo concernono, nel disciplinare  rispettivamente  la  nomina  dei
componenti del Consiglio nazionale ed il procedimento che davanti  al
medesimo si svolge, assicurano - per il metodo elettivo della prima e
per la prescrizione, quanto al secondo, dell'osservanza delle  comuni
regole processuali e dell'intervento del p.m. - il corretto esercizio
della funzione giurisdizionale affidata al suddetto  organo  in  tale
materia,  con  riguardo  alla  garanzia  del   diritto   di   difesa,
all'indipendenza  del  giudice  ed  all'imparzialita'  dei   giudizi.
Infatti, l'indipendenza del giudice consiste nella autonoma  potesta'
decisionale,  non  condizionata  da   interferenze   dirette   ovvero
indirette di  qualsiasi  provenienza.  E',  pertanto,  manifestamente
infondata in riferimento agli artt. 24, 97 e 111 Cost., la  questione
di legittimita' costituzionale delle  disposizioni  sul  procedimento
disciplinare innanzi al predetto  Consiglio  Nazionale  Forense,  non
potendo incidere sulla legittimita' costituzionale di detta normativa
neanche la circostanza  che  al  Consiglio  spettino  anche  funzioni
amministrative,  in  quanto,  come  evidenziato  anche  dalla   Corte
costituzionale, non e' la  mera  consistenza  delle  due  funzioni  a
menomare l'indipendenza del giudice, bensi' il fatto che le  funzioni
amministrative  siano  affidate  all'organo  giurisdizionale  in  una
posizione  gerarchicamente  sottordinata,  essendo  in  tale  ipotesi
immanente  il   rischio   che   il   potere   dell'organo   superiore
indirettamente si estenda anche  alle  funzioni  giurisdizionali  (in
tali sensi, tra le altre, Corte cost., sent. n. 73 del 1970,  n.  128
del 1974. n. 284 del 1986: sentenze Sezioni Unite 3  maggio  2005  n.
9097; 23 marzo 2005, n. 6213; 11 gennaio  2005,  n.  309;  22  luglio
2002, n. 10688; 11 febbraio 2002, n. 1904). 
    Le altre numerose. articolate e complesse  questioni  prospettate
dai ricorrenti riguardano essenzialmente - sia pur sotto  profili  ed
aspetti diversi  -  l'interpretazione  dell'art.  2  della  legge  n.
339/2003 e la  sua  conformita'  a  norme  e  principi  comunitari  e
costituzionali. 
    In  relazione  all'interpretazione  del  citato  articolo  nessun
dubbio puo'  sussistere  che  la  disposizione  riguarda  proprio  la
situazione di coloro i quali. come  gli  attuali  ricorrenti,  «hanno
ottenuto l'iscrizione all'albo degli  avvocati  successivamente  alla
data di entrata in vigore della legge 23 dicembre  1996,  n.  662,  e
risultano ancora iscritti». Nei confronti di costoro la legge prevede
un periodo di transizione di  tre  anni  entro  il  quale  essi  sono
obbligati a compiere una scelta  tra  l'esercizio  (esclusivo)  della
professione forense ovvero il ritorno al rapporto di lavoro  pubblico
a tempo pieno. 
    Sulla base di un simile dato normativo non e'  sostenibile  (come
prospettato dai ricorrenti con vari e diversi  argomenti)  una  linea
interpretativa diversa da quella che il testo impone con una  formula
sufficientemente chiara e che il C.N.F. ha adottato  nelle  decisioni
impugnate.  Non  puo'  quindi   compiersi   quella   che   la   Corte
costituzionale  ha  in  piu'  occasioni   definito   come   la   c.d.
interpretazione adeguatrice, ossia  tale  da  eliminare  i  dubbi  di
legittimita' costituzionale senza il ricorso alla Corte e tramite  la
normale attivita' ermeneutica del giudice. 
    Vanno di conseguenza  esaminate  le  questioni  circa  l'asserita
violazione della normativa comunitaria con riferimento in particolare
ai principi di eguaglianza, libera  prestazione  di  servizi,  tutela
della concorrenza, diritti quesiti, ragionevolezza. 
    Le dette questioni sono manifestamente  infondate:  la  legge  in
esame  (in  particolare  l'art.  2)  e'   rispettosa   dei   principi
comunitari. 
    Va posto in evidenza che la detta legge ha  inciso  sul  modo  di
svolgere il servizio presso enti pubblici e non  sulle  modalita'  di
organizzazione della professione forense; da cio'  l'estraneita'  dei
principi di concorrenza tra imprese e di  libera  circolazione  degli
avvocati nell'Unione europea. 
    I  dipendenti  pubblici   non   svolgono   servizi   configuranti
un'attivita'  economica  e  la  loro  attivita'   non   puo'   essere
considerata come quella di un'impresa. 
    La normativa dettata dalla legge n. 339/2003 tende poi a regolare
non la concorrenza, tra gli avvocati bensi' a soddisfare  l'interesse
generale sia al corretto esercizio della professione forense sia alla
fedelta' dei pubblici dipendenti. 
    Il   divieto   in   questione   e'   altresi'   giustificato   in
considerazione dell'ottica del pubblico impiego e della garanzia  che
i dipendenti pubblici siano al solo servizio dell'interesse pubblico. 
    Pertanto il legislatore non ha agito in modo irragionevole  o  al
di fuori della sua sfera di competenza: ne consegue che la  legge  n.
339/2003 non  e'  incompatibile  con  le  disposizioni  invocate  del
Trattato. 
    Con riferimento all'art.  6  della  direttiva  77/249/CEE  -  che
consente agli Stati membri di escludere dall'esercizio in  regime  di
libera  prestazione  dei  servizi  solo   gli   avvocati   dipendenti
provenienti da altri Stati membri, i quali  pretendano  di  difendere
nel territorio dello Stato ospitante l'ente da  cui  dipendono  -  la
legge n. 339/2003 e' conforme al dettato di tale direttiva in  quanto
rivolta  solo  agli  avvocati  italiani  che  siano  anche   pubblici
dipendenti. cioe'  ai  soli  avvocati  pubblici  dipendenti  iscritti
nell'albo forense  italiano.  La  normativa  nazionale  non  riguarda
quindi gli avvocati iscritti negli albi di  altri  Stati  membri.  La
direttiva non impedisce l'adozione  di  disposizioni  nazionali  come
quelle   dettate   dalla   legge   n.    339/2003    che    prevedano
l'incompatibilita' tra iscrizione ad albi di avvocati e lo  stato  di
dipendente pubblico  a  tempo  parziale,  trattandosi  di  situazione
diversa da quella prevista dalla direttiva. 
    In definitiva  il  diritto  comunitario  non  disciplina  materie
giuridiche - quale quella contemplata dalla legge n. 339/2003 - nella
quali si esercita il potere pubblico e che pertanto, in dette materie
gli Stati membri possono legiferare in assoluta autonomia. 
    Va aggiunto che il Giudice di pace di Cortona, con ordinanza  del
19 giugno 2009, ha rimesso alla Corte  di  giustizia  dell'Unione  la
questione pregiudiziale relativa al possibile contrasto  della  legge
n. 339 del 2003 - nella  parte  in  cui  reintroduce  il  divieto  di
svolgimento della  professione  forense  per  i  dipendenti  pubblici
part-time - con  i  principi  comunitari  in  tema  di  tutela  della
concorrenza,  liberta'  di  stabilimento.  legittimo  affidamento   e
protezione dei diritti quesiti. 
    La  Corte  di  giustizia.  con  sentenza  2  dicembre  2010,   ha
dichiarato che: 
    gli articoli 3, n. 1, lett. g), CE. 4 CE, 10 CE, 81 CE  e  98  CE
non ostano  ad  una  normativa  nazionale  che  neghi  ai  dipendenti
pubblici impiegati in  una  relazione  di  lavoro  a  tempo  parziale
l'esercizio della professione di avvocato,  anche  qualora  siano  in
possesso dell'apposita abilitazione, disponendo la loro cancellazione
dall'albo degli Avvocati; 
    l'art. 8 della direttiva del Parlamento europeo e  del  Consiglio
16 febbraio 1998, 98/5/CE, volta a facilitare l'esercizio  permanente
della professione di avvocato in uno Stato membro diverso  da  quello
in cui e' stata acquistata la qualifica, deve essere interpretato nel
senso che lo Stato membro ospitante puo' imporre  agli  avvocati  ivi
iscritti che siano impiegati -  vuoi  a  tempo  pieno  vuoi  a  tempo
parziale - presso un altro avvocato, un'associazione  o  societa'  di
avvocati  oppure   un'impresa   pubblica   o   privata,   restrizioni
all'esercizio concomitante  della  professione  forense  e  di  detto
impiego, sempreche' tali restrizioni non eccedano  quanto  necessario
per conseguire l'obiettivo di prevenzione dei conflitti di  interesse
e si applichino a tutti gli avvocati iscritti in detto Stato membro. 
    Tanto rilevato con  riferimento  all'asserito  contrasto  con  le
norme comunitarie, va osservato che i ricorrenti hanno anche in buona
parte reintrodotto questioni gia' sottoposte all'esame del C.N.F.  ed
hanno  censurato  quest'ultimo  per  averne  (a  torto)  escluso   la
rilevanza e non delibato la non manifesta infondatezza in  relazione,
in particolare, ai parametri di cui agli articoli 3, 4. 35 e 41 della
Costituzione. 
    Le dette questioni sono rilevanti e non manifestamente infondate. 
    In relazione al quadro normativo  di  riferimento  va  richiamato
l'art. 1, comma 56. della legge n. 662 del 1996  che  stabilisce  che
l'art. 58, comma del d.lgs.  3  febbraio  1993  n.  29  e  successive
integrazioni, nonche' le ulteriori norme «che vietano l'iscrizione in
albi professionali non si applicano  ai  dipendenti  delle  pubbliche
amministrazioni  con  rapporto  di  lavoro  a  tempo  parziale,   con
prestazione lavorativa non superiore al 50  per  cento  di  quella  a
tempo pieno». 
    La Corte costituzionale e' stata chiamata a pronunciarsi per  due
volte sulle disposizioni sopra indicate sotto diverse angolazioni. 
    Con una  prima  sentenza,  la  n.  171  del  1999,  la  Corte  ha
dichiarato non fondata la questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 1, commi da 56  a  65,  della  legge  n.  662  del  1996  -
sollevata in via principale dalle  Regioni  Veneto  e  Lombardia  per
sospetta violazione  del  criterio  di  riparto  delle  competenze  -
affermando,  tra  l'altro,  che  la  revisione  dell'ordinamento  del
pubblico impiego attraverso la c.d. «privatizzazione» e' ispirata «da
una prospettiva di maggiore valorizzazione dei risultati  dell'azione
amministrativa, alla luce di obiettivi di efficienza e di  rigore  di
gestione». 
    Con la successiva sentenza n. 189 del 2001 la Corte ha dichiarato
non fondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art.  1,
commi 56 e 56-bis, della legge n. 662 del 1996,  sollevata  sotto  il
profilo concernente la professione forense. 
    La  questione  era  stata  sollevata.   questa   volta   in   via
incidentale, dal C.N.F. nella sua qualita'  di  giudice  a  quo,  con
undici   distinte   ordinanze.   Molteplici   erano   le   violazioni
costituzionali ivi prospettate, riassumibili, peraltro, in tre ordini
di censure: violazione dell'art. 3 Cost.  inteso  come  principio  di
uguaglianza. perche' il professionista pubblico  dipendente  potrebbe
avvalersi  di  un  bagaglio  di  nozioni  tecniche  e   scientifiche,
acquisite grazie all'ingresso  nella  pubblica  amministrazione,  non
ottenibili da parte  degli  altri:  violazione  dell'art.  24  Cost.,
perche' la particolare posizione dell'avvocato dipendente pubblico ne
porrebbe  in  dubbio   l'indipendenza   e   l'autonomia   presupposto
dell'effettivita' del diritto di difesa: violazione del principio del
diritto al lavoro di cui all'art.  4  Cost.  e  di  quello  del  buon
andamento della pubblica amministrazione di cui agli artt.  97  e  98
della Costituzione. 
    La Corte ha respinto tutte le questioni. 
    La pronuncia ha confermato che il disegno riformatore  perseguito
dal   legislatore   ha   un   obiettivo   di   maggiore    efficienza
dell'amministrazione. perseguibile anche tramite «una piu' flessibile
utilizzazione  del  personale».  Proprio  l'espressa  previsione   di
disposizioni volte a prevenire il possibile conflitto di interessi fa
si' che la normativa in esame non presenti profili di irrazionalita'.
La Corte ha inoltre respinto la questione di costituzionalita'  sotto
il profilo dell'art. 4 Cost. rilevando che  la  discrezionalita'  del
legislatore nel dettare norme di regolazione dell'accesso  al  lavoro
e' stata esercitata «in modo tutt'altro  che  irragionevole,  ove  si
consideri che le  disposizioni  denunciate  sono  intese  a  favorire
l'accesso di tutti i soggetti in possesso  dei  prescritti  requisiti
alla libera professione e cioe' ad un ambito del mercato  del  lavoro
che e' naturalmente concorrenziale». 
    Con la legge n. 339 del 2003 il legislatore interviene nuovamente
con una modifica di segno uguale e contrario rispetto  a  quella  del
1996.  La  legge,  che  consta  di  tre  articoli,  non  riguarda  la
generalita' delle professioni, bensi' soltanto, come risulta gia' dal
titolo, la professione di avvocato, per la quale  viene  ripristinata
l'incompatibilita'. L'art. 1, infatti, dispone che le norme contenute
nell'art. 1, commi 56, 56-bis e 57, della legge n. 662 del  1996  non
si applicano all'iscrizione agli albi degli  avvocati,  per  i  quali
«restano fermi i limiti e i divieti di cui al regio decreto-legge  27
novembre 1933, n. 1578». Il successivo art. 2  impone  agli  avvocati
dipendenti pubblici a tempo parziale che hanno ottenuto  l'iscrizione
sulla base della normativa del 19% di scegliere, nel termine  di  tre
anni, fra il mantenimento del rapporto di pubblico  impiego,  che  in
questo caso ritorna ad essere a tempo  pieno  (comma  2),  ovvero  il
mantenimento dell'iscrizione all'albo degli avvocati, con contestuale
cessazione del rapporto di pubblico  impiego  (comma  3).  In  questo
secondo caso l'ormai  ex  dipendente  conserva  per  cinque  anni  il
diritto alla riammissione (comma 4).  L'art.  2,  comma  2,  inoltre,
dispone che, in caso di mancato  esercizio  dell'opzione  tra  libera
professione e pubblico impiego, i consigli  dell'ordine  territoriali
provvedano d'ufficio alla cancellazione. 
    Anche questo intervento legislativo giunge all'esame della  Corte
costituzionale. la quale si pronuncia con  la  sentenza  n.  390  del
2006. 
    Si  trattava  di  una  controversia  promossa  da  un  dipendente
pubblico che, essendo  in  possesso  dell'abilitazione  all'esercizio
della  professione  forense,  aveva  chiesto  all'amministrazione  di
essere ammesso a trasformare il proprio rapporto di  lavoro  a  tempo
pieno in rapporto a tempo  parziale,  allo  scopo  di  esercitare  la
professione di avvocato. Di fronte al rigetto, egli si era rivolto al
tribunale di Cuneo il quale ha sollevato la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 1 della legge n.  339  del  2003.  In  detto
giudizio. quindi, non si doveva esaminare il caso - oggi all'esame di
queste  Sezioni  Unite  -  del  professionista  che,   legittimamente
iscritto in base alla legge n. 662  del  1996,  e'  stato  cancellato
dall'albo a seguito della modifica legislativa in commento. 
    La Corte ha dichiarato non fondata  la  questione  definendo.  in
prime luogo, «priva di  consistenza»  la  censura  di  disparita'  di
trattamento prodotta dalla legge n. 339 in relazione  all'ordinamento
comunitario, poiche' l'art. 8 della direttiva n.  98/5  cit,  cui  e'
stata data attuazione tramite l'art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 96 del
2001, estende agli avvocati di altri  Stati  membri  le  norme  sulle
incompatibilita' dettate per gli  avvocati  nazionali,  e  quindi  la
disciplina dell'art. 3 del r.d.1. n. 1578 del 1933. Quanto,  poi,  al
punto centrale  della  questione  -  cioe'  quello  della  intrinseca
irragionevolezza di  una  disciplina  che  ripristina  un  regime  di
incompatibilita' che era stato rimosso pochi anni prima - la Corte ha
osservato,  innanzitutto,  che  «la  non  irragionevolezza   di   una
disciplina non,  esclude  la  non  irragionevolezza  di  una  opposta
disciplina», in quanto il legislatore conserva la propria liberta' di
porre successivi regimi anche contrastanti tra loro. In altre parole,
il fatto che la legge abbia regolato una certa  materia  in  un  dato
modo  e  che  tale  regolazione  sia  stata  ritenuta  conforme  alla
Costituzione non esclude che ad analogo esito la Corte costituzionale
possa pervenire anche  in  riferimento  ad  una  legge  di  contenuto
contrario alla precedente. Oltre a cio', la sentenza ha notato che il
divieto ripristinato dalla legge n. 339 del 2003 appare «coerente con
la caratteristica - peculiare della professione forense  (tra  quelle
il cui  esercizio  e'  condizionato  all'iscrizione  in  un  albo)  -
dell'incompatibilita' con qualsiasi impiego retribuito». 
    Cio'  posto   va   innanzitutto   sottolineato   che   la   Corte
costituzionale,  con  citate  pronunce,  non  ha  affrontato  ne'  il
problema della legittimita' della legge n. 339/2003  nella  parte  in
cui estende i suoi effetti anche a  coloro  che  sono  gia'  iscritti
negli albi degli avvocati ed esercitavano la professione, sulla  base
della disciplina preesistente, al momento  della  entrata  in  vigore
della nuova legge, ne il problema  della  legittimita'  del  divieto,
sopravvenuto  a  carico  di  costoro,   di   continuare   l'esercizio
dell'attivita' professionale gia' legittimamente intrapresa. 
    In relazione  a  detti  problemi  il  profilo  di  illegittimita'
costituzionale della nuova legge e' rilevante  e  non  manifestamente
infondato con riferimento agli articoli 3, 4, 35 e 41 Costituzione. 
    Occorre premettere che, se e' vero che il  legislatore  ben  puo'
dettare nuove  disposizioni  normative  contrastanti  con  quella  in
vigore, e' del pari vero che le nuove norme devono tener conto  delle
situazioni esistenti e dei  rapporti  giuridici  in  atto  sorti  nel
precedente quadro normativo, oltre ad  essere  non  irragionevoli  in
quanto frutto di nuove ragioni ed esigenze - e  non  possono  violare
norme e principi costituzionali o valori  di  rilievo  costituzionale
quali la certezza del diritto. Cio' vale in  relazione  sia  a  norme
retroattive - che incidono direttamente su fatti e rapporti sorti nel
passato  modificando  ex  post  gli   effetti   giuridici   ad   essi
riconducibili - sia alle nuove norme che, dettate  per  operare  solo
per il futuro. hanno incidenza su  rapporti  che  si  prolungano  nel
tempo (rapporti di durata),  alterando  gli  equilibri  preesistenti,
facendo venir meno o modificando profondamente situazioni  giuridiche
gia' acquisite. 
    In proposito vanno  evidenziali  i  seguenti  punti  fermi  della
giurisprudenza costituzionale nelle materie che sono  al  centro  dei
ricorsi in  esame  (essenzialmente  tutela  dell'affidamento  e  c.d.
certezza del diritto): 
        - non e' interdetto al legislatore di emanare disposizioni le
quali modifichino  sfavorevolmente  la  disciplina  dei  rapporti  di
durata, anche se il loro oggetto sia costituito da diritti soggettivi
perfetti, salvo, qualora si tratti di  disposizioni  retroattive,  il
limite costituzionale della materia penale (art. 25,  secondo  comma,
Cost.). Dette disposizioni  pero',  al  pari  di  qualsiasi  precetto
legislativo, non possono trasmodare in un regolamento  irrazionale  e
arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere
da  leggi  preesistenti  frustrando  cosi  anche  l'affidamento   del
cittadino  nella  sicurezza  giuridica,  che   costituisce   elemento
fondamentale  e  indispensabile  dello  Stato  di  diritto  (sentenze
349/1985; 821/1988); 
        - l'irretroattivita', pur fuori del campo penale, rappresenta
«una regola essenziale del sistema a cui,  salva  un'effettiva  causa
giustificatrice, il legislatore deve  ragionevolmente  attenersi,  in
quanto la certezza dei rapporti  preteriti  costituisce  un  indubbio
cardine della civile convivenza e della tranquillita' dei  cittadini»
(sentenze 155/1990; 473/1990; 390/1995); 
        - interventi legislativi modificativi in peius di  situazioni
soggettive attinenti a rapporti di durata non possono arbitrariamente
frustrare  l'affidamento  dei  cittadini  fondato  sulla   situazione
normativa preesistente, senza violare il principio di  ragionevolezza
di cui all'art. 3  della  Costituzione,  nonche'.  in  ragione  degli
interessi nella specie coinvolti, gli artt. 4, 35 e 41  della  stessa
Costituzione, relativi alle garanzie del lavoro e della  liberta'  di
iniziativa  economica,  anche  sotto  il  profilo  della  concorrenza
(sentenza 211/1997); 
        - l'intervento  legislativo  diretto  a  regolare  situazioni
pregresse e' legittimo a condizione che vengano rispettati  i  canoni
costituzionali di ragionevolezza e i principi generali di tutela  dei
legittimo affidamento  e  di  certezza  delle  situazioni  giuridiche
(sentenze 24/2009; 74/2008 e 376/1995); la norma successiva non  puo'
tradire l'affidamento del  privato  sull'avvenuto  consolidamento  di
situazioni sostanziali (sentenze 24/2009 e 156/2007); 
        - al di fuori  della  materia  penale  (dove  il  divieto  di
retroattivita' della legge e' stato elevato a dignita' costituzionale
dall'art. 25 Cost.), l'emanazione di leggi con efficacia  retroattiva
da parte del legislatore incontra una serie di limiti  che  attengono
alla salvaguardia, tra l'altro, di fondamentali  valori  di  civilta'
giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e  dello  stesso
ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto  del  principio
generate   di   ragionevolezza   e   di   eguaglianza,   la    tutela
dell'affidamento nelle situazioni giuridiche legittimamente sorto nei
soggetti quale principio connaturato  allo  Stato  di  diritto  e  il
rispetto  delle  funzioni  costituzionalmente  riservate  al   potere
giudiziario (sentenza n. 282 del 2005 e, nello stesso senso,  fra  le
molte, le sentenze n. 525 del 2000 e n. 416 del 1999). 
    Nella specie - effettuato il necessario bilanciamento che si deve
compiere tra il perseguimento dell'obiettivo della nuova legge  e  la
tutela  da  riconoscere  al  legittimo  affidamento  nella  sicurezza
giuridica. nutrita da quanti, sulla base della normativa  precedente,
hanno conseguito una  situazione  sostanzialmente  consolidata  -  il
sacrificio imposto dalla legge  339/2003  ai  soggetti  che  gia'  si
trovavano  nello  stato  di  avvocati  part-time  potrebbe  rivelarsi
ingiustificato   e,   percio',   irragionevole   traducendosi   nella
violazione del legittimo affidamento riposto  nella  possibilita'  di
proseguire nei tempo nel mantenimento  di  detto  stato.  Non  e'  da
escludere che  l'assetto  degli  interessi  in  questione  sia  stato
realizzato con la nuova normativa in  esame  sacrificando  situazioni
soggettive ormai consumatesi: cio' potrebbe non corrispondere al piu'
volte  richiamato  criterio  di  ragionevolezza.  Del  pari  potrebbe
ritenersi che l'affidamento degli avvocati part-time nella  sicurezza
giuridica sia stato leso dalla nuova  per  aver  questa  inciso,  con
regolamento irrazionale, su situazioni sostanziali fondate  su  leggi
anteriori. 
    Ben potrebbe quindi ravvisarsi la violazione  -  ad  opera  della
legge 39/2003 - dei principi di legittimo affidamento e di  «certezza
del diritto» con riferimento alla posizione  di  coloro  che  avevano
gia'  effettuato  la  loro  scelta  sulla  base  della   preesistente
normativa dettata dalla legge 662/1996. La detta scelta -  effettuata
previa ponderata valutazione di conseguenze, portata e prospettive  -
e' stata compiuta sulla base di  una  precisa  previsione  normativa,
ritenuta legittima dalla Corte Costituzionale, in virtu' di un  nuovo
indirizzo legislativo chiaramente e logicamente di lungo termine. 
    Ne consegue che appare non manifestamente infondata la  tesi  dei
ricorrenti secondo cui la nuova normativa  dettata  dalla  legge  del
2003 non avrebbe tenuto nel debito conto  delle  situazioni  gia'  in
atto venutesi a creare in applicazione  della  precedente  normativa,
sconvolgendo in tal modo preesistenti e ormai consolidati  equilibri.
L'aspettativa dei  ricorrenti  alla  conservazione  dello  status  di
dipendenti pubblici part-time e di avvocati (attivita', quest'ultima,
esercitata in via continuativa per molti anni) era  pervenuta  ad  un
livello di consolidamento della propria scelta di vita  di  impiegato
pubblico part-time e di avvocato - anche a seguito delle sopra citate
pronunce  della  Corte  costituzionale  -  cosi'  elevato  da  creare
quell'affidamento  ritenuto  dal  giudice  delle  leggi   di   valore
costituzionalmente  protetto.  I  ricorrenti  avevano  acquisito   la
sicurezza della  permanenza  nel  tempo  dello  status  di  impiegato
pubblico part-time e di avvocato. 
    Risultano palesi gli effetti  pregiudizievoli  per  soggetti  che
avevano: fatto sicuro e giustificato  affidamento  di  mantenere  nel
tempo la nuova situazione  lavorativa;  effettuato  investimenti  per
iniziare la nuova  attivita'  professionale;  modificato  il  proprio
stile di vita; sacrificato possibili miglioramenti nella carriera  di
pubblico dipendente. Ne discende la lesione di legittime  aspettative
e di  affidamento  nella  certezza  del  diritto  e  nella  sicurezza
giuridica. 
    In questa prospettiva non  appare  sufficiente  ad  escludere  la
detta lesione la deroga temporale prevista dall'art.  2  della  legge
339/2003 in ordine all'efficacia del regime di  incompatibilita'  con
la concessione di un termine di tre  anni  per  esercitare  l'opzione
imposta tra pubblico impiego ed esercizio della professione forense e
con possibilita' nei successivi cinque anni di  essere  riammessi  in
servizio. Si tratta di una misura inidonea  da  sola  ad  evitare  il
sorgere  del  dubbio  circa  il  «vulnus»   ai   segnalati   principi
costituzionali riducendosi la tutela ai pubblici dipendenti  iscritti
all'albo  degli  avvocati  ad  un  limitato  periodo  con  successivo
ripristino di un divieto  rimosso  da  una  precedente  legge.  Donde
sembra sussistere la necessita' di proporre alla Corte costituzionale
i rilevati dubbi di legittimita' costituzionale. 
    Si deve dunque concludere per la rilevanza  e  la  non  manifesta
infondatezza   della   prospettata   questione   di    illegittimita'
costituzionale degli articoli 1 e 2 della  legge  n.  339  -  sia  in
relazione ai parametri (articoli 3, 4, 35 e  41  della  Costituzione,
sia in riferimento a quelli  della  ragionevolezza  intrinseca  della
legge, sub art.  3  cpv.  Costituzione  -  nella  parte  in  cui  non
prevedono che il regime di incompatibilita' stabilito nell'art. 1 non
si applichi ai dipendenti  pubblici  a  tempo  parziale  ridotto  non
superiore al 50 per cento del tempo pieno, gia' iscritti  negli  albi
degli avvocati alla data di entrata in vigore della medesima legge n.
339 del 2003, prevedendo invece, all'art. 2, solo un breve periodo di
«moratoria» per l'opzione imposta  tra  impiego  ed  esercizio  della
professione. 
    Va  infine  conseguentemente  accolta  l'istanza  formulata   dai
ricorrenti di sospendere l'efficacia delle  impugnate  decisione  del
C.N.F. dovendo ravvisarsi i  presupposti  di  tale  sospensione  come
ampiamente - e con ricchezza  di  argomentazioni  -  sostenuto  dagli
istanti; e' infatti evidente il danno grave che deriva ai  ricorrenti
dalla efficacia del provvedimento di  cancellazione  dall'albo  degli
avvocati adottato in applicazione di una norma la cui  conformita'  a
norme e principi costituzionali e' stata  rimessa  al  giudice  delle
leggi.