IL TRIBUNALE PER I MINORENNI Ad esito della discussione tenutasi nella Camera di Consiglio del giorno 17 settembre 2010 ha pronunciato la seguente ordinanza. A questo Tribunale si e' rivolto il PM chiedendo l'apertura di un procedimento ai sensi dell'art. 330 c.c. nei confronti del sig. M.J., cittadino pakistano nato a L., genitore di due figli minorenni, H, e Z.A. Alla richiesta il PM ha allegato un testo, sottoscritto dall'altro genitore, la sig.ra J. N. nata a L. il ...., in cui la donna narra la propria vicenda: suo marito era giunto da solo in Italia nell'anno 2003, aveva poi completato il procedimento amministrativo per ottenere il ricongiungimento familiare, le era quindi stato possibile arrivare dal Pakistan in Italia con i due figli il 25 luglio 2009, dal coniuge era stata condotta nella sua abitazione in A., due giorni dopo era stata dal marito segregata in casa, le era stato impedito per settimane qualsiasi contatto con l'esterno, esclusa la possibilita' dell'iscrizione a scuola dei figli, minacciata di morte e ripetutamente soggetta a violenza anche in loro presenza, costretta a svolgere le incombenze domestiche per il marito, l'attuale compagna ed altri connazionali che v'ivevano nella stessa casa. Sempre usandole violenza, il coniuge aveva poi insistito per farla tornare in Pakistan con i figli, ma lei si era opposta in ogni modo a questa prospettiva ben conoscendo quale futuro aspettava lei e i suoi figli nel suo paese essendo stata ripudiata dal coniuge. Finalmente il 25 settembre era riuscita a sottrarsi al suo controllo ed a sporgere denuncia; da quel momento era ospitata in Roma in uno dei centri pubblici di accoglienza per le donne che hanno subito violenza. Ricevuta la richiesta del P.M., il Tribunale ha disposto la convocazione del genitore e delle responsabile del centro ove e' ospitata lei ed i figli. All'udienza fissata si e' costituito in giudizio il procuratore nominato dalla sig.ra J. N., ha depositato memoria in cui prima ha approfondito le vicende personali sintetizzate in precedenza, poi ha precisato che la sig.ra J.N. e' priva di regolare titolo di soggiorno in quanto per la condizione di segregazione in cui era stata tenuta, pur avendo fatto ingresso nel paese con regolare visto, non aveva fatto richiesta per il rilascio del permesso nel termine di cui all'art. 5 comma secondo del d. lgs. 25 luglio 1998 n. 286, ha aggiunto che la sua assistita non avrebbe partecipato ne' a quell'udienza ne' a quelle successive «in conseguenza dell'obbligo del giudice di segnalazione e denuncia della signora in relazione al reato di immigrazione clandestina introdotto dall'art. 1 comma 16, lett. a) della legge 15 luglio 2009 n. 94 entrata in vigore in data 8 agosto 2009». Per queste ragioni, ha chiesto al Tribunale di sospendere il giudizio e dichiarare non manifestamente infondata la disposizione in questione in quanto confliggente con il diritto alla tutela giurisdizionale a tutti riconosciuto, con riferimento quindi sia all'art. 24 che all'art. 117 Cost., quest'ultimo in ragione degli obblighi comunitari ed internazionali assunti dall'Italia in materia di protezione delle donne dalla violenza domestica. Ad esito dell'udienza e' stato richiesto parere al P.M. che si e' espresso in questi termini: "Ritengo che la questione non sia manifestamente infondata specie sotto il profilo della disparita' di trattamento che e' derivata dall'introduzione dell'art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 tra la posizione dello straniero irregolare parte dei procedimenti civili ed amministrativi che, stante il disposto di cui all'art. 331 comma quarto c.p.p., e' passibile di denuncia al P.M. e quella dello straniero che reca privo di permesso di soggiorno presso operatori sanitari, evidentemente anche per condurvi persone incapaci di cui ha la potesta', il quale per l'espressa deroga di legge di cui all'art.35, comma 5 del d.lgs. n. 286 del 1998, non deve essere segnalato». Sulle preliminari questioni di costituzionalita' il Collegio ha discusso e deciso nei seguenti termini nella Camera di Consiglio del 17 settembre 2010. Osserva il Tribunale che occorre in primo luogo effettuare alcune considerazioni di carattere preliminare. Prima di tutto non vi e' dubbio che la condotta della sig.ra J. N. i rientri nell'ambito di applicazione della nuova disposizione incriminatrice espressa dall'art. 10-bis del d.lgs. 25 luglio 1998, aggiunto dall'art. 1 comma 16 lett. a) della legge 15 luglio 2009 n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica): infatti, pur entrata regolarmente nel paese, vi si e' trattenuta oltre il termine di cui all'art. 5 comma secondo della stessa normativa senza richiedere al questore il rilascio del permesso di soggiorno. La disposizione in questione sanziona, in forma alternativa, le condotte dell'ingresso e del trattenimento illegale nel territorio nazionale e pertanto certamente comprende anche la condotta in questione. In secondo luogo non sembra al Tribunale che l'esclusione dell'obbligo di denuncia si possa desumere, come alcune pronunce della Suprema Corte hanno sostenuto (Cass., sez. lav., 26 settembre 1998 n. 9669 e Cass., sez. III, 7 maggio 2009 n.10480), dal fatto che nel codice di procedura penale attualmente in vigore non e' stata riprodotta norma analoga a quella contenuta nel previgente codice all'art. 3 che statuiva, al comma primo, che quando nel corso di un giudizio civile appariva qualche fatto nel quale potessero ravvisarsi gli estremi di un reato perseguibile d'ufficio, il giudice doveva farne rapporto al procuratore della Repubblica. Infatti, pur in assenza di disposizione di questo tenore nel codice di rito attuale, comunque l'obbligo di denuncia e' sussistente a fronte del contenuto inequivocabile del comma quarto dell'art. 33l c.p.p. secondo il quale «Se, nel corso di un procedimento civile o amministrativo, emerge un fatto nel quale si puo' configurare un reato perseguibile di ufficio, l'autorita' che procede redige e trasmette senza ritardo la denuncia al pubblico ministero»; che procedimento in questione sia quello giudiziario, lo si puo' desumere senza dubbio dal contenuto dell'art. 106 disp. attuaz. del codice di rito secondo cui nei casi previsti della disposizione menzionata da ultimo, il «procuratore della Repubblica informa senza ritardo il giudice civile e amministrativo delle richieste da lui formulate alla conclusione delle indagini preliminari». L'esame delle disposizioni richiamate porta quindi alla conclusione che sia tuttora sussistente, anche per il giudice civile, in questo caso minorile, l'obbligo di denuncia di cui all'art. 331 comma quarto c.p.p. ogni volta che nel giudizio venga a conoscenza della condizione di straniero irregolarmente presente di una delle parti. In terzo luogo occorre anche osservare che, ad avviso del Tribunale, non offre argomenti decisivi al superamento della questione proposta in questo giudizio neppure la giurisprudenza costituzionale espressasi di recente proprio in ordine alla norma incriminatrice in questione con la pronuncia n. 250 del giorno 8 luglio 2010, segnatamente ai pp. 11.2 ed 11.3 delle considerazioni in diritto. E' pur vero infatti, come osservato nella pronuncia richiamata, che l'assenza di una clausola analoga a quella adottata all'art. 14 comma 5-ter del d.lgs. n. 286 del 1998 «non impedisce che le esimenti generali trovino comunque applicazione» con la conseguenza che un insieme di situazioni rilevanti come «giustificato motivo» in rapporto al reato di inottemperanza all'ordine di allontanamento ben possono venire in considerazione anche ai fini di escludere la configurabilita' della contravvenzione di cui all'art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998; e' anche vero che, per ipotesi, nel caso in questione nel giudizio penale in cui la sig.ra J.N. fosse imputata potrebbe ragionevolmente invocare la scriminante di cui all'art. 54 c.p., tenuto conto dello stato di costrizione psicofisica cui e' stata assoggettata a causa della violenza del coniuge, ma tutto questo riguarda esclusivamente un eventuale esito favorevole del giudizio penale conseguente alla denuncia, non la possibilita' che a questo giudizio non debba essere neppure sottoposta e che questo giudizio non debba aver comunque inizio per insussistenza dell'obbligo di denuncia. Non spetta infatti all'autorita' giudiziaria civile, gravata dal dovere di cui al comma quarto dell'art. 331 c.p.p., effettuare una previa valutazione dell'eventuale sussistenza di esimenti che solo nel corso del successivo procedimento penale potrebbero essere oggetto di cognizione. Proprio questa pero', ad avviso del Tribunale, e' la questione rilevante: se diritto della persona ad una tutela giurisdizionale effettiva non sia vulnerato, ancor prima che dall'eventualita' di una condanna penale, dalla certezza che rivolgendosi all'autorita' giudiziaria la stessa persona che chiede tutela e' costretta all'autoincriminazione e cosi' facendo deve certamente essere sottoposta ad un procedimento penale. E' evidente in questa vicenda che la persona che decide di adire l'autorita' giudiziaria per la tutela di un suo diritto fondamentale, in questo caso la propria dignita' e l'integrita' psicofisica dei figli a lungo esposti ad episodi di violenza assistita, deve, solo in quanto cittadina straniera non comunitaria priva di titolo di soggiorno, affrontare la certezza dell'incriminazione per il reato di cui all'art.10-bis e la conseguente sottoposizione a giudizio penale. Per altro non si tratta solo della certezza dell'incriminazione. Si consideri infatti che l'obbligo di denuncia non da' luogo solo ad avvio del procedimento penale, ma comporta anche l'avvio del contemporaneo procedimento amministrativo volto all'emissione del decreto di espulsione ed alla sua immediata attuazione; quest'ultimo procedimento, per espressa volonta' del legislatore desumibile dalla stessa struttura del giudizio penale, e' significativamente prevalente, quanto all'esito, su quello penale. Non sarebbe infatti diversamente comprensibile il dispositivo derogatorio espresso dal comma quarto dell'art. 10-bis alla generale applicazione della regola di cui all'art. 13 comma terzo, ne' la stessa configurazione dell'esito del giudizio penale previsto dal comma quinto dell'art. 10-bis secondo il quale il giudice, acquisita la notizia dell'esecuzione dell'espulsione, deve pronunciare sentenza di non luogo a procedere anche se superato il limite temporale previsto dall'art. 13 comma 3-quater. La questione quindi proposta dal procuratore della parte in questo giudizio e condivisa dal PM nel parere, e' ad avviso del Tribunale rilevante e non manifestamente infondata in primo luogo in relazione a quanto disposto dagli art. 2 e 24 comma primo della Costituzione: l'esercizio dell'azione giurisdizionale a tutela di diritti fondamentali della persona risulta radicalmente inciso dalla certezza che a tale esercizio fara' seguito sia l'incriminazione per il reato di cui all'art. 10-bis, sia l'avvio del procedimento amministrativo il cui esito e' l'espulsione dal territorio nazionale. Questa conseguenza contrasta, ad avviso del Tribunale, con la stessa interpretazione della Corte costituzionale che ha affermato anche per lo straniero non regolarmente presente sul territorio nazionale la titolarita' del diritto alla piena tutela giurisdizionale quando siano in questione diritti che la Costituzione ritiene inviolabili e come tali spettanti ai singoli «non in quanto partecipi di una determinata comunita' politica, ma in quanto esseri umani» (Corte costituzionale, sentenza 22 marzo 2001 n.105 e sentenza 8 luglio 2004 n. 222). Del resto riconoscimento del diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva per lo straniero in quanto persona, dunque anche se non regolarmente presente, e' esplicitamente affermato nella normativa in questione all'art. 2 comma quinto secondo il quale «Allo straniero e' riconosciuta parita' di trattamento con il cittadino relativamente alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi»; la disposizione e' evidentemente finalizzata a riconoscere il diritto alla tutela giurisdizionale anche allo straniero non regolarmente presente sul territorio nazionale, come desumibile dall'assenza di ogni specificazione ulteriore in aggiunta alla locuzione «straniero», invece contenuta al comma secondo dello stesso articolo che tratta del godimento dei diritti in materia civile o al comma quarto relativo alla partecipazione alla vita pubblica locale. Per altro, solo per contestualizzare quanto sin qui osservato, va precisato che la questione all'esame del Tribunale e' emblematica di una contrasto diffuso ed immanente la giurisdizione minorile successivamente all'entrata in vigore dell'art. 10-bis ogni volta che la tutela di diritti fondamentali della persona, sia del genitore come del figlio minorenne, riguardi cittadini stranieri privi di permesso di soggiorno; basti pensare ai ricorsi proposti al Tribunale minorile ai sensi dell'art. 31 comma terzo del d.lgs. n. 286 del 1998 con cui il ricorrente, mentre chiede di essere autorizzato alla permanenza sul territorio nazionale, necessariamente segnala la propria presenza irregolare ed incorre quindi nell'incriminazione per reato di cui all'art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, questione comunque non risolta neppure nel caso di accoglimento del ricorso data la natura permanente del reato e l'effetto non retroattivo dell'autorizzazione giudiziale. Sotto diverso e concorrente profilo, ritiene il Tribunale che la questione evidenziata contrasti anche con gli artt. 11 e 117 comma primo Costituzione, quest'ultimo nella parte in cui indica a limite dell'esercizio della potesta' legislativa il rispetto «dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». La situazione in esame ad avviso del Collegio presenta profili di contrasto con questi vincoli, dal momento che il principio di tutela giurisdizionale effettiva costituisce principio generale e fondante del diritto comunitario, derivante dalle tradizioni costituzionali degli stati membri ed attualmente confermato anche dall'art.47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, adottata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, attualmente recepita nel Trattato di Lisbona, modificativo del Trattato sull'Unione europea e del Trattato che istituisce l'Unione europea, entrato in vigore il 1° dicembre 2009, che al nuovo testo dell'art. 6 comma primo prevede che l'Unione riconosce diritti, le liberta' ed i principi sanciti dalla Carta «che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati». Secondo l'art. 47 della Carta «Ogni individuo, i cui diritti e le cui liberta' garantiti dal diritto dell'Unione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo dinanzi ad un giudice, nel rispetto delle condizioni previste dal presente articolo». Precisa poi il successivo art. 52 della Carta che «Eventuali limitazioni all'esercizio dei diritti e delle liberta' riconosciuti con la presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale del detti diritti e liberta'». I principi richiamati sono per altro il risultato di una lunga e risalente elaborazione della Corte di Giustizia dell'Unione europea riscontrabile in numerosissime pronunce (tra le piu' recenti in tal senso: sentenza 13 marzo 2007, causa C-432/05, Unibet Ltd., p.37; sentenza 3 settembre 2008, cause riunite C-402/05 P e C-415/05 P, Kadi e Al Barakaat International Foundation / Consiglio e Commissione, p. 8; sentenza 16 luglio 2009, causa C-12/08, Mono Car Styling s.a., p.37; sentenza 19 maggio 2010, causa T-181/08, Tay Za, p.141). Profili di contrasto con i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario si presentano, ad avviso del Collegio, nella vicenda in esame perche' per un verso sono certamente in gioco diritti e liberta' ad ogni individuo, a prescindere dalla cittadinanza, garantiti dal diritto dell'Unione, per altro verso perche' le conseguenze derivanti dall'introduzione della disposizione incriminatrice di cui all'art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 determinano una compressione dell'esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale di tale portata da incidere il contenuto essenziale del diritto stesso al punto di privarlo di qualsiasi effettivita'. E' opportuno osservare al riguardo che la tutela giurisdizionale e' in questo caso preordinata ad assicurare effettivita' nell'attribuzione di diritti fondamentali inerenti la dignita' della persona umana, compromessa o minacciata dalla violenza esercitata in ambito domestico contro le donne. Questi principi trovano ampio riconoscimento nel diritto comunitario, in primis nel Trattato secondo cui «L'unione si fonda sui valori del rispetto della dignita' umana (...) Questi valori sono comuni agli Stati membri in una societa' caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarieta' e dalla parita' tra donne e uomini» (art.2), quindi nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea che all'art.21 vieta qualsiasi forma di discriminazione fondata, tra le altre, sul sesso e afferma al successivo art. 23 il principio di parita' tra donne e uomini. Non solo il diritto comunitario, ma gli obblighi derivanti all'Italia dai principi e dalle determinazioni espresse sul tema dal diritto internazionale configurano profili di contrasto con l'art. 11 Costituzione: rilevante al riguardo sia la Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne approvata il 18 dicembre 1979 dalla Assemblea generale delle Nazioni Unite (ONU), con conseguente Protocollo opzionale del 6 ottobre 1999 sulla Convenzione, che garantisce alle donne la possibilita' di presentare un ricorso individuale, firmato 10 dicembre 1999 e ratificato dall'Italia il 22 dicembre 2000, sia la Dichiarazione delle Nazioni Unite sull'eliminazione della violenza contro le donne, risoluzione generale dell'Assemblea ONU del 20 dicembre 1993, che all'arti precisa che ai sensi della dichiarazione, il termine «violenza contro le donne» include ogni atto di violenza basata sul genere, inclusi quelli di coercizione e privazione arbitraria della liberta' sia che avvengano nella vita pubblica come in quella privata. Nell'ambito del Consiglio di Europa, e' ispirata agli stessi principi la Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa Rec 5 (2002) adottata 30 aprile 2002, che ha impegnato gli Stati membri alla revisione delle proprie legislazioni e politiche al fine di assicurare alle donne l'esercizio e la protezione dei loro diritti umani e delle liberta' fondamentali. Per queste ragioni ad avviso del Tribunale la lesione del diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva, determinata dell'introduzione del reato di immigrazione clandestina, necessariamente si traduce per le donne straniere non regolarmente presenti sul territorio nazionale nella negazione del riconoscimento di diritti fondamentali della persona affermati e tutelati sia dall'ordinamento comunitario, come dal diritto internazionale. Per altro il contrasto tra la tutela di diritti fondamentali della persona e l'esigenza del controllo dei flussi migratori e' gia' stato affrontato, e risolto, dal legislatore al momento dell'approvazione del d.lgs. n. 286 del 1998 con riferimento a diritti, diversi per contenuto ma di egual rango di quello in esame, come comprovato da quanto previsto dall'art. 35 comma quinto secondo cui «L'accesso alle strutture sanitarie da parte dello straniero non in regola con le norme sul soggiorno non puo' comportare alcun tipo di segnalazione all'autorita', salvo i casi in cui sia obbligatorio referto, a parita' di condizioni con il cittadino italiano», cui ha fatto riferimento anche il PM nel parere. La disposizione, prevedendo attualmente una speciale condizione di esonero per i pubblici ufficiali o gli incaricati di servizio pubblico dal dovere di denuncia di cui al comma quarto dell'art. 331 c.p.p., e' evidentemente preordinata ad assicurare uno dei diritti fondamentali che la Costituzione riconosce alla persona umana, cosi' riconoscendo l'esistenza di «un nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignita' umana, il quale impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare l'attuazione di quel diritto» (sentenza n. 252 del 5 luglio 2001). A maggior ragione acquista risalto ora la previsione, se si considera che al momento della sua emanazione la disposizione mirava ad escludere l'effetto dissuasivo che avrebbe potuto esercitare nell'accesso ai servizi sanitari la sola eventualita' della segnalazione indirizzata all'autorita' amministrativa per l'emissione del decreto di espulsione, non a quella giudiziaria, non essendo allora prevista la fattispecie incriminatrice di cui all'art.10-bis. La natura certamente eccezionale della disposizione ne esclude la possibilita' di interpretazione estensiva. Non e' invece espressa un'eguale condizione di esonero per l'autorita' giudiziaria adita dallo straniero non regolarmente presente, il cui diritto alla tutela giurisdizionale effettiva e' comunque previsto, come precisato in precedenza, dall'art. 2 comma quinto del d.lgs. n. 286 del 1998. Ritiene quindi il Tribunale che altra soluzione non sia consentita all'interprete, al fine di risolvere il contrasto sin qui rilevato con gli artt. 2, 11, 24 comma primo e 117 comma primo Costituzione, che proporre alla Corte questione di costituzionalita' dell'art. 2 comma quinto del d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286 nella parte in cui non e' previsto che nel caso di azione giudiziaria finalizzata alla tutela di diritti fondamentali della persona, l'autorita' giudiziaria adita non sia tenuta ne' all'obbligo di redigere ed effettuare la denuncia al pubblico ministero di cui all'art. 331 comma quarto c.p.p., ne' ad alcuna segnalazione all'autorita' amministrativa competente all'emissione del provvedimento di espulsione. Oltre che fondata per le ragioni sin qui espresse, la questione risulta anche, ad avviso del Tribunale rilevante ai fini del decidere, tenuto conto dell'impedimento che ne consegue ad un regolare svolgimento del processo, dovuto alla decisione della sig.ra J.N. di non presenziare personalmente alle attivita' processuali, con conseguente impossibilita' a svolgere attivita' non surrogabili del procuratore nominato, come l'interrogatorio libero della parte. Si aggiunga a cio' la considerazione che, tenuto conto dell'eta' dei minori (rispettivamente H. ed Z.A.), la loro personale audizione risulta necessaria, anche in ragione di quanto disposto dagli artt. 3 e 6 lett. b) della Convenzione europea sull'esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo 25 gennaio 1996 e ratificata dall'Italia con legge 20 marzo 2003 n.77 e dall'art. 24 p.1 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. L'assenza quindi del genitore dall'attivita' processale comporta anche l'impossibilita' di effettuare l'audizione dei minori, determinando anche per questa ragione un impedimento al regolare e compiuto svolgimento dell'attivita' processuale.