IL TRIBUNALE PER I MINORENNI 
 
    Ad esito della discussione tenutasi nella Camera di Consiglio del
giorno 17 settembre 2010 ha pronunciato la seguente ordinanza. 
    A questo Tribunale si e' rivolto il PM chiedendo l'apertura di un
procedimento ai sensi dell'art. 330 c.c. nei confronti del sig. M.J.,
cittadino pakistano nato a L., genitore di due figli minorenni, H,  e
Z.A. 
    Alla  richiesta  il  PM  ha  allegato  un   testo,   sottoscritto
dall'altro genitore, la sig.ra J. N. nata a L. il  ....,  in  cui  la
donna narra la propria vicenda: suo marito  era  giunto  da  solo  in
Italia  nell'anno  2003,  aveva  poi   completato   il   procedimento
amministrativo per ottenere il  ricongiungimento  familiare,  le  era
quindi stato possibile arrivare dal Pakistan  in  Italia  con  i  due
figli il 25 luglio 2009, dal coniuge era  stata  condotta  nella  sua
abitazione in A., due giorni dopo era stata dal marito  segregata  in
casa, le era stato impedito  per  settimane  qualsiasi  contatto  con
l'esterno, esclusa  la  possibilita'  dell'iscrizione  a  scuola  dei
figli, minacciata di morte e ripetutamente soggetta a violenza  anche
in loro presenza, costretta a svolgere le incombenze  domestiche  per
il marito, l'attuale compagna ed  altri  connazionali  che  v'ivevano
nella stessa casa. Sempre usandole violenza,  il  coniuge  aveva  poi
insistito per farla tornare in Pakistan con i figli, ma  lei  si  era
opposta in ogni modo a questa prospettiva ben conoscendo quale futuro
aspettava lei e i suoi figli nel suo paese  essendo  stata  ripudiata
dal coniuge. Finalmente il 25 settembre era riuscita a  sottrarsi  al
suo controllo ed a sporgere denuncia; da quel momento era ospitata in
Roma in uno dei centri pubblici di accoglienza per le donne che hanno
subito violenza. 
    Ricevuta la richiesta del  P.M.,  il  Tribunale  ha  disposto  la
convocazione del genitore e delle  responsabile  del  centro  ove  e'
ospitata lei ed i figli. 
    All'udienza fissata si e' costituito in giudizio  il  procuratore
nominato dalla sig.ra J. N., ha depositato memoria in  cui  prima  ha
approfondito le vicende personali sintetizzate in precedenza, poi  ha
precisato che la sig.ra J.N. e' priva di regolare titolo di soggiorno
in quanto per la condizione di segregazione in cui era stata  tenuta,
pur avendo fatto ingresso nel paese con  regolare  visto,  non  aveva
fatto richiesta per il rilascio  del  permesso  nel  termine  di  cui
all'art. 5 comma secondo del d.  lgs.  25  luglio  1998  n.  286,  ha
aggiunto  che  la  sua  assistita  non  avrebbe  partecipato  ne'   a
quell'udienza ne' a quelle successive  «in  conseguenza  dell'obbligo
del giudice di segnalazione e denuncia della signora in relazione  al
reato di immigrazione clandestina introdotto dall'art.  1  comma  16,
lett. a) della legge 15 luglio 2009 n. 94 entrata in vigore in data 8
agosto 2009». 
    Per queste ragioni, ha chiesto  al  Tribunale  di  sospendere  il
giudizio e dichiarare non manifestamente infondata la disposizione in
questione  in  quanto  confliggente  con  il  diritto   alla   tutela
giurisdizionale a tutti  riconosciuto,  con  riferimento  quindi  sia
all'art. 24 che all'art. 117 Cost.,  quest'ultimo  in  ragione  degli
obblighi comunitari ed internazionali assunti dall'Italia in  materia
di protezione delle donne dalla violenza domestica. 
    Ad esito dell'udienza e' stato richiesto parere al P.M. che si e'
espresso in  questi  termini:  "Ritengo  che  la  questione  non  sia
manifestamente infondata specie sotto il profilo della disparita'  di
trattamento che e' derivata dall'introduzione  dell'art.  10-bis  del
d.lgs. n. 286 del 1998 tra la posizione  dello  straniero  irregolare
parte dei  procedimenti  civili  ed  amministrativi  che,  stante  il
disposto di cui all'art. 331 comma quarto  c.p.p.,  e'  passibile  di
denuncia al P.M. e quella dello straniero che reca privo di  permesso
di soggiorno  presso  operatori  sanitari,  evidentemente  anche  per
condurvi persone incapaci  di  cui  ha  la  potesta',  il  quale  per
l'espressa deroga di legge di cui all'art.35, comma 5 del  d.lgs.  n.
286 del 1998, non deve essere segnalato». 
    Sulle preliminari questioni di costituzionalita' il  Collegio  ha
discusso e deciso nei seguenti termini nella Camera di Consiglio  del
17 settembre 2010. 
    Osserva il Tribunale che occorre in primo luogo effettuare alcune
considerazioni di carattere preliminare. 
    Prima di tutto non vi e' dubbio che la condotta della  sig.ra  J.
N. i rientri nell'ambito di  applicazione  della  nuova  disposizione
incriminatrice espressa dall'art. 10-bis del d.lgs. 25  luglio  1998,
aggiunto dall'art. 1 comma 16 lett. a) della legge 15 luglio 2009  n.
94 (Disposizioni in materia  di  sicurezza  pubblica):  infatti,  pur
entrata regolarmente nel paese, vi si e' trattenuta oltre il  termine
di  cui  all'art.  5  comma  secondo  della  stessa  normativa  senza
richiedere al questore il rilascio  del  permesso  di  soggiorno.  La
disposizione in questione sanziona, in forma alternativa, le condotte
dell'ingresso e del trattenimento illegale nel territorio nazionale e
pertanto certamente comprende anche la condotta in questione. 
    In  secondo  luogo  non  sembra  al  Tribunale  che  l'esclusione
dell'obbligo di denuncia si  possa  desumere,  come  alcune  pronunce
della Suprema Corte hanno sostenuto (Cass., sez. lav.,  26  settembre
1998 n. 9669 e Cass., sez. III, 7 maggio 2009 n.10480), dal fatto che
nel codice di procedura penale attualmente in  vigore  non  e'  stata
riprodotta norma analoga a quella  contenuta  nel  previgente  codice
all'art. 3 che statuiva, al comma primo, che quando nel corso  di  un
giudizio civile appariva qualche fatto nel quale potessero ravvisarsi
gli estremi di un reato perseguibile  d'ufficio,  il  giudice  doveva
farne rapporto al procuratore della Repubblica. 
    Infatti, pur in assenza di  disposizione  di  questo  tenore  nel
codice di rito attuale, comunque l'obbligo di denuncia e' sussistente
a fronte del contenuto inequivocabile del comma quarto dell'art.  33l
c.p.p. secondo il quale «Se, nel corso di un  procedimento  civile  o
amministrativo, emerge un fatto nel  quale  si  puo'  configurare  un
reato perseguibile di  ufficio,  l'autorita'  che  procede  redige  e
trasmette senza ritardo  la  denuncia  al  pubblico  ministero»;  che
procedimento in questione sia quello giudiziario, lo si puo' desumere
senza dubbio dal contenuto dell'art. 106 disp. attuaz. del codice  di
rito secondo cui nei casi previsti della disposizione  menzionata  da
ultimo, il «procuratore della Repubblica  informa  senza  ritardo  il
giudice civile e amministrativo delle richieste da lui formulate alla
conclusione delle indagini preliminari». 
    L'esame  delle  disposizioni   richiamate   porta   quindi   alla
conclusione che sia tuttora sussistente, anche per il giudice civile,
in questo caso minorile, l'obbligo di denuncia di  cui  all'art.  331
comma quarto c.p.p. ogni volta che nel giudizio  venga  a  conoscenza
della condizione di straniero irregolarmente presente  di  una  delle
parti. 
    In terzo  luogo  occorre  anche  osservare  che,  ad  avviso  del
Tribunale,  non  offre  argomenti  decisivi  al   superamento   della
questione proposta  in  questo  giudizio  neppure  la  giurisprudenza
costituzionale espressasi di recente proprio  in  ordine  alla  norma
incriminatrice in questione con la pronuncia  n.  250  del  giorno  8
luglio 2010, segnatamente ai pp. 11.2 ed 11.3 delle considerazioni in
diritto. 
    E' pur vero infatti, come osservato nella  pronuncia  richiamata,
che l'assenza di una clausola analoga a quella adottata  all'art.  14
comma 5-ter del d.lgs. n. 286 del 1998 «non impedisce che le esimenti
generali trovino comunque applicazione» con  la  conseguenza  che  un
insieme  di  situazioni  rilevanti  come  «giustificato  motivo»   in
rapporto al reato di inottemperanza all'ordine di allontanamento  ben
possono venire in  considerazione  anche  ai  fini  di  escludere  la
configurabilita' della contravvenzione di  cui  all'art.  10-bis  del
d.lgs. n. 286 del 1998; e' anche vero che, per ipotesi, nel  caso  in
questione nel giudizio penale in cui la sig.ra  J.N.  fosse  imputata
potrebbe ragionevolmente invocare la scriminante di cui  all'art.  54
c.p., tenuto conto dello stato  di  costrizione  psicofisica  cui  e'
stata assoggettata a causa  della  violenza  del  coniuge,  ma  tutto
questo riguarda esclusivamente  un  eventuale  esito  favorevole  del
giudizio penale conseguente alla denuncia, non la possibilita' che  a
questo giudizio non debba essere  neppure  sottoposta  e  che  questo
giudizio  non  debba   aver   comunque   inizio   per   insussistenza
dell'obbligo di denuncia. 
    Non spetta infatti all'autorita' giudiziaria civile, gravata  dal
dovere di cui al comma quarto dell'art. 331  c.p.p.,  effettuare  una
previa valutazione dell'eventuale sussistenza di  esimenti  che  solo
nel  corso  del  successivo  procedimento  penale  potrebbero  essere
oggetto di cognizione. 
    Proprio questa pero', ad avviso del Tribunale,  e'  la  questione
rilevante: se diritto della persona  ad  una  tutela  giurisdizionale
effettiva non sia vulnerato, ancor prima che dall'eventualita' di una
condanna  penale,  dalla  certezza  che  rivolgendosi   all'autorita'
giudiziaria  la  stessa  persona  che  chiede  tutela  e'   costretta
all'autoincriminazione  e  cosi'  facendo  deve   certamente   essere
sottoposta ad un procedimento penale. 
    E' evidente in questa vicenda che la persona che decide di  adire
l'autorita' giudiziaria per la tutela di un suo diritto fondamentale,
in questo caso la propria dignita'  e  l'integrita'  psicofisica  dei
figli a lungo esposti ad episodi di violenza assistita, deve, solo in
quanto  cittadina  straniera  non  comunitaria  priva  di  titolo  di
soggiorno, affrontare la certezza dell'incriminazione per il reato di
cui all'art.10-bis e la conseguente sottoposizione a giudizio penale. 
    Per altro non si tratta solo della certezza dell'incriminazione. 
    Si consideri infatti che l'obbligo di denuncia non da' luogo solo
ad avvio del procedimento  penale,  ma  comporta  anche  l'avvio  del
contemporaneo procedimento  amministrativo  volto  all'emissione  del
decreto di espulsione ed alla sua immediata attuazione;  quest'ultimo
procedimento, per espressa volonta' del legislatore desumibile  dalla
stessa  struttura  del   giudizio   penale,   e'   significativamente
prevalente, quanto all'esito, su quello penale. 
    Non sarebbe infatti  diversamente  comprensibile  il  dispositivo
derogatorio espresso dal comma quarto dell'art. 10-bis alla  generale
applicazione della regola di cui all'art.  13  comma  terzo,  ne'  la
stessa configurazione dell'esito del  giudizio  penale  previsto  dal
comma quinto dell'art. 10-bis secondo il quale il giudice,  acquisita
la notizia dell'esecuzione dell'espulsione, deve pronunciare sentenza
di non luogo a  procedere  anche  se  superato  il  limite  temporale
previsto dall'art. 13 comma 3-quater. 
    La questione quindi  proposta  dal  procuratore  della  parte  in
questo giudizio e condivisa dal PM  nel  parere,  e'  ad  avviso  del
Tribunale rilevante e non manifestamente infondata in primo luogo  in
relazione a quanto disposto dagli art.  2  e  24  comma  primo  della
Costituzione: l'esercizio dell'azione  giurisdizionale  a  tutela  di
diritti fondamentali della persona risulta radicalmente inciso  dalla
certezza che a tale esercizio fara' seguito sia l'incriminazione  per
il reato  di  cui  all'art.  10-bis,  sia  l'avvio  del  procedimento
amministrativo il cui esito e' l'espulsione dal territorio nazionale. 
    Questa conseguenza contrasta, ad avviso  del  Tribunale,  con  la
stessa interpretazione della Corte costituzionale  che  ha  affermato
anche per lo  straniero  non  regolarmente  presente  sul  territorio
nazionale   la   titolarita'   del   diritto   alla   piena    tutela
giurisdizionale quando siano in questione diritti che la Costituzione
ritiene inviolabili e come tali spettanti ai singoli «non  in  quanto
partecipi di una determinata comunita' politica, ma in quanto  esseri
umani» (Corte costituzionale, sentenza 22 marzo 2001 n.105 e sentenza
8 luglio 2004 n. 222). 
    Del   resto   riconoscimento   del   diritto   ad   una    tutela
giurisdizionale effettiva per lo straniero in quanto persona,  dunque
anche se non regolarmente presente, e' esplicitamente affermato nella
normativa in questione all'art. 2 comma quinto secondo il quale «Allo
straniero e' riconosciuta parita' di  trattamento  con  il  cittadino
relativamente  alla  tutela  giurisdizionale  dei  diritti  e   degli
interessi legittimi»; la disposizione e' evidentemente finalizzata  a
riconoscere  il  diritto  alla  tutela  giurisdizionale  anche   allo
straniero non regolarmente presente sul  territorio  nazionale,  come
desumibile dall'assenza di ogni specificazione ulteriore in  aggiunta
alla locuzione «straniero», invece contenuta al comma  secondo  dello
stesso articolo che tratta  del  godimento  dei  diritti  in  materia
civile o al comma  quarto  relativo  alla  partecipazione  alla  vita
pubblica locale. 
    Per altro, solo per contestualizzare quanto sin qui osservato, va
precisato che la questione all'esame del Tribunale e' emblematica  di
una  contrasto  diffuso  ed  immanente  la   giurisdizione   minorile
successivamente all'entrata in vigore dell'art. 10-bis ogni volta che
la tutela di diritti fondamentali della  persona,  sia  del  genitore
come del figlio minorenne,  riguardi  cittadini  stranieri  privi  di
permesso di soggiorno; basti pensare ai ricorsi proposti al Tribunale
minorile ai sensi dell'art. 31 comma terzo del d.lgs. n. 286 del 1998
con cui il ricorrente,  mentre  chiede  di  essere  autorizzato  alla
permanenza  sul  territorio  nazionale,  necessariamente  segnala  la
propria presenza irregolare ed incorre quindi nell'incriminazione per
reato di cui all'art. 10-bis del d.lgs. n. 286  del  1998,  questione
comunque non risolta neppure nel caso  di  accoglimento  del  ricorso
data la natura permanente  del  reato  e  l'effetto  non  retroattivo
dell'autorizzazione giudiziale. 
    Sotto diverso e concorrente profilo, ritiene il Tribunale che  la
questione evidenziata contrasti anche con gli artt. 11  e  117  comma
primo Costituzione, quest'ultimo nella parte in cui indica  a  limite
dell'esercizio della potesta' legislativa il  rispetto  «dei  vincoli
derivanti   dall'ordinamento    comunitario    e    dagli    obblighi
internazionali». 
    La situazione in esame ad avviso del Collegio presenta profili di
contrasto con questi vincoli, dal momento che il principio di  tutela
giurisdizionale effettiva costituisce principio generale  e  fondante
del diritto comunitario, derivante  dalle  tradizioni  costituzionali
degli stati membri ed attualmente confermato anche dall'art.47  della
Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea proclamata a Nizza
il 7 dicembre 2000,  adottata  a  Strasburgo  il  12  dicembre  2007,
attualmente  recepita  nel  Trattato  di  Lisbona,  modificativo  del
Trattato sull'Unione europea e del Trattato che  istituisce  l'Unione
europea, entrato in vigore il 1° dicembre 2009, che  al  nuovo  testo
dell'art. 6 comma primo prevede che l'Unione  riconosce  diritti,  le
liberta' ed i principi sanciti dalla Carta «che ha lo  stesso  valore
giuridico dei Trattati». 
    Secondo l'art. 47 della Carta «Ogni individuo, i cui diritti e le
cui liberta' garantiti dal diritto dell'Unione siano  stati  violati,
ha diritto ad  un  ricorso  effettivo  dinanzi  ad  un  giudice,  nel
rispetto delle condizioni previste dal presente articolo». 
    Precisa poi il successivo art.  52  della  Carta  che  «Eventuali
limitazioni all'esercizio dei diritti e delle  liberta'  riconosciuti
con la presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare
il contenuto essenziale del detti diritti e liberta'». 
    I principi richiamati sono per altro il risultato di una lunga  e
risalente elaborazione della Corte di Giustizia  dell'Unione  europea
riscontrabile in numerosissime pronunce (tra le piu' recenti  in  tal
senso: sentenza 13 marzo 2007, causa  C-432/05,  Unibet  Ltd.,  p.37;
sentenza 3 settembre 2008, cause riunite C-402/05  P  e  C-415/05  P,
Kadi  e  Al  Barakaat  International   Foundation   /   Consiglio   e
Commissione, p. 8; sentenza 16 luglio 2009, causa C-12/08,  Mono  Car
Styling s.a., p.37; sentenza 19 maggio 2010, causa T-181/08, Tay  Za,
p.141). 
    Profili di contrasto con  i  vincoli  derivanti  dall'ordinamento
comunitario si presentano, ad avviso del Collegio, nella  vicenda  in
esame perche' per  un  verso  sono  certamente  in  gioco  diritti  e
liberta'  ad  ogni  individuo,  a  prescindere  dalla   cittadinanza,
garantiti  dal  diritto  dell'Unione,  per  altro  verso  perche'  le
conseguenze   derivanti    dall'introduzione    della    disposizione
incriminatrice di cui all'art. 10-bis del  d.lgs.  n.  286  del  1998
determinano una compressione dell'esercizio del diritto  alla  tutela
giurisdizionale di tale portata da incidere il  contenuto  essenziale
del diritto stesso al punto di privarlo di qualsiasi effettivita'. 
    E' opportuno osservare al riguardo che la tutela  giurisdizionale
e'  in   questo   caso   preordinata   ad   assicurare   effettivita'
nell'attribuzione di diritti fondamentali inerenti la dignita'  della
persona umana, compromessa o minacciata dalla violenza esercitata  in
ambito domestico contro le donne. 
    Questi  principi  trovano  ampio   riconoscimento   nel   diritto
comunitario, in primis nel Trattato secondo cui  «L'unione  si  fonda
sui valori del rispetto della dignita' umana (...) Questi valori sono
comuni  agli  Stati  membri  in  una  societa'   caratterizzata   dal
pluralismo,  dalla  non  discriminazione,  dalla  tolleranza,   dalla
giustizia, dalla solidarieta' e dalla parita'  tra  donne  e  uomini»
(art.2), quindi nella  Carta  dei  diritti  fondamentali  dell'Unione
europea che  all'art.21  vieta  qualsiasi  forma  di  discriminazione
fondata, tra le altre, sul sesso e afferma al successivo art.  23  il
principio di parita' tra donne e uomini. 
    Non solo  il  diritto  comunitario,  ma  gli  obblighi  derivanti
all'Italia dai principi e dalle determinazioni espresse sul tema  dal
diritto internazionale configurano profili di contrasto con l'art. 11
Costituzione:   rilevante   al   riguardo    sia    la    Convenzione
sull'eliminazione di ogni  forma  di  discriminazione  nei  confronti
delle donne approvata il 18 dicembre 1979  dalla  Assemblea  generale
delle Nazioni Unite (ONU), con conseguente Protocollo opzionale del 6
ottobre  1999  sulla  Convenzione,  che  garantisce  alle  donne   la
possibilita'  di  presentare  un  ricorso  individuale,  firmato   10
dicembre 1999 e ratificato dall'Italia il 22 dicembre  2000,  sia  la
Dichiarazione delle Nazioni Unite  sull'eliminazione  della  violenza
contro le donne,  risoluzione  generale  dell'Assemblea  ONU  del  20
dicembre 1993, che all'arti precisa che ai sensi della dichiarazione,
il termine «violenza contro le donne» include ogni atto  di  violenza
basata  sul  genere,  inclusi  quelli  di  coercizione  e  privazione
arbitraria della liberta' sia che avvengano nella vita pubblica  come
in quella privata. Nell'ambito del Consiglio di Europa,  e'  ispirata
agli stessi principi la Raccomandazione del Comitato dei Ministri del
Consiglio d'Europa Rec 5 (2002)  adottata  30  aprile  2002,  che  ha
impegnato gli Stati membri alla revisione delle proprie  legislazioni
e politiche al  fine  di  assicurare  alle  donne  l'esercizio  e  la
protezione dei loro diritti umani e delle liberta' fondamentali. 
    Per queste ragioni ad avviso del Tribunale la lesione del diritto
ad    una    tutela    giurisdizionale     effettiva,     determinata
dell'introduzione   del   reato    di    immigrazione    clandestina,
necessariamente si traduce per le donne  straniere  non  regolarmente
presenti sul territorio nazionale nella negazione del  riconoscimento
di diritti  fondamentali  della  persona  affermati  e  tutelati  sia
dall'ordinamento comunitario, come dal diritto internazionale. 
    Per altro il contrasto tra  la  tutela  di  diritti  fondamentali
della persona e l'esigenza del controllo dei flussi migratori e' gia'
stato   affrontato,   e   risolto,   dal   legislatore   al   momento
dell'approvazione del d.lgs.  n.  286  del  1998  con  riferimento  a
diritti, diversi per contenuto ma di egual rango di quello in  esame,
come comprovato da quanto previsto dall'art. 35 comma quinto  secondo
cui «L'accesso alle strutture sanitarie da parte dello straniero  non
in regola con le norme sul soggiorno non puo' comportare  alcun  tipo
di segnalazione all'autorita', salvo i casi in cui  sia  obbligatorio
referto, a parita' di condizioni con il cittadino italiano»,  cui  ha
fatto riferimento anche il PM nel parere. 
    La disposizione, prevedendo attualmente una  speciale  condizione
di esonero per i pubblici ufficiali  o  gli  incaricati  di  servizio
pubblico dal dovere di denuncia di cui al comma quarto dell'art.  331
c.p.p., e' evidentemente preordinata ad assicurare  uno  dei  diritti
fondamentali che la Costituzione riconosce alla persona umana,  cosi'
riconoscendo l'esistenza di «un nucleo irriducibile del diritto  alla
salute protetto dalla  Costituzione  come  ambito  inviolabile  della
dignita' umana, il  quale  impone  di  impedire  la  costituzione  di
situazioni  prive  di  tutela,  che  possano   appunto   pregiudicare
l'attuazione di quel diritto» (sentenza n. 252 del 5 luglio 2001). 
    A maggior ragione acquista  risalto  ora  la  previsione,  se  si
considera che al momento della sua emanazione la disposizione  mirava
ad escludere  l'effetto  dissuasivo  che  avrebbe  potuto  esercitare
nell'accesso  ai  servizi  sanitari  la   sola   eventualita'   della
segnalazione indirizzata all'autorita' amministrativa per l'emissione
del decreto di espulsione, non  a  quella  giudiziaria,  non  essendo
allora prevista la fattispecie incriminatrice di cui all'art.10-bis. 
    La natura certamente eccezionale della disposizione ne esclude la
possibilita' di interpretazione estensiva. 
    Non e'  invece  espressa  un'eguale  condizione  di  esonero  per
l'autorita'  giudiziaria  adita  dallo  straniero  non   regolarmente
presente, il cui diritto alla  tutela  giurisdizionale  effettiva  e'
comunque previsto, come precisato in precedenza,  dall'art.  2  comma
quinto del d.lgs. n. 286 del 1998. Ritiene quindi  il  Tribunale  che
altra  soluzione  non  sia  consentita  all'interprete,  al  fine  di
risolvere il contrasto sin qui rilevato con gli artt. 2, 11, 24 comma
primo e  117  comma  primo  Costituzione,  che  proporre  alla  Corte
questione di costituzionalita' dell'art. 2 comma quinto del d.lgs. 25
luglio 1998 n. 286 nella parte in cui non e' previsto che nel caso di
azione giudiziaria finalizzata alla tutela  di  diritti  fondamentali
della persona, l'autorita'  giudiziaria  adita  non  sia  tenuta  ne'
all'obbligo  di  redigere  ed  effettuare  la  denuncia  al  pubblico
ministero di cui all'art. 331 comma  quarto  c.p.p.,  ne'  ad  alcuna
segnalazione all'autorita'  amministrativa  competente  all'emissione
del provvedimento di espulsione. 
    Oltre che fondata per le ragioni sin qui espresse,  la  questione
risulta  anche,  ad  avviso  del  Tribunale  rilevante  ai  fini  del
decidere,  tenuto  conto  dell'impedimento  che  ne  consegue  ad  un
regolare svolgimento del processo, dovuto alla decisione della sig.ra
J.N. di non presenziare personalmente alle attivita' processuali, con
conseguente impossibilita' a svolgere attivita' non  surrogabili  del
procuratore nominato, come l'interrogatorio libero della parte. 
    Si aggiunga a cio' la considerazione che, tenuto conto  dell'eta'
dei minori (rispettivamente H. ed Z.A.), la loro personale  audizione
risulta necessaria, anche in ragione di quanto disposto dagli artt. 3
e 6 lett. b) della Convenzione europea sull'esercizio dei diritti dei
fanciulli,  fatta  a  Strasburgo  25  gennaio   1996   e   ratificata
dall'Italia con legge 20 marzo 2003 n.77 e  dall'art.  24  p.1  della
Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. 
    L'assenza quindi del genitore dall'attivita' processale  comporta
anche  l'impossibilita'  di  effettuare   l'audizione   dei   minori,
determinando anche per questa ragione un impedimento  al  regolare  e
compiuto svolgimento dell'attivita' processuale.