IL TRIBUNALE 
 
    A scioglimento della riserva del 20 dicembre  2010,  nella  causa
iscritta al numero n. 4571/2010 R.G., pendente tra Sergio  Gianfranco
(avv. Domenico Carpagnano) e la S.p.a. Poste Italiane (Avv. Francesca
Nappi), ha pronunciato la seguente  ordinanza  di  promuovimento  del
giudizio dinanzi alla Corte costituzionale,  in  ordine  all'art.  32
della legge 4 novembre 2010, n. 183, con riferimento  agli  artt.  3,
11, 24, 101, 102, 111 e 117 della Costituzione. 
 
                           I n  f a t t o 
 
    Con domanda dell'11 agosto 2010, Sergio Gianfranco  ha  convenuto
in  giudizio  la  S.p.a.  Poste  Italiane,  chiedendo  l'accertamento
dell'illegittimita'  del  termine  apposto  al  contratto  di  lavoro
sottoscritto il 5 aprile 2007, «ai sensi dell'art. 2 comma 1-bis  del
d.lgs. n. 368/2001 cosi' come  modificato  dalla  legge  23  dicembre
2005, n. 266», in  virtu'  del  quale  ha  prestato  servizio,  quale
sportellista, presso l'Ufficio Postale di Andria 2, dal 6 aprile 2007
al 30 giugno 2007. 
    Nella pendenza del giudizio, il 24 novembre 2010  e'  entrata  in
vigore la legge n. 183/2010, il cui art. 32 ha previsto: 
        a) al qunto comma che, «nei casi di conversione del contratto
a tempo determinato, il giudice  condanna  il  datore  di  lavoro  al
risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennita'  onnicomprensiva
nella misura compresa tra un minimo  di  2,5  ed  un  massimo  di  12
mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto  riguardo
ai criteri indicati nell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604»; 
        b) al sesto comma che, «in presenza di  contratti  ovvero  di
accordi  nazionali,  territoriali  o  aziendali,  stipulati  con   le
organizzazioni sindacali comparativamente  piu'  rappresentative  sul
piano  nazionale,  che  prevedano   l'assunzione,   anche   a   tempo
indeterminato, di lavoratori gia' occupati con  contratto  a  termine
nell'ambito   di   specifiche   graduatorie,   il   limite    massimo
dell'indennita' fissata dal comma 5 e' ridotto alla meta'»; 
        c) e al settimo comma, che «le disposizioni di cui ai commi 5
e 6 trovano applicazione per tutti i  giudizi,  ivi  compresi  quelli
pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge»  e  che
«con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli  fini
della determinazione della indennita' di cui  ai  commi  5  e  6,  il
giudice fissa alle parti  un  termine  per  l'eventuale  integrazione
della domanda  e  delle  relative  eccezioni  ed  esercita  i  poteri
istruttori ai sensi dell'art. 421 del codice di procedura civile». 
    Costituitasi in giudizio, la societa' Poste Italiane, per  quanto
qui rileva, ha  invocato  l'applicazione  dell'art.  32  citato,  ivi
incluso il comma 6, «in quanto» avrebbe «stipulato  (e  "manterrebbe"
in essere)  accordi  sindacali  a  livello  nazionale  che  prevedono
l'assunzione anche a tempo indeterminato di lavoratori gia'  occupati
con contratto a termine nell'ambito di specifiche graduatorie». 
    All'udienza del 6 dicembre 2010, questo  giudice  ha  pronunciato
una sentenza parziale, con la quale ha dichiarato  «la  nullita'  del
termine apposto al contratto di lavoro sottoscritto  dalle  parti  in
data 5 aprile 2007», e «che tra la S.p.a.  Poste  Italiane  e  Sergio
Gianfranco e' intercorso un rapporto a tempo indeterminato dalla data
di assunzione (6 aprile 2007)», ordinando «alla prima di  riammettere
immediatamente in servizio il secondo» e, al contempo, con  ordinanza
di  pari  data,  «impregiudicata  ogni  ulteriore  valutazione»,   ha
concesso «alle parti,  ex  art.  32,  comma  7  del  c.d.  "Collegato
Lavoro"»,  un  termine  per  l'integrazione  della  domanda  e  delle
eccezioni in ordine all'ammontare del risarcimento dovuto,  rinviando
«per la discussione sui restanti profili alla udienza del 20 dicembre
10». 
    Nelle  sue  note  difensive,  il  ricorrente  ha  sollevato   una
questione di legittimita' costituzionale,  ritenendo  che  l'art.  32
della legge n. 183/2010 violi gli artt. 3, 11, 24, 101,  102,  111  e
117 Cost. 
 
                         I n  d i r i t t o 
 
    I. Preliminarmente, appare opportuno precisare che, in forza  del
d.lgs. n. 368/2001 (applicabile alla specie ratione temporis),  prima
dell'entrata in vigore dell'art.  32  della  legge  n.  183/2010,  il
giudice, nel caso in cui avesse accertato con  sentenza  la  nullita'
del termine apposto al contratto di lavoro,  oltre  a  convertire  il
rapporto in un rapporto ab origine  a  tempo  indeterminato,  avrebbe
dovuto, per  diritto  vivente,  condannare  il  datore  di  lavoro  a
riammettere  in  servizio  il  lavoratore,   a   corrispondergli   le
retribuzioni  a  partire  dall'atto  di  messa  in  mora,  al   netto
dell'eventuale aliunde perceptum, e a regolarizzare la sua  posizione
contributiva. 
    Ebbene,  tale  disciplina   delle   «conseguenze»   del   termine
illegittimo  -  che,  ai  fini   della   determinazione   del   danno
risarcibile, aveva il pregio di tenere conto di quanto ciascuna delle
parti contrattuali avesse contribuito, con il suo comportamento, alla
produzione del danno e di considerare in quale misura  il  lavoratore
fosse stato effettivamente danneggiato (prevedendo che fosse  portato
in detrazione l'aliunde perceptum) - e' stata letteralmente  travolta
dall'art. 32 della legge  n.  183/2010,  che,  a  partire  dalla  sua
entrata in vigore (24 novembre 2010), con una disposizione  che,  per
espressa  previsione  normativa,  trova  «applicazione  per  tutti  i
giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in  vigore
della ...legge» (comma 7), ha stabilito che, «nei casi di conversione
del contratto a tempo determinato», tutto cio' che il lavoratore puo'
pretendere (a parte la conversione e, quindi, la sua riammissione  in
servizio), e'  un  risarcimento  del  danno  pari  ad  «un'indennita'
onnicomprensiva nella misura compresa tra un  minimo  di  2,5  ed  un
massimo di 12 mensilita' dell'ultima retribuzione globale  di  fatto,
avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della legge 15  luglio
1966, n. 604» (comma 5),  addirittura  ridotta,  nel  tetto  massimo,
«alla meta'», laddove si sia «in  presenza  di  contratti  ovvero  di
accordi  nazionali,  territoriali  o  aziendali,  stipulati  con   le
organizzazioni sindacali comparativamente  piu'  rappresentative  sul
piano  nazionale,  che  prevedano   l'assunzione,   anche   a   tempo
indeterminato, di lavoratori gia' occupati con  contratto  a  termine
nell'ambito di specifiche graduatorie, ...». 
    In sostanza, in virtu' di questo rinvio, il  giudice  di  merito,
nella quantificazione e nella liquidazione del  danno,  non  solo  e'
obbligato ad avere «riguardo al numero dei dipendenti occupati,  alle
dimensioni dell'impresa, all'anzianita' di servizio del prestatore di
lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti»  (e  cioe'  a
dei criteri che difficilmente sono in grado di fotografare  il  danno
dal punto di vista di  chi  lo  subisce),  ma  deve  anche  astenersi
dall'accertare - essendo diventato irrilevante - quale  possa  essere
stato  il  danno  nel  suo  effettivo  ammontare,  dovendo   comunque
contenerlo entro il  limite,  «onnicomprensivo»,  minimo  e  massimo,
fissato dalla legge. 
    E tutto cio', senza che risulti chiaro l'interesse «superiore» da
tutelare e cioe' quell'interesse che, in qualche modo, possa  rendere
equa e, comunque, giustificare la scelta del legislatore di negare al
lavoratore cio' che, invece, viene garantito a qualsiasi altra  parte
contrattuale,  ossia  il   diritto   ad   una   tutela   risarcitoria
«integrale». 
    In questo caso, la legge non  e'  intervenuta  per  sostenere  la
parte debole del rapporto, ma addirittura per toglierle cio' che,  in
applicazione dei principi generali del nostro ordinamento  giuridico,
aveva  diritto  a  riceversi  come  ogni  altro  soggetto  negoziale,
finendo, in tal modo, per renderla piu' debole  di  quanto  gia'  non
fosse. 
    Per effetto della novella, il lavoratore illegittimamente assunto
a termine finisce per diventare un moderno «capite deminutus», a  cui
vengono negati i diritti riconosciuti agli «uomini  liberi»:  il  che
comporta  la  violazione  di  una  quantita'  incredibile  di   norme
costituzionali. 
    II. Ad essere violato, primo fra tutti, e' l'art. 3  Cost.,  che,
nella  giurisprudenza  costituzionale,  e'  la  norma  che  non  solo
impedisce la codificazione di disposizioni  discriminatorie,  ma  che
pone anche un argine contro quelle che siano  in  grado  di  alterare
l'armonia del sistema. 
    Sotto questo profilo, a  giudizio  di  questo  tribunale,  appare
evidente   l'irragionevolezza   dell'estensione   dei   criteri    di
liquidazione del danno adottati dal legislatore  con  riferimento  ai
licenziamenti   illegittimi,   intimati   nell'area   di   stabilita'
obbligatoria, all'istituto del contratto a termine,  in  quanto,  nei
primi (a differenza che nel secondo), manca il diritto del prestatore
ad una ricostruzione del rapporto di lavoro ed il  danno  che  assume
rilevanza e' quello che si produce alla data in cui il recesso  viene
intimato (e non gia' quello in cui il rapporto  venga  ripristinato),
di tal che la durata  del  processo  perde  importanza  (non  essendo
previsto il ripristino del rapporto ed essendo l'attualizzazione  del
credito risarcitorio comunque garantita dall'art. 429 c.p.c.). 
    Nel contratto a termine, invece, essendo prevista la  conversione
del rapporto e  la  riammissione  in  servizio  del  lavoratore,  con
efficacia ex tunc, e, quindi, la ricostruzione  del  rapporto  (cosi'
come accade per  i  licenziamenti  intimati  in  area  di  stabilita'
reale), ai  fini  della  determinazione  del  danno,  la  durata  del
processo viene ad  assumere  un'importanza  fondamentale,  posto  che
l'entita' del danno e' direttamente  proporzionale  alla  durata  del
processo, nel senso  che  quanto  piu'  tempo  il  lavoratore  dovra'
attendere per ottenere una sentenza favorevole, tanto maggiore  sara'
il danno che andra' a subire. 
    In questo senso, e' evidente che la  norma  di  cui  all'art.  32
legge n.  183/2010,  omettendo  di  dare  rilevanza  alle  lungaggini
processuali e «contenendo» ingiustificatamente l'importo risarcibile,
finisce per fame pagare il  costo  solo  all'incolpevole  lavoratore,
nonostante che questi, anche volendolo - a differenza del  datore  di
lavoro (che, cautelativamente, potrebbe anticipare la riammissione in
servizio del prestatore, in attesa della pronuncia finale, in modo da
evitare  di  dover  pagare  la  retribuzione  e  i  contributi  senza
riceversi la controprestazione  lavorativa)  -  non  possa  porre  in
essere comportamenti «virtuosi», tesi cioe' a limitare l'entita'  del
danno risarcibile. 
    Insomma, se i criteri di cui all'art. 8 della legge  n.  604/1966
hanno un senso con riferimento a quelle situazioni nelle quali manchi
il diritto al ripristino del rapporto, non ne hanno alcuno rispetto a
quelle nelle quali l'ordinamento riconosca al lavoratore  il  diritto
alla conversione, nelle quali  ci  si  deve  doverosamente  porre  il
problema di chi debba ripagare  il  lavoratore  per  cio'  che  abbia
perduto (retribuzioni e contributi) medio tempore e cioe'  nel  tempo
necessario  all'accertamento   giudiziale   dell'illegittimita'   del
termine. 
    Irragionevole e'  da  ritenere,  allora,  la  valorizzazione  dei
criteri di cui all'art. 8  della  legge  n.  604/1966,  che  porta  a
privilegiare un meccanismo che, con il  riferimento  al  «numero  dei
dipendenti occupati», alle «dimensioni  dell'impresa»  e  agli  altri
elementi indicati dalla norma,  non  e'  assolutamente  in  grado  di
tenere conto del travaglio del  lavoratore  nel  tempo  necessario  a
conseguire  la  sentenza  favorevole:  travaglio,  che,   in   quanto
dipendente  dall'estromissione  dall'azienda  e  dalla   sopravvenuta
incapacita' del prestatore di produrre reddito, perche' possa  essere
ripristinato in termini di effettivita', merita, per forza  di  cose,
di essere quantificato in maniera diversa. 
    La forfetizzazione del risarcimento - peraltro secondo i  criteri
inappropriati di cui  si  e'  detto  -  ha  tutto  il  sapore  di  un
inaccettabile «contentino» per il lavoratore, che ha come presupposto
implicito il fatto che il mantenimento del diritto  alla  conversione
del rapporto di lavoro sia, dopotutto, gia' sufficiente  a  ripagarlo
della perdita del diritto alla  retribuzione  (nonostante  l'atto  di
messa in mora) e, ancor prima (il che, se possibile, e'  ancora  piu'
grave), di quello  alla  ricostruzione  previdenziale  del  rapporto,
visto che, da un lato, rende irrilevante il tempo che  il  prestatore
e' costretto ad  attendere  per  ottenere  l'accertamento  giudiziale
dell'illegittimita'  del   termine   e,   dall'altro,   finisce   per
monetizzare  (il  che  e'   veramente   intollerabile)   un   diritto
indisponibile (qual e' quello  alla  regolarizzazione  contributiva),
ricomprendendolo in quell'indennita' «onnicomprensiva» - che definire
irrisoria appare un eufemismo -  che,  in  forza  dei  commi  5  e  6
dell'art. 32 della legge n. 183/2010,  puo'  essere  riconosciuta  al
prestatore di lavoro a titolo di risarcimento. 
    Quella di cui al citato art. 32 e',  allora,  effettivamente  una
norma irrazionale ed irragionevole, che  «rema»  contro  il  sistema,
nella  misura  in  cui  non  solo  non  rimuove  gli  ostacoli   alle
disuguaglianze di fatto, ma anzi ne promuove delle altre  per  legge,
senza che cio' sia giustificato da un interesse  superiore,  finendo,
in tal modo, per negare al prestatore di lavoro subordinato cio' che,
invece,  l'ordinamento  riconosce  a   tutti   gli   altri   soggetti
contrattuali nel caso di inadempimento delle loro controparti e cioe'
il diritto al pieno risarcimento del danno subito. 
    Per effetto della novella, se fino ad oggi il datore  di  lavoro,
al pari del lavoratore, aveva interesse ad una sollecita  definizione
del giudizio, per evitare di dover pagare - a  partire  dall'atto  di
messa in mora - tutte le retribuzioni maturande fino alla sentenza  e
soprattutto  i  contributi  previdenziali,  da  ora  in   poi   sara'
incentivato ad avere un comportamento dilatorio ed ostruzionistico  e
a ritardare, con ogni mezzo, il momento della  definitiva  pronuncia,
potendo la sua condotta rilevare (ed essere «sanzionata») solo  nella
misura del risarcimento massimo previsto dalla norma, pari, nel  caso
di  specie,  ad  un'indennita'  onnicomprensiva  non  superiore  a  6
«mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto». 
    Anche  per  questo  e'  evidente  come  la  forfetizzazione   del
risarcimento contraddica le  finalita'  perseguite,  per  lo  meno  a
parole, da altra parte dell'art. 32 citato (quella  che  prevede  una
doppia decadenza, finalizzata ad ottenere una  sollecita  definizione
dei contenziosi astrattamente attivabili dai lavoratori). 
    Non ha alcun senso logico (prima ancora che giuridico) parlare di
conversione (e, quindi, di ricostruzione ex tunc) di un rapporto,  se
a questa non si ricolleghi pure il diritto del lavoratore a percepire
- cosi' come accade per i licenziamenti illegittimi intimati in  area
di stabilita' reale - tutte le retribuzioni (a partire dalla  lettera
di  messa  in  mora  e  fino  all'effettiva   reintegra,   al   netto
dell'aliunde perceptum) e,  soprattutto,  il  diritto  a  beneficiare
della regolarizzazione della posizione contributiva. 
    Prima  dell'entrata  in  vigore  dell'art.  32  citato,   se   il
lavoratore - dopo la  sentenza  accertativa  dell'illegittimita'  del
termine - avesse  rinunziato  ai  contributi  previdenziali,  la  sua
rinunzia non sarebbe stata opponibile all'Istituto di previdenza,  in
ragione della natura indisponibile di quel diritto. 
    Oggi, invece, e' lo stesso  legislatore  che,  con  la  norma  in
commento, ha finito per «declassare»  il  diritto  all'accredito  dei
contributi, rendendo «disponibile»  cio'  che  prima  non  era  tale,
finendo per provocare al  lavoratore  un  danno  che,  com'e'  facile
intuire, e' ancor piu' grave della stessa perdita della retribuzione. 
    E, nel caso di specie, la violazione dell'art.  3  Cost.  non  e'
solo riconducibile all'irragionevolezza (di cui  si  e'  dato  conto)
dell'intervento normativo - che ha finito per portare scompensi nella
coerenza   del   sistema,   «imbarbarendolo»   -   ma   anche    alle
discriminazioni che ha provocato  fra  lavoratori  e  lavoratori,  in
presenza di situazioni «comparabili». 
    A questo proposito,  basti  considerare  che  il  lavoratore  che
ottenga  incolpevolmente  la   pronuncia   «favorevole»   nei   gradi
successivi al primo  e'  chiaramente  discriminato  rispetto  a  chi,
invece, l'abbia ottenuta gia' in primo grado,  non  solo  perche'  ha
titolo di riceversi  un'indennita'  risarcitoria  eguale,  quantomeno
nella misura massima, a quella assicurata a quest'ultimo  (nonostante
il maggiore «sforzo» processuale e la verosimile piu' lunga  attesa),
ma anche perche', a differenza del secondo,  non  puo'  tenere  fuori
dall'indennita' «onnicomprensiva»  le  retribuzioni  e  i  contributi
successivi alla pronuncia di primo grado. 
    Ne' puo' sfuggire che il trattamento riservato dall'art. 32 della
legge n. 183/2010 ai lavoratori assunti a termine, nel  caso  in  cui
venga accertato il loro diritto alla conversione del  rapporto  (che,
come gia' detto, nega sia il risarcimento del danno «effettivo»,  che
la ricostruzione previdenziale del rapporto,  anche  per  il  periodo
successivo alla messa in mora del datore di lavoro, anche  quando  al
dipendente non possa essere mosso alcun rilievo e magari il protrarsi
dei  tempi  del  processo  sia  addebitabile   in   gran   parte   al
comportamento dilatorio ed ostruzionistico del datore), non e'  stato
esteso dalla  novella  ad  altre  categorie  di  dipendenti,  il  cui
rapporto sia parimenti temporaneo e comunque precario, benche', sotto
il profilo dei tempi e della procedura di impugnazione,  siano  stati
trattati dal legislatore in maniera identica. 
    Si pensi, a tal proposito, ai rapporti irregolari  cui  fa  cenno
l'art. 32, terzo comma, lettera a),  ai  rapporti  con  i  co.co.co.,
«anche nella modalita' a progetto» di cui alla successiva lettera b),
ai rapporti di somministrazione di lavoro di  cui  al  quarto  comma,
lettera d) e a quelli di fornitura di lavoro temporaneo di  cui  alla
legge n. 196/1997, nonche' alle cessioni del contratto  di  cui  alla
lettera c) del 4° comma del cit. art. 32, per i quali, se il  giudice
accerta la violazione della norma,  il  lavoratore  ha  diritto  alla
ricostruzione  del  rapporto  di  lavoro,  sia   sotto   il   profilo
retributivo che sotto quello contributivo, secondo le consuete regole
generali. 
    Sempre in punto di violazione  dell'art.  3  Cost.,  va,  infine,
sottolineato come,  argomentando  dalla  lettera  del  settimo  comma
dell'art. 32 legge n. 183/2010 (a mente del quale «ove necessario, ai
soli fini della determinazione della indennita' di cui ai commi  5  e
6,  il  giudice  fissa  alle  parti  un   termine   per   l'eventuale
integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed  esercita  i
poteri istruttori ai sensi dell'art.  421  del  codice  di  procedura
civile»), tanto in dottrina  quanto  in  giurisprudenza  si  e'  gia'
sostenuto che il quinto ed il sesto comma della medesima disposizione
di legge siano applicabili solo ai giudizi pendenti in  primo  grado,
sia perche' la norma richiama solo l'art. 421  c.p.c.  (e  non  anche
l'art. 437 c.p.c.), sia perche', diversamente opinando, si violerebbe
il principio devolutivo (che impone al giudice di decidere sulla base
dei motivi di gravame), sia perche',  per  come  e'  strutturato,  il
processo in cassazione non lo rende possibile e sia perche' cio'  che
la disposizione consente e' solo l'integrabilita' delle  «domande»  e
delle «eccezioni» e non anche dei «motivi di impugnazione». 
    Da cio' deriva - ed e' il dato letterale della norma  di  cui  al
settimo comma dell'art. 32 cit. ad imporlo (salvo che non si vogliano
proporre improbabili interpretazioni estensive e/o  analogiche,  che,
per  la  specialita'  della  disposizione  di  legge,  non  sarebbero
certamente consentite all'interprete) -  che  il  lavoratore  la  cui
causa penda in appello o in cassazione si ritrova a beneficiare di un
trattamento  di  miglior  favore  rispetto  a  quello  assicurato  al
lavoratore il cui  giudizio  sia  ancora  pendente  in  primo  grado,
determinando  un  inammissibile  disparita'   di   trattamento,   per
violazione, ancora una volta, dell'art. 3 Cost. 
    III. Altre norme che,  ad  avviso  di  questo  giudice,  appaiono
violate dall'art. 32 della legge n. 183/2010 sono quelle di cui  agli
artt. 24, 101 e 102 Cost. 
    Si e' gia' detto che, per diritto vivente, prima dell'entrata  in
vigore  dell'art.  32  cit.,  laddove  il  giudice  avesse  accertato
l'illegittimita' del termine, avrebbe dovuto convertire il rapporto e
condannare il datore di lavoro al pagamento  delle  retribuzioni  dal
momento in cui  era  stato  messo  in  mora,  al  netto  dell'aliunde
perceptum, e alla ricostruzione previdenziale del rapporto. 
    Essendo queste le conclusioni rassegnate dal ricorrente nella sua
domanda giudiziale, appare evidente come l'art. 32 cit., nella misura
in cui - con un atto d'imperio - le ha «ridimensionate»  nei  termini
gia' innanzi riferiti, abbia finito per incidere sui  principi  della
domanda e dell'interesse ad agire e, quindi, sul diritto  all'azione,
che trova la sua garanzia costituzionale nell'art. 24 Cost. 
    Il legislatore della legge n. 183/2010, senza dettare  una  norma
di interpretazione autentica (che pure  sarebbe  stata  improponibile
nella fattispecie  in  esame,  vista  l'uniformita'  delle  pronunzie
giudiziali sull'argomento), stravolgendo le  regole  piu'  elementari
del nostro ordinamento giuridico, ha espressamente  previsto  che  la
novella retroagisca i suoi effetti, fino addirittura  alla  legge  n.
230/1962, non piu' in vigore dal 2001, omettendo di  considerare  che
la giurisprudenza costituzionale ha da tempo chiarito  che  le  leggi
retroattive trovano un limite invalicabile nei «principi generali  di
ragionevolezza e di uguaglianza» (di  cui  si  e'  gia'  parlato  nel
paragrafo che precede), nella «tutela dell'affidamento legittimamente
posto sulla certezza  dell'ordinamento  giuridico»  e  nel  «rispetto
delle funzioni costituzionalmente riservate  al  potere  giudiziario»
(v. Corte cost. n. 525/2000), nonche' nella «salvaguardia, oltre  che
dei principi costituzionali, di altri fondamentali valori di civilta'
giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e  dello  stesso
ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto  del  principio
generale   di   ragionevolezza»,    «la    tutela    dell'affidamento
legittimamente sorto nei soggetti quale  principio  connaturato  allo
Stato di  diritto»,  «la  coerenza  e  la  certezza  dell'ordinamento
giuridico»  ed  «il  rispetto   delle   funzioni   costituzionalmente
riservate al potere giudiziario» (v. Corte cost. n. 209/2010). 
    Se, come nel caso di specie, la norma  si  oppone  «alle  pretese
oggetto delle controversie» ed impedisce, «negandone  il  fondamento,
la realizzazione delle stesse», per il Giudice delle leggi «il vulnus
all'art. 24 della Costituzione e' reso  evidente  dal  fatto  che  il
legislatore   opera   una   sostanziale   vanificazione   della   via
giursdizionale, intesa quale mezzo  al  fine  dell'attuazione  di  un
diritto preesistente» (Corte cost. n. 103/1995). 
    L'efficacia retroattiva dell'art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge
n.  183/2010,  in   definitiva,   lede   il   «canone   generale   di
ragionevolezza» (art.  3  Cost.),  «l'effettivita'  del  diritto  dei
cittadini di agire in giudizio per la tutela  dei  propri  diritti  e
interessi legittimi» (art. 24, primo comma,  Cost.)  e  «l'integrita'
delle attribuzioni costituzionali dell'autorita' giudiziaria»  (artt.
101 e 102 Cost.) 
    IV. L'art. 32 legge n. 182/2010 viola anche gli artt. 117,  11  e
111 Cost. 
    Com'e' noto, per la Consulta  (v.,  da  ultimo,  Corte  cost.  n.
311/2009, che, a sua volta, richiama le precedenti sentenze nn. 348 e
349 del 2007), nel caso di contrasto di una norma nazionale  con  una
norma CEDU, il giudice, se non  e'  in  grado  di  comporlo  per  via
interpretativa,   e'   tenuto   a   sollevare   la    questione    di
costituzionalita' «con riferimento al parametro dell'art. 117,  primo
comma,  Cost.»,  spettando  al  Giudice  delle  leggi  -  una   volta
riconosciuta l'effettiva insanabilita' del contrasto «attraverso  una
interpretazione plausibile, anche sistematica,  della  norma  interna
rispetto alla norma convenzionale, nella lettura datane  dalla  Corte
di  Strasburgo»  -  il  compito   di   dichiarare   «l'illegittimita'
costituzionale della disposizione interna», laddove il contrasto  sia
«determinato da un tasso di tutela della norma nazionale inferiore  a
quello garantito dalla norma CEDU». 
    Ebbene, considerato che per la Corte europea il  principio  dello
Stato di diritto e la nozione di processo equo, sancito  dall'art.  6
della    CEDU,     vietano     l'interferenza     del     legislatore
nell'amministrazione  della  giustizia,  quando  sia   destinata   ad
influenzare l'esito della controversia, salvo  che  vi  siano  motivi
imperativi di interesse generale  -  essendo  intollerabile,  per  il
principio della parita' delle armi, che una parte possa essere  posta
in  una  condizione  di  sostanziale  svantaggio  rispetto   al   suo
avversario (nei casi Raffineries Grecques Stran e  Stratis  Andreadis
c. Grecia del 9 dicembre 1994, e Zielinski e altri c. Francia, del 28
ottobre  1999,  per  es.,   come   ricordato   dalla   stessa   Corte
costituzionale,  e'  stata  censurata  «la   prassi   di   interventi
legislativi soipravvenuti, che modifichino retroattivamente in  senso
sfavorevole per gli interessati le disposizioni di legge  attributive
di diritti, la cui lesione abbia dato  luogo  ad  azioni  giudiziarie
ancora pendenti all'epoca della modifica») - poiche',  nella  specie,
mancano proprio quei "motivi imperativi di  interesse  generale»  che
avrebbero  potuto  giustificarla,  appare  evidente  l'illegittimita'
della norma di cui all'art. 32, commi 5, 6 e 7, nella misura  in  cui
cancella, con efficacia retroattiva, una parte rilevante  di  diritti
(il risarcimento effettivo e la  regolarizzazione  previdenziale  del
rapporto)  comunque  riconosciuti  al  lavoratore  dalla   previgente
normativa. 
    E quanto innanzi se valeva ieri, vale ancor di piu'  oggi,  visto
che, con  l'entrata  in  vigore  del  Trattato  di  Lisbona  (che  ha
modificato l'art. 6  del  Trattato  UE),  l'Unione  ha  aderito  alla
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali, stabilendo che detti diritti «fanno parte  del
diritto dell'Unione in quanto principi generale». 
    V. Oltre  che  non  manifestamente  infondata,  la  questione  di
costituzionalita' innanzi illustrata e' da ritenere  anche  rilevante
nel giudizio a quo,  in  quanto  solo  l'espunzione  dall'ordinamento
giuridico, per effetto dell'accoglimento della sollevata questione di
costituzionalita', dell'art. 32, commi 5, 6 e 7, sarebbe in grado  di
consentire  al  lavoratore  ricorrente  -  al  quale  e'  gia'  stata
riconosciuta da questo tribunale  la  conversione  del  rapporto  con
sentenza parziale n. 6952 del 6 dicembre 2010 - di beneficiare  della
regolarizzazione della sua posizione contributiva e del  risarcimento
«effettivo» (rectius: integrale) del danno subito, nella misura delle
retribuzioni  maturate,  al  netto  dell'aliunde  pereeptum,  per  il
periodo successivo alla lettera di messa in mora.