Sentenza 
 
nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art.  275,  comma  3,
del codice di procedura  penale,  come  modificato  dall'art.  2  del
decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in  materia  di
sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonche'  in
tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge
23  aprile  2009,  n.  38,  promossi  dal  Giudice  per  le  indagini
preliminari del Tribunale di Milano con ordinanza del 1° ottobre 2010
e dal Tribunale di Lecce con ordinanza del 18 novembre 2010, iscritte
rispettivamente ai nn. 389  del  registro  ordinanze  2010  e  6  del
registro ordinanze 2011 e pubblicate nella Gazzetta  Ufficiale  della
Repubblica n. 51, prima serie speciale, dell'anno 2010  e  n.  3,  1ª
serie speciale, dell'anno 2011. 
    Visti l'atto di  costituzione  di  L.  G.  nonche'  gli  atti  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    Udito nell'udienza pubblica del 19 aprile 2011 e nella camera  di
consiglio del 20 aprile 2011 il Giudice relatore Giuseppe Frigo; 
    Uditi l'avvocato Pantaleo Cannoletta per L. G. e l'avvocato dello
Stato Massimo Bachetti per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.1. - Con ordinanza depositata il 18 novembre 2010, il Tribunale
di Lecce, sezione per il riesame, ha proposto,  in  riferimento  agli
artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo  comma,  della  Costituzione,
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3,  del
codice  di  procedura  penale,  come  modificato  dall'art.   2   del
decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in  materia  di
sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonche'  in
tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge
23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui - nel prevedere che, quando
sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto  di  cui
all'art. 575 del codice penale (omicidio volontario), e' applicata la
custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai
quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non  fa  salva,
altresi', l'ipotesi in cui siano  acquisiti  elementi  specifici,  in
relazione al  caso  concreto,  dai  quali  risulti  che  le  esigenze
cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. 
    Il  giudice  a  quo  e'  investito  dell'appello,  proposto   dal
difensore di una persona imputata di omicidio volontario in concorso,
avverso l'ordinanza di rigetto  dell'istanza  di  sostituzione  della
custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari, emessa  il
20 agosto 2010 dalla Corte di assise di appello di Lecce. 
    Al riguardo, il rimettente riferisce che, dopo la convalida di un
provvedimento di fermo, all'interessata era stata applicata la misura
della custodia cautelare in carcere con ordinanza del Giudice per  le
indagini preliminari del 21 luglio 2008. A  seguito  di  impugnazione
del  difensore,  il  Tribunale  rimettente,  con  ordinanza  del   19
settembre 2008 -  non  impugnata  dal  pubblico  ministero  -  aveva,
peraltro, disposto la  sostituzione  della  misura  con  gli  arresti
domiciliari. 
    Entrato in vigore l'art. 2 del decreto-legge n. 11 del  2009,  il
pubblico ministero aveva  chiesto  e  ottenuto  il  ripristino  della
misura carceraria, alla luce  della  nuova  disciplina  recata  dalla
novella. Il difensore aveva quindi presentato una  nuova  istanza  di
sostituzione alla Corte  di  assise  di  appello  di  Lecce  (a  cio'
competente, essendo stata l'imputata condannata, nelle more, da detta
Corte alla pena di sedici anni e due  mesi  di  reclusione):  istanza
motivata tanto con l'asserita incompatibilita'  delle  condizioni  di
salute dell'imputata  con  la  custodia  carceraria,  quanto  con  la
dedotta illegittimita' costituzionale del nuovo testo dell'art.  275,
comma 3, cod. proc. pen. L'ordinanza di rigetto di tale  istanza  era
stata, infine, impugnata con l'appello sul quale il giudice a quo  e'
chiamato a pronunciarsi. 
    Quanto alla rilevanza della questione, il rimettente osserva che,
nel caso di specie, la sussistenza dei gravi indizi  di  colpevolezza
e' fuori discussione, essendo stata  l'imputata  gia'  condannata  in
grado di appello. 
    Per quel che concerne, poi, le esigenze cautelari,  il  Tribunale
aveva gia' accertato, con la citata ordinanza del 19 settembre  2008,
che le esigenze di cui all'art. 274, comma 1, lettera c), cod.  proc.
pen. (connesse al pericolo di commissione  di  delitti  della  stessa
specie di quello per cui si procede) potevano essere soddisfatte  con
la meno gravosa misura degli arresti domiciliari. Cio', in quanto «la
peculiarita' del caso - a carattere reattivo a fronte  di  una  lunga
storia di violenze subite - e la presenza nella vicenda di un uomo di
ben maggiore esperienza [...], con precedenti specifici», induceva  a
riconoscere alla  donna  «un  ruolo  servente»  nel  fatto,  tale  da
delineare una pericolosita' attenuata, tanto piu' che la  stessa  non
risultava «avere mai violato gli ordini dell'autorita'». 
    Rispetto a tale valutazione  -  divenuta  «giudicato  cautelare»,
stante  la  mancata  impugnazione  del  provvedimento  da  parte  del
pubblico ministero  -  non  sarebbe  intervenuto  alcun  elemento  di
novita',  atto  a  far  supporre  un  aggravamento   delle   esigenze
cautelari. L'unico  dato  nuovo  -  di  ordine  normativo  -  sarebbe
costituito dalla preclusione  introdotta  dalla  novella  legislativa
modificativa dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., in forza  della
quale, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per  una  serie
di reati - tra cui quello di omicidio volontario - «e'  applicata  la
custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai
quali risulti che non sussistono esigenze cautelari». 
    La  questione  di   costituzionalita'   risulterebbe,   pertanto,
dirimente ai fini della decisione da assumere nel procedimento a quo:
cio', tenuto conto anche dell'infondatezza del primo  dei  motivi  di
appello, dovendosi escludere - alla  luce  dell'espletata  consulenza
medico-legale - che le condizioni di  salute  dell'interessata  siano
realmente incompatibili con la custodia carceraria. 
    Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza della questione,  il
giudice a quo rileva come questa Corte, con la sentenza  n.  265  del
2010, abbia gia' dichiarato costituzionalmente illegittima  la  norma
censurata, per contrasto con gli artt. 3,  13,  primo  comma,  e  27,
secondo comma, Cost., nella parte in cui - nel prevedere che,  quando
sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti  di  cui
agli artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater cod.  pen.,  e'
applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti
elementi dai quali risulti che non sussistono  esigenze  cautelari  -
non fa salva, altresi', l'ipotesi in  cui  siano  acquisiti  elementi
specifici, in relazione al caso concreto, dai quali  risulti  che  le
esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. 
    Ad avviso del giudice a quo, le medesime considerazioni  poste  a
base di tale pronuncia - considerazioni che il  rimettente  riproduce
integralmente nell'ordinanza di  rimessione  -  varrebbero  anche  in
rapporto al delitto di omicidio. In particolare, allo stesso modo dei
delitti a sfondo sessuale oggetto della sentenza  n.  265  del  2010,
neppure il reato di omicidio potrebbe  essere  assimilato,  sotto  il
profilo che interessa, ai delitti di mafia,  relativamente  ai  quali
tanto questa Corte (con l'ordinanza n. 450 del  1995)  che  la  Corte
europea dei diritti dell'uomo  (con  la  sentenza  6  novembre  2003,
Pantano contro Italia) hanno ritenuto giustificabile  la  presunzione
assoluta di adeguatezza della sola  custodia  cautelare  in  carcere,
sancita dalla norma denunciata. I diversi fatti concreti,  riferibili
al paradigma punitivo di cui all'art. 575 cod. pen.,  risulterebbero,
infatti, anch'essi marcatamente eterogenei sul piano del disvalore  -
come  attesterebbero  i  casi  dell'omicidio  determinato   da   dolo
d'impeto, o commesso in stato d'ira determinato da un fatto  ingiusto
altrui, ovvero per motivi di particolare valore morale o sociale - e,
soprattutto, potrebbero far emergere esigenze cautelari  suscettibili
di essere  soddisfatte  con  misure  diverse  e  meno  gravose  della
custodia carceraria. 
    Tali circostanze farebbero si' che la  presunzione  censurata  si
ponga in contrasto sia  con  l'art.  3  Cost.,  per  l'ingiustificata
parificazione dei procedimenti relativi al  delitto  in  questione  a
quelli concernenti i delitti  di  mafia,  nonche'  per  l'irrazionale
assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi
concrete riconducibili al relativo paradigma punitivo; sia con l'art.
13, primo comma,  Cost.,  quale  referente  fondamentale  del  regime
ordinario delle misure cautelari privative della liberta' personale -
ispirato al principio del «minimo sacrificio  necessario»  -  cui  la
disposizione denunciata deroga; sia, infine, con l'art.  27,  secondo
comma, Cost., in quanto attribuirebbe  alla  coercizione  processuale
tratti funzionali tipici della pena, in contrasto con la  presunzione
di non colpevolezza dell'imputato prima della condanna definitiva. 
    1.2. - E' intervenuto nel giudizio di legittimita' costituzionale
il Presidente del Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione  sia
dichiarata non fondata. 
    La difesa dello Stato ricorda come questa Corte abbia affermato -
in particolare,  con  l'ordinanza  n.  450  del  1995  -  che  mentre
l'apprezzamento delle esigenze  cautelari  deve  essere  lasciato  al
giudice, la scelta della misura  puo'  bene  essere  operata  in  via
generale dal legislatore,  nei  limiti  della  ragionevolezza  e  del
corretto bilanciamento dei beni coinvolti. 
    L'assoluta gravita' del delitto di omicidio  e  la  pericolosita'
sociale della persona sottoposta alla misura  -  persona  che,  nella
specie, e' stata condannata tanto in primo grado  che  in  appello  -
accomunerebbero, d'altro canto, il delitto in questione a  quelli  di
tipo mafioso, rispetto ai quali la Corte, con la medesima  ordinanza,
ha ritenuto ragionevole l'imposizione della misura carceraria. 
    1.3. - Si e' costituita, altresi', L. G., imputata nel giudizio a
quo, chiedendo che la questione venga accolta. 
    La difesa della parte privata rileva come  la  norma  oggetto  di
scrutinio debba ritenersi del tutto irragionevole nella parte in  cui
equipara il reato di omicidio volontario,  non  soltanto  ai  delitti
previsti dall'art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod.  proc.  pen.,  ma
anche a quelli di cui  agli  artt.  600-bis,  primo  comma,  600-ter,
600-quinquies, 609-bis, 609-quater e 609-octies cod. pen.  Nonostante
la sua  gravita',  l'omicidio  puo'  essere,  infatti,  commesso  con
diversi gradi di dolo,  compreso  il  dolo  eventuale;  puo'  trovare
giustificazioni   «condivise»   dalla   collettivita'   (motivi    di
particolare valore morale e sociale); puo'  essere  realizzato  sotto
l'impulso di uno stato d'ira determinato  da  fatto  ingiusto  altrui
(artt. 62, numeri 2 e 3, cod. pen.):  evenienze  tutte  difficilmente
configurabili, per contro, tanto in rapporto ai delitti di mafia o di
criminalita' organizzata,  quanto  in  relazione  a  reati  a  sfondo
sessuale,  quali  l'induzione   alla   prostituzione   minorile,   la
pornografia  minorile  o  le   iniziative   turistiche   volte   allo
sfruttamento della prostituzione minorile. 
    Di cio' sarebbe puntuale riprova il caso oggetto del  giudizio  a
quo,  che,  al  momento  dell'entrata  in  vigore  dell'art.  2   del
decreto-legge  n.  11  del  2009,  vedeva  l'imputata  agli   arresti
domiciliari  per  effetto  di  provvedimento  emesso   in   sede   di
impugnazione cautelare e non censurato  dal  pubblico  ministero,  in
quanto coinvolta in una vicenda «tanto grave quanto triste,  maturata
in un contesto sociale,  culturale  ed  affettivo  molto  degradato».
L'imputata  si  sarebbe,  infatti,  legata  sentimentalmente   a   un
pericoloso e violento pregiudicato (la  vittima  dell'omicidio),  che
per anni l'avrebbe costretta a prostituirsi, lucrando sui proventi di
tale attivita'.  Avendo  quindi  conosciuto  il  coimputato,  avrebbe
cercato invano di «emanciparsi» dal precedente  compagno,  il  quale,
anziche' rassegnarsi alla nuova  relazione,  avrebbe  compiuto  gravi
atti di intimidazione, diretta e indiretta, contro  l'imputata  e  il
rivale. 
    In tale prospettiva, le medesime ragioni  che  hanno  indotto  la
Corte a dichiarare costituzionalmente illegittimo l'art.  275,  comma
3, cod. proc. pen. con riferimento  ai  delitti  di  cui  agli  artt.
600-bis,   primo   comma,   609-bis   e    609-quater    cod.    pen.
giustificherebbero, e a piu' forte ragione, analoga  declaratoria  di
illegittimita' costituzionale in rapporto all'omicidio. 
    1.4.  -  L'Avvocatura   dello   Stato   ha   depositato   memoria
illustrativa, con  la  quale  ha  eccepito  l'inammissibilita'  della
questione per difetto di motivazione sulla rilevanza,  assumendo  che
il  giudice  a  quo  avrebbe  omesso  di   verificare   la   concreta
sussistenza, nel caso di specie, delle  esigenze  cautelari,  la  cui
presenza  comunque  condiziona,  ai  sensi  della  norma  denunciata,
l'applicazione della misura carceraria nei  confronti  della  persona
raggiunta da gravi indizi di colpevolezza per il reato di omicidio. 
    Nel merito, la difesa dello Stato ribadisce l'insussistenza della
denunciata   violazione   dei   principi   di   eguaglianza   e    di
ragionevolezza, tenuto conto della  gravita'  del  reato  di  cui  si
discute, lesivo del supremo bene della vita. 
    Parimenti infondata sarebbe la censura di violazione dell'art. 13
Cost., giacche' la norma denunciata  rispetta  tanto  la  riserva  di
legge,  quanto  la  riserva  di  giurisdizione  in   esso   previste.
Inconferente risulterebbe, infine, il riferimento alla presunzione di
non colpevolezza (art. 27,  secondo  comma,  Cost.),  trattandosi  di
parametro estraneo - in base alle  indicazioni  della  giurisprudenza
costituzionale - all'assetto delle misure cautelari restrittive della
liberta' personale, che operano su un piano distinto da quello  della
condanna e della pena. 
    2.1. -  Identica  questione  di  legittimita'  costituzionale  e'
sollevata dal Giudice per le indagini preliminari  del  Tribunale  di
Milano, con ordinanza del 1° ottobre 2010. 
    Il giudice a quo  e'  chiamato  a  pronunciarsi  sull'istanza  di
sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con gli
arresti domiciliari, presentata il 28 settembre  2010  dal  difensore
dell'imputato, condannato in primo grado a dieci anni  di  reclusione
per  concorso  in  omicidio  volontario:  istanza  motivata  con   la
sensibile attenuazione delle esigenze  cautelari,  in  considerazione
della decisiva collaborazione  prestata  dall'imputato  all'autorita'
inquirente e della sua «sicura resipiscenza». 
    Ad avviso del rimettente - conformemente al parere  espresso  dal
pubblico ministero  -  le  esigenze  cautelari  dovrebbero  ritenersi
effettivamente attenuate, anche se non completamente  cessate,  cosi'
da poter essere soddisfatte con la misura meno costrittiva  richiesta
dalla difesa. All'accoglimento dell'istanza osterebbe,  tuttavia,  la
presunzione iuris et de  iure  di  adeguatezza  della  sola  custodia
cautelare in carcere sancita dal vigente testo dell'art.  275,  comma
3, cod. proc. pen. Andrebbe, infatti,  esclusa  la  praticabilita'  -
prospettata  dalla  difesa  -  di  un'estensione  in  via   analogica
all'omicidio volontario della  norma  risultante  dalla  sentenza  di
questa Corte n. 265 del 2010, riferita esclusivamente ai  delitti  di
cui agli artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater cod.  pen.:
donde la rilevanza della questione. 
    Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a  quo  svolge
argomentazioni del tutto analoghe a quelle del Tribunale di Lecce. In
particolare, assume che neppure in rapporto  all'omicidio  volontario
sarebbe ravvisabile  la  ratio  ritenuta  idonea  a  giustificare  la
censurata presunzione assoluta con riguardo ai delitti di mafia.  Per
quanto gravi, i fatti che integrano il delitto punito  dall'art.  575
cod. pen. presenterebbero  disvalori  ampiamente  differenziabili  e,
soprattutto, potrebbero manifestare esigenze  cautelari  affrontabili
con misure  diverse  dalla  custodia  carceraria.  Ben  diversa  puo'
essere, infatti, l'intensita'  del  dolo  dell'omicida  -  da  quello
eventuale  o  alternativo  a  quello   premeditato   -   cosi'   come
marcatamente  dissimili  possono   risultare   le   stesse   condotte
costitutive del reato, trattandosi di  fattispecie  a  forma  libera;
laddove, al contrario, gia' sotto il profilo strutturale  il  delitto
di associazione a delinquere di stampo mafioso e' a dolo specifico  e
a condotta vincolata. 
    2.2. - E' intervenuto il Presidente del Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. 
    Richiamando l'ordinanza n. 450  del  1995  di  questa  Corte,  la
difesa dello  Stato  assume  che,  nel  caso  di  specie,  la  scelta
legislativa di imporre, in presenza di esigenze cautelari, la  misura
carceraria  non  puo'  essere  considerata  irragionevole,   ove   si
consideri che il delitto di omicidio offende il bene fondamentale, di
rilevanza costituzionale, della vita. 
    La norma censurata non lederebbe neppure l'art. 13, primo  comma,
Cost., essendo stato rispettato il principio della riserva  di  legge
in materia di provvedimenti  restrittivi  della  liberta'  personale.
Ne', da ultimo, si  comprenderebbe  come  detta  norma  possa  essere
ritenuta  incompatibile  con  la  presunzione  di  non   colpevolezza
dell'imputato, sancita dall'art. 27 Cost. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. -  Il  Tribunale  di  Lecce  e  il  Giudice  per  le  indagini
preliminari del  Tribunale  di  Milano  dubitano  della  legittimita'
costituzionale dell'art.  275,  comma  3,  del  codice  di  procedura
penale, come modificato dall'art. 2  del  decreto-legge  23  febbraio
2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di  sicurezza  pubblica  e  di
contrasto  alla  violenza  sessuale,  nonche'   in   tema   di   atti
persecutori), convertito, con modificazioni, dalla  legge  23  aprile
2009, n.  38,  nella  parte  in  cui  -  nel  prevedere  che,  quando
sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto  di  cui
all'art. 575 del codice penale (omicidio volontario), e' applicata la
custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai
quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non  fa  salva,
altresi', l'ipotesi in cui siano  acquisiti  elementi  specifici,  in
relazione al  caso  concreto,  dai  quali  risulti  che  le  esigenze
cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. 
    I rimettenti reputano estensibili  ai  procedimenti  relativi  al
delitto di omicidio le ragioni che hanno indotto questa Corte, con la
sentenza n. 265 del 2010, a dichiarare costituzionalmente illegittima
la norma censurata, nei termini dianzi indicati,  con  riferimento  a
taluni delitti a sfondo sessuale (artt. 600-bis, primo comma, 609-bis
e 609-quater cod. pen.). 
    Al pari di tali delitti, neanche il reato  di  omicidio  potrebbe
essere infatti assimilato, sotto il profilo in esame, ai  delitti  di
mafia, relativamente ai quali tanto questa Corte che la Corte europea
dei diritti dell'uomo hanno ritenuto  giustificabile  la  presunzione
assoluta di adeguatezza della sola  custodia  cautelare  in  carcere,
sancita  dalla  norma  censurata.  Per  quanto  gravi,  i  fatti  che
integrano il delitto punito dall'art. 575 cod.  pen.  presenterebbero
disvalori ampiamente differenziabili, sia sul  piano  della  condotta
(trattandosi di reato a forma libera)  che  su  quello  dell'elemento
psicologico - come attesterebbero i casi dell'omicidio  commesso  con
dolo eventuale o d'impeto, o per  reazione  all'altrui  provocazione,
ovvero, ancora, per motivi di particolare valore morale o  sociale  -
e,  soprattutto,  potrebbero   bene   proporre   esigenze   cautelari
affrontabili con misure diverse dalla custodia carceraria. 
    La presunzione censurata verrebbe, di  conseguenza,  a  porsi  in
contrasto - conformemente a quando deciso dalla  citata  sentenza  n.
265 del 2010 - con i principi  di  eguaglianza  e  di  ragionevolezza
(art. 3 Cost.) e di inviolabilita' della liberta' personale (art. 13,
primo comma, Cost.), nonche' con la presunzione di  non  colpevolezza
(art. 27, secondo comma, Cost.). 
    2. - Le ordinanze di rimessione propongono  questioni  identiche,
sicche' i relativi giudizi vanno  riuniti  per  essere  definiti  con
unica decisione. 
    3. - L'eccezione di inammissibilita' per difetto  di  motivazione
sulla rilevanza, formulata dall'Avvocatura dello  Stato  in  rapporto
alla questione proposta dal Tribunale di Lecce, non e' fondata. 
    A prescindere da ogni altra considerazione -  connessa  al  fatto
che, in base alla norma denunciata,  la  sussistenza  delle  esigenze
cautelari e' oggetto di presunzione relativa, e  che,  con  l'appello
cautelare di cui il rimettente e' investito  (soggetto  all'ordinario
principio devolutivo: art. 597 cod. proc.  pen.),  il  difensore  non
risulta aver mosso contestazioni sul punto - e' dirimente il  rilievo
che, contrariamente a quanto assume la difesa dello Stato, il giudice
a quo ha comunque motivato in ordine alla configurabilita', nel  caso
di specie, del  periculum  libertatis.  Il  rimettente  ha,  infatti,
richiamato la propria ordinanza del  19  settembre  2008  (emessa  in
accoglimento di precedente impugnazione della difesa), con  la  quale
aveva ritenuto che le esigenze cautelari - pure ravvisabili - di  cui
all'art. 274, comma 1, lettera c), cod. proc.  pen.  potevano  essere
soddisfatte  con  gli  arresti  domiciliari,  precisando   che   tale
valutazione resta tuttora  valida,  non  essendo  sopravvenuti  nuovi
elementi di ordine fattuale. 
    4. - Nel merito, la questione e' fondata. 
    5. - Con la sentenza n.  265  del  2010,  questa  Corte  ha  gia'
dichiarato costituzionalmente illegittima la norma  censurata,  nella
parte in cui sancisce una presunzione assoluta  -  anziche'  soltanto
relativa - di adeguatezza della sola custodia in carcere a soddisfare
le esigenze cautelari nei confronti della persona raggiunta da  gravi
indizi di colpevolezza per  taluni  delitti  a  sfondo  sessuale:  in
particolare,  per  i  reati  di  induzione   o   sfruttamento   della
prostituzione  minorile,  violenza  sessuale  e  atti  sessuali   con
minorenne (artt. 600-bis, primo  comma,  609-bis  e  609-quater  cod.
pen.). 
    5.1. - Nell'occasione, la Corte ha  rilevato  come  i  limiti  di
legittimita'  delle  misure  cautelari  -   nell'ambito   della   cui
disciplina  si  colloca  la  disposizione  scrutinata   -   risultino
espressi, a fronte del principio  di  inviolabilita'  della  liberta'
personale (art. 13, primo comma, Cost.) - oltre che dalle riserve  di
legge e di giurisdizione (art. 13, secondo e quarto comma,  Cost.)  -
anche e soprattutto dalla presunzione di non colpevolezza  (art.  27,
secondo comma, Cost.), a fronte  della  quale  le  restrizioni  della
liberta'  personale  dell'indagato  o  dell'imputato  nel  corso  del
procedimento debbono assumere connotazioni nitidamente  differenziate
da quelle della pena, irrogabile solo dopo l'accertamento  definitivo
della responsabilita'. 
    Ulteriore indefettibile corollario dei principi costituzionali di
riferimento e' che la disciplina della materia debba essere  ispirata
al criterio del «minore sacrificio necessario» (sentenza n.  295  del
2005): la  compressione  della  liberta'  personale  dell'indagato  o
dell'imputato  va   contenuta,   cioe',   entro   i   limiti   minimi
indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari  riconoscibili  nel
caso  concreto.  Cio'  impegna  il  legislatore,  da  una  parte,   a
strutturare il sistema cautelare secondo il modello della "pluralita'
graduata", predisponendo una gamma alternativa di  misure,  connotate
da  differenti  gradi  di   incidenza   sulla   liberta'   personale;
dall'altra, a prefigurare meccanismi "individualizzanti" di selezione
del  trattamento  cautelare,  coerenti  e  adeguati   alle   esigenze
configurabili nelle singole fattispecie concrete. 
    Questo  insieme  di  indicazioni  costituzionali  trova  puntuale
espressione nella disciplina generale dettata dal codice di procedura
penale. A fronte della tipizzazione di un "ventaglio" di  misure,  di
gravita' crescente (artt.  281-285),  il  criterio  di  «adeguatezza»
(art. 275, comma 1) - dando corpo al principio del «minore sacrificio
necessario» - impone, difatti, al giudice di scegliere la misura meno
afflittiva tra quelle astrattamente idonee  a  tutelare  le  esigenze
cautelari ravvisabili nel caso concreto. 
    Da tali coordinate si discosta vistosamente la disciplina dettata
dal secondo e dal terzo periodo del comma 3 dell'art. 275 cod.  proc.
pen. - inserita tramite una serie di  interventi  novellistici  -  la
quale stabilisce, rispetto ai soggetti raggiunti da gravi  indizi  di
colpevolezza per taluni delitti, una duplice  presunzione:  relativa,
quanto alla sussistenza delle esigenze  cautelari;  assoluta,  quanto
alla scelta della misura, reputando il legislatore adeguata,  ove  la
presunzione  relativa  non  risulti  vinta,  unicamente  la  custodia
cautelare in carcere, senza alcuna possibile alternativa. 
    Proprio per i marcati profili di scostamento rispetto  al  regime
ordinario, la disciplina derogatoria - riferita, ai suoi  esordi,  ad
un ampio  ed  eterogeneo  parco  di  figure  criminose  -  era  stata
circoscritta, a partire dal 1995 e in  una  prospettiva  di  recupero
delle garanzie, ai soli procedimenti per delitti di  mafia  in  senso
stretto (art. 5, comma 1, della legge 8 agosto 1995, n. 332,  recante
«Modifiche al codice di procedura penale in tema  di  semplificazione
dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto  di  difesa»).  In
tali limiti, essa aveva superato il  vaglio  tanto  di  questa  Corte
(ordinanza n. 450 del 1995), che  della  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo (sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia). Entrambe
le Corti avevano, infatti, in vario modo valorizzato la  specificita'
dei predetti delitti, la cui connotazione strutturale astratta  (come
reati associativi entro un contesto di  criminalita'  organizzata  di
tipo mafioso, o come reati a  questo  comunque  collegati)  valeva  a
rendere «ragionevoli» le presunzioni  in  questione,  e  segnatamente
quella di adeguatezza della sola custodia carceraria: trattandosi, in
sostanza, della misura  piu'  idonea  a  neutralizzare  il  periculum
libertatis connesso al verosimile protrarsi dei contatti tra imputato
ed associazione. 
    Con l'intervento novellistico del 2009 (art. 2, comma 1,  lettere
a e  a-bis,  del  decreto-legge  n.  11  del  2009,  convertito,  con
modificazioni, dalla  legge  n.  38  del  2009),  il  legislatore  ha
compiuto «un "salto di qualita'" a ritroso», riespandendo l'ambito di
applicazione  della   disciplina   eccezionale   a   numerose   altre
fattispecie penali, in larga misura  eterogenee  fra  loro  quanto  a
oggettivita' giuridica (fatta  eccezione  per  i  delitti  "a  sfondo
sessuale"), struttura e trattamento sanzionatorio. 
    5.2. - Cio' premesso, questa  Corte  ha  ribadito,  nella  citata
sentenza n. 265 del 2010, che «le presunzioni assolute, specie quando
limitano un diritto fondamentale della persona, violano il  principio
di eguaglianza, se  sono  arbitrarie  e  irrazionali,  cioe'  se  non
rispondono  a  dati  di  esperienza  generalizzati,  riassunti  nella
formula   dell'id   quod   plerumque   accidit.    In    particolare,
l'irragionevolezza della presunzione  assoluta  si  coglie  tutte  le
volte in cui sia "agevole" formulare  ipotesi  di  accadimenti  reali
contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione  stessa
(sentenza n. 139 del 2010)». 
    Sotto tale profitto, ai  delitti  a  sfondo  sessuale  allora  in
discussione non poteva estendersi la ratio giustificativa del  regime
derogatorio gia' ravvisata in rapporto ai delitti di mafia: ossia che
dalla struttura stessa della fattispecie  e  dalle  sue  connotazioni
criminologiche  -  legate  alla  circostanza  che  l'appartenenza  ad
associazioni di tipo mafioso implica  un'adesione  permanente  ad  un
sodalizio criminoso di  norma  fortemente  radicato  nel  territorio,
caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali  e  dotato
di particolare forza intimidatrice - deriva,  nella  generalita'  dei
casi e secondo una regola di esperienza  sufficientemente  condivisa,
una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe  adeguata  solo
la custodia in carcere (non essendo le misure "minori" sufficienti  a
troncare i rapporti tra  l'indiziato  e  l'ambito  delinquenziale  di
appartenenza, neutralizzandone la pericolosita'). 
    Per quanto odiosi e riprovevoli, i delitti in discorso - oltre  a
presentare disvalori nettamente differenziabili - possono  essere,  e
spesso sono, meramente individuali e tali, per le loro  connotazioni,
da non postulare esigenze cautelari affrontabili solo con la  massima
misura.  Sovente,  inoltre,  essi  si  manifestano   all'interno   di
specifici contesti (ad esempio, quello familiare o  scolastico  o  di
particolari comunita'),  cosi'  che  le  esigenze  cautelari  possono
trovare risposta in misure,  diverse  da  quella  carceraria  e  gia'
previste allo scopo, che comportino l'esclusione coatta dal contesto:
arresti domiciliari in luogo diverso dall'abitazione (art.  284  cod.
proc. pen.), eventualmente accompagnati da particolari  strumenti  di
controllo  (quale  il  cosiddetto  braccialetto   elettronico:   art.
275-bis); obbligo o divieto di dimora o  anche  solo  di  accesso  in
determinati luoghi (art. 283); allontanamento  dalla  casa  familiare
(art. 282-bis). 
    Questa Corte ha formulato, altresi', due ulteriori  precisazioni,
di tutto rilievo anche ai presenti fini. 
    In primo luogo, cioe',  ha  sottolineato  che  la  ragionevolezza
della  soluzione  normativa  scrutinata  non  puo'  essere  rinvenuta
neppure nella gravita' astratta del reato, desunta dalla misura della
pena o dall'elevato rango dell'interesse protetto: parametri, questi,
significativi in sede di giudizio di colpevolezza,  ma  inidonei,  di
per se', a fungere da elementi  preclusivi  ai  fini  della  verifica
della sussistenza  di  esigenze  cautelari  e  del  loro  grado,  che
condiziona l'identificazione delle misure idonee a soddisfarle. 
    In secondo luogo, si e' rilevato che tanto meno la presunzione in
esame potrebbe  rimanere  legittimata  dall'esigenza  di  contrastare
situazioni di allarme sociale, legate all'asserita crescita  numerica
di taluni delitti (convinzione  che  viceversa  traspare  dai  lavori
parlamentari relativi alla novella del 2009, almeno  in  rapporto  ai
reati sessuali). L'eliminazione o la riduzione  dell'allarme  sociale
causato dal reato del quale l'imputato e' accusato non  puo'  essere,
infatti,  annoverata  tra  le  finalita'  della  custodia  cautelare,
costituendo una funzione istituzionale della pena, perche' presuppone
la certezza circa  il  responsabile  del  delitto  che  ha  provocato
l'allarme. 
    5.3. - Alla luce di tali rilievi, questa Corte ha quindi concluso
che la norma impugnata violava, in parte qua, sia l'art. 3 Cost., per
l'ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi  ai  delitti
considerati a quelli concernenti i  delitti  di  mafia,  nonche'  per
l'irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime  cautelare  delle
diverse  ipotesi  concrete  riconducibili   ai   relativi   paradigmi
punitivi;  sia  l'art.  13,  primo  comma,  Cost.,  quale   referente
fondamentale del regime ordinario delle  misure  cautelari  privative
della liberta' personale; sia,  infine,  l'art.  27,  secondo  comma,
Cost., in  quanto  attribuiva  alla  coercizione  processuale  tratti
funzionali tipici della pena. 
    Al fine  di  ricondurre  il  sistema  a  sintonia  con  i  valori
costituzionali, non era peraltro necessario  rimuovere  integralmente
la presunzione de  qua,  ma  solo  il  suo  carattere  assoluto,  che
implicava  una  indiscriminata  e  totale  negazione  di  rilievo  al
principio del "minore sacrificio necessario". La  previsione  di  una
presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria  -
atta a realizzare una  semplificazione  del  procedimento  probatorio
suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno  criminoso  considerato,
ma comunque superabile da elementi di segno contrario -  non  eccede,
per contro, i limiti di compatibilita' costituzionale, rimanendo  per
tale verso  non  censurabile  l'apprezzamento  legislativo  circa  la
ordinaria configurabilita'  di  esigenze  cautelari  nel  grado  piu'
intenso. 
    6. - Conformemente a quanto sostenuto dai giudici rimettenti,  le
considerazioni  dianzi   ricordate   valgono,   con   gli   opportuni
adattamenti, anche in rapporto al delitto di omicidio volontario. 
    Nonostante l'indiscutibile gravita' del fatto - la quale  pesera'
opportunamente nella determinazione della pena  inflitta  all'autore,
quando ne sia riconosciuta in via definitiva la colpevolezza -  anche
nel caso dell'omicidio, la presunzione assoluta di cui si discute non
puo' considerarsi, in effetti, rispondente a un  dato  di  esperienza
generalizzato,  ricollegabile  alla   «struttura   stessa»   e   alle
«connotazioni criminologiche» della figura criminosa. 
    Non si e', difatti, al  cospetto  di  un  reato  che  implichi  o
presupponga necessariamente un vincolo di appartenenza  permanente  a
un   sodalizio   criminoso   con   accentuate   caratteristiche    di
pericolosita'  -  per  radicamento  nel  territorio,  intensita'  dei
collegamenti personali e forza intimidatrice - vincolo  che  solo  la
misura piu' severa risulterebbe, nella generalita' dei casi, in grado
di interrompere. Al contrario, l'omicidio puo' bene essere, e sovente
e', un fatto meramente individuale,  che  trova  la  sua  matrice  in
pulsioni occasionali o passionali. I fattori emotivi che si collocano
alla radice dell'episodio criminoso possono  risultare,  in  effetti,
correlati a speciali contingenze - come,  ad  esempio,  per  i  fatti
commessi in risposta a specifici comportamenti lato sensu provocatori
della vittima - ovvero a tensioni maturate,  in  tempi  piu'  o  meno
lunghi, nell'ambito di particolari contesti, da  quello  familiare  a
quello dei rapporti socio-economici. Evenienze, queste, che -  stando
alla  ricostruzione  operata  dal  giudice  a  quo  -  ricorrerebbero
puntualmente nella vicenda sulla quale e' chiamato a pronunciarsi  il
Tribunale  di  Lecce,  in  cui  il  fatto   delittuoso   oggetto   di
contestazione si connoterebbe come episodio «a carattere  reattivo  a
fronte  di  una  lunga  storia  di  violenze  subite»  dall'imputata,
nell'ambito di una relazione affettiva in dissoluzione. 
    Di conseguenza, in un numero tutt'altro che marginale di casi, le
esigenze cautelari - pur non potendo essere completamente  escluse  -
sarebbero suscettibili di trovare idonea  risposta  anche  in  misure
diverse da quella carceraria, che valgano a neutralizzare il "fattore
scatenante" o ad impedirne la  riproposizione:  e  cosi',  anzitutto,
quanto ai fatti legati a particolari  contesti,  tramite  misure  che
valgano  comunque  ad  operare  una  forzosa  separazione  da  questi
dell'imputato o dell'indagato, nei  termini  gia'  evidenziati  dalla
sentenza n. 265 del 2010. Donde, in conclusione, la  carenza  di  una
adeguata "base statistica" della presunzione assoluta  in  questione,
pure incidente sul valore primario della liberta' personale. 
    Per il resto, non puo'  che  ribadirsi  che  -  contrariamente  a
quanto sostenuto  dall'Avvocatura  dello  Stato  -  ne'  il  primario
rilievo dell'interesse protetto dalla fattispecie incriminatrice, ne'
esigenze di contenimento di eventuali situazioni di  allarme  sociale
possono  per  altro  verso  valere,  di  per  se',   come   base   di
legittimazione della predetta presunzione assoluta. Di  qui,  dunque,
l'esigenza  costituzionale  di  trasformarla  in   presunzione   solo
relativa. 
    7. - L'art. 275, comma 3, secondo e  terzo  periodo,  cod.  proc.
pen. va dichiarato, pertanto,  costituzionalmente  illegittimo  nella
parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi  indizi  di
colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 575 cod.  pen.,  e'
applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti
elementi dai quali risulti che non sussistono  esigenze  cautelari  -
non fa salva, altresi', l'ipotesi in  cui  siano  acquisiti  elementi
specifici, in relazione al caso concreto, dai quali  risulti  che  le
esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.