IL TRIBUNALE 
 
    Sentite le parti in sede di conclusioni 442 cpp; 
    Visti gli atti del procedimento penale iscritto al  n.  3257/2010
pendente  a  carico  dell'imputato  Tayari  Marwen,  nato  a   Tunisi
(Tunisia) il giorno 21 novembre 1989, elettivamente domiciliato  come
da verbale di udienza del  21  febbraio  2011  in  Ponte  San  Pietro
(Bergamo) via Garibaldi n. 10 e  difeso  di  fiducia  dall'avv.  Luca
Bosisio del foro di Bergamo con nomina agli  atti  n.  22107  del  13
dicembre 2010; 
    Imputato del reato previsto e punito  dall'art.  14  comma  5-ter
d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286 perche'  senza  giustificato  motivo  si
tratteneva nel territorio dello Stato violando l'ordine  impartitogli
dal Questore di Milano in data  1°  settembre  2010  di  lasciare  il
territorio dello Stato entro il termine di cinque  giorni;  accertato
in Mozzo il 17 novembre 2010. 
 
                              Premesso 
 
    Dal verbale del 17 novembre 2010, e  dagli  allegati  atti  delle
indagini preliminari, risulta che l'imputato Tayari  Marwen  nato  in
Tunisia il 21 novembre 1989 veniva arrestato  dai  Carabinieri  della
Stazione di Curno (Bergamo) il giorno 17 novembre 2010 alle ore 19,20
in ottemperanza all'art. 14 comma 5-quinquies d.lgs. 25  luglio  1998
n. 286 e in relazione al reato previsto dall'art. 14  comma  5-quater
d.lgs. n. 286/98. 
    Si legge sul verbale di arresto: «per le violazioni di  cui  agli
artt. 14 d.lgs. 286/98  comma  5-quater  e  successive  modifiche  ed
integrazione, di cui alla legge 12 novembre 2004 n. 271». 
    I Carabinieri della  Stazione  di  Curno  (Bergamo)  presentavano
l'imputato  Tayari  Marwen  davanti  al  giudice   del   dibattimento
all'udienza  del  18  novembre  2010  sulla   base   dell'imputazione
formulata dal pubblico ministero ex art. 558 I comma cpp nei seguenti
termini: 
        «imputato del reato previsto  e  punito  dall'art.  14  comma
5-ter d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286 perche' senza giustificato  motivo
si  tratteneva  nel  territorio   dello   Stato   violando   l'ordine
impartitogli dal Questore di Milano in  data  1°  settembre  2010  di
lasciare il territorio dello Stato entro il termine di cinque giorni;
accertato in Mozzo il 17 novembre 2010». 
    All'udienza del  giorno  18  novembre  2010  il  Giudice,  previo
interrogatorio dell'imputato (che ammetteva di aver ricevuto l'ordine
di  espulsione  del  1°  settembre  2010),  convalidava  l'arresto  e
applicava  al  predetto,  a  seguito  della  richiesta  del  pubblico
ministero, la misura cautelare del divieto di dimora nella  Provincia
di Bergamo e in Bergamo ex art. 283 cpp. 
    Aperto il giudizio direttissimo ex  art.  449  I  comma  cpp,  la
difesa e l'imputato formulavano unitamente istanza di ammissione  del
giudizio abbreviato ex artt. 438, 451 V comma e 452 II comma cpp. 
    Il Giudice ammetteva  il  rito  ex  art.  452  II  comma  cpp  e,
esercitando i poteri riconosciuti dall'art. 441 V comma cpp, ritenuto
di non poter decidere alle stato degli atti, ordinava  l'acquisizione
di  tutti  i  provvedimenti  di  espulsione   emessi   dall'autorita'
amministrativa nei confronti dell'imputato Tayari Marwen e  disponeva
il rinvio della discussione all'udienza del 21 febbraio 2011. 
    A seguito della relazione della Stazione dei Carabinieri di Ponte
San Pietro (Bergamo) prot. 84/475 del 19 novembre 2010, che segnalava
la presenza dell'imputato Tayari Marwen in Ponte San Pietro (Bergamo)
il giorno 19 novembre 2010, il Giudice aggravava la misura  cautelare
e disponeva, con ordinanza del  27  novembre  2010,  la  custodia  in
carcere nei confronti dell'imputato predetto. 
    L'imputato Tayari Marwen veniva arrestato il giorno  28  novembre
2010 alle ore 17,10. 
    Con note protocollo 094557/Cat.2/IMM/MS del  4  dicembre  2010  e
protocollo 094557/Cat2/IMM/2010 MS del 6 dicembre 2010,  la  Questura
di Bergamo precisava lo status di immigrato clandestino dell'imputato
Tayari Marwen e indicava i provvedimenti di espulsione che lo avevano
attinto nel tempo. 
    A seguito della  richiesta  di  revoca  della  misura  custodiale
avanzata dal difensore di fiducia dell'imputato Tayari Marwen in data
14 gennaio 2011, il Giudice,  con  ordinanza  del  18  gennaio  2011,
ordinava la liberazione dell'imputato,  se  non  detenuto  per  altra
causa. 
    All'udienza odierna del 21 febbraio 2011, il giudice,  dopo  aver
indicato ex art. 511 V comma cpp  come  utilizzabili  ai  fini  della
decisione gli atti presenti nel fascicolo del dibattimento,  invitava
le parti a formulare ed illustrare le rispettive conclusioni. 
    Il pubblico ministero domandava la  condanna  dell'imputato  alla
pena di 8 mesi di reclusione, previa  concessione  delle  circostanze
attenuanti generiche. 
    Il difensore domandava l'assoluzione ex art. 530 cpp  perche'  il
fatto sussiste o perche' il fatto non costituisce reato, in subordine
domandava assoluzione perche' la legge  non  e'  piu'  prevista  come
reato a seguito dell'obbligatorieta' per gli stati  membri  CE  della
direttiva 2008/115/CE e in estremo subordine il  minimo  della  pena,
previa concessione delle attenuanti generiche. 
 
                              Rilevato 
 
    I fatti risultanti dagli  atti  che  si  andranno  ad  analizzare
immediatamente  di  seguito  consentono  di  qualificare   il   fatto
contestato nella fattispecie penale prevista dall'art. 14 comma 5-ter
d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286 secondo la seguente ricostruzione, cosi'
come contestata dal pubblico ministero: 
        «imputato del reato previsto  e  punito  dall'art.  14  comma
5-ter d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286 perche' senza giustificato  motivo
si  tratteneva  nel  territorio   dello   Stato   violando   l'ordine
impartitogli dal Questore di Milano in  data  1°  settembre  2010  di
lasciare il territorio dello Stato entro il termine di cinque giorni;
accertato in Mozzo il 17 novembre 2010». 
    Dal decreto del Prefetto di Milano del 1° settembre 2010  risulta
che l'imputato Tayari Marwen e'  stato  attinto  dall'espulsione  per
essere entrato nel territorio dello  Stato  nel  2007  attraverso  la
frontiera di Linate sottraendosi ai controlli di frontiera ex art. 13
II comma lettera a) d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286. 
    Dall'ordine del Questore di Milano del 1° settembre 2010  risulta
che il citato organo  amministrativo  non  ha  potuto  procedere  ne'
all'espulsione immediata mediante accompagnamento alla  frontiera  ex
art. 13 comma 4 d.lgs. n.  286/98  per  mancanza  di  identificazione
dell'imputato e per mancanza di' un valido documento  per  l'espatrio
ne'  al  trattenimento  presso  un  centro  di   identificazione   ed
espulsione ex art. 14 comma 1 d.lgs. n. 286/98  per  indisponibilita'
di posti. 
    Il Questore ha emesso l'ordine di allontanamento nel  termine  di
cinque giorni ex art. 14 comma 5-bis  d.lgs.  n.  286/98,  a  seguito
della  cui  inottemperanza  l'imputato   Tayari   Marwen   e'   stato
obbligatoriamente  arrestato  ex  art.  14  comma   5-ter   e   comma
5-quinquies d.lgs. n. 286/98. 
    Tutto  cio'  premesso  e  rilevato,  rileva   la   questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 14 comma 5-ter d.lgs. 25 luglio
1998 n. 286, per contrasto con l'art. 117 I comma della Costituzione,
in relazione all'art. 5 I comma lettera f) della Convenzione  Europea
di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali
(ratificata in Italia in forza della legge 4 agosto 1955 n. 848), per
le seguenti ragioni. 
I. L' incompatibilita' in sintesi. 
    La Corte Costituzionale, con la sentenza 2 febbraio 2007  n.  22,
ha affermato che il legislatore, con  l'art.  14  comma  5-ter  primo
periodo d.lgs. 25 luglio  1998  n.  286,  ha  inteso  perseguire  «il
controllo dei flussi migratori e la disciplina dell'ingresso e  della
permanenza degli stranieri nel territorio nazionale». 
    La Corte Costituzionale ha aggiunto nella medesima  sentenza  che
«il reato di indebito trattenimento nel  territorio  nazionale  dello
straniero espulso  riguarda  la  semplice  condotta  di  inosservanza
dell'ordine di allontanamento dato dal questore, con una  fattispecie
che prescinde da una accertata o presunta pericolosita' dei  soggetti
responsabili». 
    In altre parole, la norma che si vuole assoggettare  a  scrutinio
di  legittimita'  costituzionale  prevede   l'applicazione   ad   uno
straniero irregolare di una  sanzione  penale  in  relazione  ad  una
condotta di  mera  inottemperanza  ad  un  ordine  di  allontanamento
adottato nell'ambito di un procedimento amministrativo di espulsione. 
    Come si argomentera' nel paragrafi che seguono, si tratta di  una
scelta legislativa di politica  criminale,  che  si  risolve  in  una
violazione dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli
obblighi internazionali ex art. 117 I comma della Costituzione. 
    Gli  obblighi  internazionali,  infatti,   cosi'   come   dettati
dall'art. 5 I comma lettera f) Convezione europea di salvaguardia dei
diritti dell'uomo, interpretato alla luce della direttiva 2008/115/CE
del  16  dicembre  2008,  consentono  la  privazione  della  liberta'
personale di una persona contro la quale e' in corso un  procedimento
di espulsione esclusivamente al fine di eseguire l'espulsione  e  non
come sanzione penale. 
    Gli artt. 14 comma 5-ter e comma 5-quater d.lgs. 25  luglio  1998
n. 286 introducono, invece, la privazione  della  liberta'  personale
come sanzione penale conseguente all'inottemperanza ad un  ordine  di
allontanamento adottato nel procedimento amministrativo di espulsione
ovvero come una sanzione del tutto avulsa  dal  fine  di  espulsione,
anzi addirittura incompatibile con l'espulsione. 
II.  Sulla  diretta  applicabilita'  nell'ordinamento  interno  della
direttiva 2008/115/CE del Parlamento e del Consiglio d'Europa del  16
dicembre 2008 «recante norme  e  procedure  comuni  applicabili  agli
Stati membri  al  rimpatrio  di  cittadini  di  paesi  terzi  il  cui
soggiorno e' irregolare». 
    Il principio  del  primato  del  diritto  comunitario  su  quello
interno costituisce ormai  un  solido  approdo  della  giurisprudenza
costituzionale e comunitaria. 
    D'altra parte, il dettato del primo  comma  dell'art.  117  della
Costituzione e' assai chiaro nel disporre una gerarchia tra le  fonti
di diritto comunitario  e  di  diritto  interno,  statuendo  che  «la
potesta' legislativa e' esercitata dallo Stato e  dalle  Regioni  nel
rispetto  della   Costituzione,   nonche'   dei   vincoli   derivanti
dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». 
    Per illustrare il rapporto tra gli atti normativi comunitari e la
legge  interna  sara'  sufficiente  richiamare  alcuni  passi   delle
sentenze  della  Corte  Costituzionale,  che  hanno   affrontato   la
questione de quo. 
    Nel corpo della motivazione della sentenza n.  284  del  2007  si
legge: «ora, nel sistema  dei  rapporti  tra  ordinamento  interno  e
ordinamento comunitario, quale risulta dalla giurisprudenza di questa
Corte, consolidatasi,  in  forza  dell'art.  11  della  Costituzione,
soprattutto a partire dalla  sentenza  n.  170  del  1984,  le  norme
comunitarie provviste di  efficacia  diretta  precludono  al  giudice
comune  l'applicazione  di  contrastanti  disposizioni  del   diritto
interno, quando egli non abbia dubbi - come si  e'  verificato  nella
specie - in ordine all'esistenza del conflitto. La  non  applicazione
deve  essere  evitata  solo  quando  venga  in  rilievo  il   limite,
sindacabile unicamente da questa Corte,  del  rispetto  dei  principi
fondamentali   dell'ordinamento   costituzionale   e   dei    diritti
inalienabili della persona (da ultimo, ordinanza n. 454 del 2006)». 
    Nel corpo della motivazione della sentenza n.  348  del  2007  si
legge: «questa Corte ha chiarito come le norme  comunitarie  "debbano
avere piena efficacia obbligatoria e diretta  applicazione  in  tutti
gli Stati membri,  senza  la  necessita'  di  leggi  di  ricezione  e
adattamento, come atti aventi forza e valore di legge in  ogni  Paese
della Comunita', si' da entrare ovunque contemporaneamente in  vigore
e conseguire applicazione eguale ed uniforme nei confronti di tutti i
destinatari" (sentenze n. 183  del  1973  e  n.  170  del  1984).  Il
fondamento  costituzionale  di  tale  efficacia  diretta   e'   stato
individuato nell'art. 11  Cost.,  nella  parte  in  cui  consente  le
limitazioni della sovranita' nazionale necessarie  per  promuovere  e
favorire le organizzazioni internazionali rivolte  ad  assicurare  la
pace e la giustizia fra le Nazioni. 
    Il riferito indirizzo giurisprudenziale  non  riguarda  le  norme
CEDU, giacche' questa Corte aveva escluso, gia' prima di  sancire  la
diretta  applicabilita'  delle  norme  comunitarie   nell'ordinamento
interno, che potesse venire  in  considerazione,  a  proposito  delle
prime, l'art. 11 Cost. "non essendo  individuabile,  con  riferimento
alle specifiche norme pattizie in  esame,  alcuna  limitazione  della
sovranita' nazionale" (sentenza n. 188 del 1980). La distinzione  tra
le norme CEDU  e  le  norme  comunitarie  deve  essere  ribadita  nel
presente  procedimento  nei   termini   stabiliti   dalla   pregressa
giurisprudenza  di  questa  Corte,  nel  senso  che  le  prime,   pur
rivestendo grande rilevanza,  in  quanto  tutelano  e  valorizzano  i
diritti e le liberta' fondamentali delle  persone,  sono  pur  sempre
norme  internazionali  pattizie,  che  vincolano  lo  Stato,  ma  non
producono effetti diretti nell'ordinamento interno, tali da affermare
la competenza  dei  giudici  nazionali  a  darvi  applicazione  nelle
controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le
norme interne in eventuale contrasto. L'art. 117, primo comma, Cost.,
nel testo introdotto nel 2001 con la riforma del titolo V della parte
seconda della Costituzione, ha confermato il  precitato  orientamento
giurisprudenziale di questa Corte. La disposizione costituzionale ora
richiamata  distingue  infatti,  in  modo  significativo,  i  vincoli
derivanti dall'"ordinamento comunitario" da quelli riconducibili agli
"obblighi internazionali". 
    Si tratta di una differenza non soltanto terminologica, ma  anche
sostanziale. Con  l'adesione  ai  Trattati  comunitari,  l'Italia  e'
entrata a far  parte  di  un  "ordinamento"  piu'  ampio,  di  natura
sopranazionale,  cedendo  parte  della  sua  sovranita',   anche   in
riferimento al potere legislativo, nelle materie oggetto dei Trattati
medesimi, con il solo limite dell'intangibilita' dei principi  e  dei
diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione». 
    Fatta questa  sommaria  premessa  occorre  evidenziare  corna  la
direttiva 2008/115/CE del Parlamento e del Consiglio d'Europa del  16
dicembre 2008 abbia efficacia immediatamente  esecutiva  nel  diritto
interno, nonostante che l'atto normativo abbia assunto la forma della
direttiva ex art. 249 del Trattato CE. 
    Il contenuto della  direttiva  e'  infatti  dettagliato,  recando
l'indicazione  precisa  delle  norme  interne  che  gli  Stati   sono
(rectius: erano) tenuti ad adottare entro il 24 dicembre  2010  (cfr.
art. 20 della direttiva). 
    Anche in questo caso sara'  sufficiente  riportare  il  risultato
dell'elaborazione giurisprudenziale della  Corte  Costituzionale  per
dare come acquisita la  conclusione  della  diretta  efficacia  delle
direttive particolareggiate nel diritto interno. 
    La Corte Costituzionale, con la sentenza  n.  389  del  1989,  ha
affermato: «come questa Corte ha affermato nella sentenza n. 170  del
1984  e  in  altre  successive,  il  riconoscimento  dell'ordinamento
comunitario e di quello  nazionale  come  ordinamenti  reciprocamente
autonomi, ma tra loro coordinati e comunicanti, porta  a  considerare
l'immissione diretta nell'ordinamento interno delle norme comunitarie
immediatamente applicabili come  la  conseguenza  del  riconoscimento
della loro derivazione da una fonte (esterna) a competenza riservata,
la cui giustificazione costituzionale va imputata all'art.  11  della
Costituzione e al conseguente particolare valore giuridico attribuito
al Trattato istitutivo delle Comunita' europee e agli atti  a  questo
equiparati. Cio' significa che, mentre gli atti idonei a porre quelle
norme conservano  il  trattamento  giuridico  o  il  regime  ad  essi
assicurato  dall'ordinamento  comunitario -  nel   senso   che   sono
assoggettati alle regole di produzione normativa, di interpretazione,
di  abrogazione,  di  caducazione  e  di  invalidazione  proprie   di
quell'ordinamento -, al contrario le norme da essi  prodotte  operano
direttamente nell'ordinamento interno come norme investite di  "forza
o valore di legge", vale a dire come  norme  che,  nei  limiti  delle
competenze  e  nell'ambito  degli  scopi  propri  degli   organi   di
produzione normativa della Comunita', hanno  un  rango  primario.  Da
cio' deriva, come ha precisato la gia' ricordata sentenza n. 170  del
1984, che,  nel  campo  riservato  alla  loro  competenza,  le  norme
comunitarie direttamente applicabili prevalgono rispetto  alle  norme
nazionali, anche se di rango legislativo,  senza  tuttavia  produrre,
nel caso che queste ultime  siano  incompatibili  con  esse,  effetti
estintivi. Piu' precisamente, l'eventuale conflitto  fra  il  diritto
comunitario  direttamente  applicabile  e  quello  interno,   proprio
perche' suppone un contrasto di quest'ultimo con una  norma  prodotta
da una fonte  esterna  avente  un  suo  proprio  regime  giuridico  e
abilitata a produrre  diritto  nell'ordinamento  nazionale  entro  un
proprio distinto ambito di competenza, non  da  luogo  a  ipotesi  di
abrogazione o di deroga, ne' a forme di caducazione o di annullamento
per invalidita' della norma  interna  incompatibile,  ma  produce  un
effetto di disapplicazione di quest'ultima,  seppure  nei  limiti  di
tempo e nell'ambito materiale entro  cui  le  competenze  comunitarie
sono legittimate a svolgersi. 
    Ribaditi questi principi, si deve concludere, con riferimento  al
caso  di  specie,  che  tutti  i  soggetti  competenti   nel   nostro
ordinamento a dare esecuzione alle leggi (e agli atti aventi forza  o
valore di legge) - tanto se dotati di  poteri  di  dichiarazione  del
diritto, come gli organi giurisdizionali, quanto  se  privi  di  tali
poteri, come gli organi amministrativi - sono giuridicamente tenuti a
disapplicare le norme interne incompatibili con  le  norme  stabilite
dagli artt. 52 e 59 del Trattato C.E.E.  nell'interpretazione  datane
dalla Corte di giustizia europea». 
    Nel  corpo  della  sentenza  n.   28   del   2010   della   Corte
Costituzionale si legge: «piu' in generale,  l'efficacia  diretta  di
una direttiva e' ammessa - secondo la  giurisprudenza  comunitaria  e
italiana - solo se dalla stessa derivi  un  diritto  riconosciuto  al
cittadino, azionabile nei confronti della Stato inadempiente». 
    Orbene, la lettura  del  contenuto  della  direttiva  2008/115/CE
evidenzia il riconoscimento in capo ai cittadini di paesi  terzi,  il
cui soggiorno e'  irregolare,  di  precisi  diritti  nell'ambito  del
procedimento di rimpatrio. 
    In particolare, merita nell'economia del presente  provvedimento,
evidenziare come - tra i  considerando  preliminari  -  la  direttiva
preveda che le legislazioni dei paesi membri contemplino che: 
        a)  il  rimpatrio  volontario  sia  preferito  al   rimpatrio
forzato, con la concessione di un termine per la partenza  volontaria
e con la possibilita' di  una  proroga  in  presenza  di  circostanze
particolari (considerando 10); 
        b) il ricorso al trattenimento sia giustificato soltanto  per
preparare il rimpatrio o effettuare l'allontanamento e qualora  l'uso
di misure meno coercitive risulti insufficiente (considerando 16). 
    Le disposizioni normative introducono dei diritti strutturati  in
termini assai dettagliati  in  capo  ai  cittadini  dei  paesi  terzi
nell'ambito  della  procedura  di  rimpatrio   e   disciplinano   con
precisione il procedimento amministrativo di espulsione. 
    L'art. 7  (partenza  volontaria)  prevede  che  la  decisione  di
rimpatrio fissi per la partenza volontaria  un  termine  congruo  tra
sette e trenta giorni, con possibilita'  di'  proroga,  tenuto  conto
delle circostanze specifiche del caso individuale. 
    Prevede, altresi', che il termine possa  essere  negato  solo  se
sussista il  pericolo  di  fuga,  se  la  domanda  di  soggiorno  sia
infondata o fraudolenta e se l'interessato  costituisca  un  pericolo
per  l'ordine  pubblico,  la  pubblica  sicurezza  o   la   sicurezza
nazionale. 
    L'art. 8 (allontanamento) prevede che le  misure  necessarie  per
eseguire la decisione di rimpatrio siano  adottate  qualora  non  sia
stato concesso il termine di partenza  volontaria  o  lo  stesso  sia
scaduto. 
    L'art. 13 (mezzi di ricorso) prevede che il cittadino  del  paese
terzo possa impugnare la decisione di  rimpatrio  e  che  l'autorita'
decidente   possa   sospendere   temporaneamente   l'esecuzione   del
provvedimento. 
    L'art. 15 (trattenimento) prevede che gli  stati  membri  possano
trattenere il cittadino di un paese terzo sottoposto  alla  procedura
di  rimpatrio  solo  per  preparare  il  rimpatrio   e/o   effettuare
l'allontanamento. 
    La norma prevede poi che il  cittadino  di  un  paese  terzo  sia
immediatamente liberato qualora risulti che non  esista  piu'  alcuna
prospettiva  ragionevole  di  allontanamento  per  motivi  di  ordine
giuridico o per altri motivi. 
    Art. 16 (condizioni di trattenimento)  prevede,  infine,  che  il
trattenimento  sia  effettuato  in  appositi  centri  di   permanenza
temporanea  e,  se  mancanti,  nei  penitenziari  in  situazione   di
separazione rispetto ai detenuti ordinari. 
    Le lettura organica  delle  norme  della  direttiva  consente  di
affermare che il cittadino di un  paese  terzo  puo'  essere  privato
della liberta' personale solo al fine di eseguire l'espulsione e deve
essere rimesso in liberta' quando  l'espulsione  risulti  impossibile
per motivi di ordine giuridico o per altri motivi. 
III. Sulla astratta incompatibilita' tra il d.lgs. n.  286/98  e  gli
artt. 7, 8, 13, 15 e 16 della direttiva 2008/115/CE. 
    Il contrasto tra la disciplina  interna  dettata  dal  d.lgs.  25
luglio 1998 n. 286 e  la  direttiva  2008/115/CE  e'  rilevabile  dal
semplice confronto della normativa in parola. 
    L'art. 13 d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286 prevede le ipotesi in  cui
il prefetto puo' adottare l'ordine di espulsione nei confronti  dello
straniero irregolare sul territorio dello Stato. 
    Si  tratta  sostanzialmente  delle  medesime   ipotesi   previste
dall'art. 3 I comma n.  2  della  direttiva  2008/115/CE,  che  cosi'
statuisce: 
        «"soggiorno irregolare" la presenza  nel  territorio  di  uno
Stato membro di un cittadino di un paese terzo che non soddisfi o non
soddisfi piu' le condizioni d'ingresso di cui all'art. 5  del  codice
frontiere Schengen o altre condizioni d'ingresso, di soggiorno  o  di
residenza in tale Stato membro». 
    L'art. 13  prevede  che  l'espulsione  sia  esecutiva,  anche  se
sottoposta a gravame o impugnativa da parte  dell'interessato  e  che
sia eseguita con accompagnamento alla frontiera a mezzo  della  forza
pubblica. 
    L'art. 14 d.lgs. n. 286/98 prevede che  lo  straniero  irregolare
possa essere trattenuto in un centro di identificazione ed espulsione
fino a  180  giorni  anche  se  risulti  palese  l'impossibilita'  di
procedere ad espulsione. 
    La  norma   prevede   poi   la   possibilita'   per   l'autorita'
amministrativa di pubblica sicurezza (questore) di adottare un ordine
di allontanamento con un termine di cinque giorni nei confronti dello
straniero che non sia stato possibile  trattenere  in  un  centro  di
identificazione ed espulsione o che non sia stato possibile espellere
nel corso della permanenza nel predetto centro. 
    L'art. 14 comma 5-ter d.lgs. n. 286/98 sanziona con la reclusione
da uno a quattro anni lo straniero che  rimane  inottemperante  senza
giustificato motivo all'ordine di allontanamento del Questore. 
    L'art. 14 comma 5-quater d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286 prevede che
lo straniero sia punito con la sanzione penale  della  reclusione  da
uno a cinque anni  qualora  continui  a  permanere  illegalmente  sul
territorio dello Stato  in  violazione  del  decreto  prefettizio  di
espulsione, adottato ai sensi dell'art.  14  comma  5-ter  d.lgs.  n.
286/98 (ovvero a  seguito  di  una  pregressa  inottemperanza  ad  un
precedente ordine di allontanamento del  questore)  e  dell'ulteriore
provvedimento di allontanamento del questore. 
    Il  contrasto  tra  la  normativa  comunitaria  della   direttiva
2008/115/CE e la disciplina interna si risolve nei seguenti aspetti: 
        a) la disciplina interna  punisce  con  sanzione  penale  (la
reclusione) la violazione dell'ordine di allontanamento del questore,
mentre la direttiva CE consente unicamente  l'adozione  di  tutte  le
misure necessarie per eseguire la decisione di rimpatrio per  mancato
adempimento spontaneo dello stessa da parte del cittadino  del  paese
terzo (cfr. art. 8 direttiva); 
        b) la disciplina interna  punisce  con  sanzione  penale  (la
reclusione) la violazione dell'ordine di allontanamento del questore,
mentre la direttiva  CE  consente  il  trattenimento  unicamente  per
preparare il rimpatrio e/o  effettuare  l'allontanamento  sempre  che
sussiste il rischio di fuga o il cittadino del paese terzo  eviti  od
ostacoli la preparazione del rimpatrio o dell'allontanamento. 
    In sostanza, mentre  l'ordinamento  penale  italiano  prevede  la
sanzione penale come conseguenza  dell'inottemperanza  all'ordine  di
allontanamento, la  disciplina  comunitaria  consente  unicamente  il
trattenimento presso un centro per il  solo  fine  dell'espulsione  e
l'immediata  liberazione  in  caso  di  sopravvenuta   impossibilita'
giuridica di espulsione. 
    Nonostante l'evidente incompatibilita' non puo' farsi a  meno  di
notare che la direttiva 2008/115/CE non esclude in modo espresso  che
gli  stati  membri  possano  sanzionare   penalmente   il   soggiorno
irregolare di stranieri sul territorio dello Stato. 
    Peraltro, l'art. 2 della direttiva prevede espressamente che  gli
stati membri possano decidere di  non  applicare  la  direttiva  agli
stranieri che hanno superato irregolarmente le frontiere e non  hanno
successivamente ottenuto un valido titolo di soggiorno. 
    Articolo 2 - Ambito di applicazione. 
    1. La presente direttiva si applica ai cittadini di  paesi  terzi
il cui soggiorno nel territorio di uno Stato membro e' irregolare. 
    2. Gli Stati membri possono decidere di non applicare la presente
direttiva ai cittadini di paesi terzi: 
        a) sottoposti a respingimento  alla  frontiera  conformemente
all'art. 13 del codice frontiere Schengen ovvero fermati  o  scoperti
dalle  competenti   autorita'   in   occasione   dell'attraversamento
irregolare via terra, mare o aria  della  frontiera  esterna  di  uno
Stato   membro   e   che   non   hanno    successivamente    ottenuto
un'autorizzazione o un diritto di soggiorno in tale Stato membro; 
        b)  sottoposti  a  rimpatrio  come  sanzione  penale  o  come
conseguenza di una sanzione penale, in conformita' della legislazione
nazionale, o sottoposti a procedure di estradizione. 
    3. La presente  direttiva  non  si  applica  ai  beneficiari  del
diritto comunitario alla libera circolazione, quali definiti all'art.
2, paragrafo 5, del codice frontiere Schengen. 
    Si ricorda, infine, che, in materia di immigrazione  clandestina,
i  principali  Paesi  europei  (Francia,   Germania,   Regno   Unito)
sanzionano penalmente l'ingresso o  la  permanenza  irregolare  degli
stranieri sul proprio territorio (cfr. il dossier del Servizio  studi
del Senato del giugno 2008,  dal  titolo  L'immigrazione  in  quattro
Paesi  dell'Unione  Europea:   ingressi   illegali   e   immigrazione
clandestina). 
IV. L'impossibilita' di disapplicare nel caso di specie  l'ordine  di
allontanamento e conseguentemente la  rilevanza  della  questione  di
legittimita' costituzionale. 
    Le ragioni gia' sviluppate al superiore paragrafo  III  depongono
per l'impossibilita' di disapplicare in via diretta l'art.  14  comma
5-ter d.lgs. n. 286/98 per contrasto con la direttiva 2008/115/CE. 
    In altre parole non puo'  pronunciarsi  sentenza  di  assoluzione
perche' il fatto non e' previsto dalla legge come reato ex  art.  530
cpp. 
    Ma, nel caso di specie, vi e' anche di piu'. 
    Il decreto  prefettizio  di  espulsione  e'  stato  adottato  nei
confronti dell'odierno imputato  sul  presupposto  dell'ingresso  nel
territorio dello Stato con la sottrazione ai controlli  di  frontiera
ex art. 13 II comma lettera a) d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286. 
    L'imputato rientra pertanto  nella  definizione  di  soggiornante
irregolare ex art. 3 I comma n. 2 della direttiva 2008/115/CE. 
    Nel caso di specie, il procedimento di espulsione ha avuto inizio
in epoca antecedente al 24 dicembre 2010, tenuto conto che il decreto
prefettizio di espulsione e' stato  adottato  in  data  1°  settembre
2010. 
    L'ordine di allontanamento e' stato adottato in data 1° settembre
2010 e l'imputato e' stato arrestato in data 17 novembre 2010. 
    Formalmente, il procedimento di espulsione non puo'  considerarsi
affetto da vizi di violazione di legge  in  quanto  risulta  conforme
alla disciplina dettata dal d.lgs. 25  luglio  1998  n.  286,  quando
ancora la direttiva 2008/115/CE non era divenuta obbligatoria per gli
stati membri. 
    Puo' pero' affermarsi che la disciplina dettata  dalla  direttiva
2008/115/CE costituisce una norma integratrice del  precetto  penale,
con la connessa astratta applicabilita' dell'art. 2 cp. 
    D'altra parte, gia' si e' osservato come la Corte Costituzionale,
con  la  sentenza  2  febbraio  2007  n.  22,  ha  affermato  che  il
legislatore,  con  l'art.  14  comma  5-ter  primo  periodo   decreto
legislativo 25 luglio 1998 n. 286, ha inteso perseguire «il controllo
dei flussi migratori e la disciplina dell'ingresso e della permanenza
degli stranieri nel territorio nazionale». 
    La Corte Costituzionale ha aggiunto nella medesima  sentenza  che
«il reato di indebito trattenimento nel  territorio  nazionale  dello
straniero espulso  riguarda  la  semplice  condotta  di  inosservanza
dell'ordine di allontanamento dato dal questore, con una  fattispecie
che prescinde da una accertata o presunta pericolosita' dei  soggetti
responsabili». 
    Per completezza si ricorda che la Corte  di  Cassazione,  con  la
sentenza a Sezioni Unite n. 2451 del 16 gennaio 2008,  ha  sostenuto,
in materia di successione di legge extra penale  proprio  nell'ambito
dell'art.  14  comma  5-ter  d.lgs.  n.   286/98,   con   motivazione
convincente che: 
        «5. Come si e' visto, nell'ambito della fattispecie penale le
norme extrapenali non svolgono tutte la stessa funzione e,  nel  caso
delle norme penali  in  bianco,  possono  addirittura  costituire  il
precetto, anche se in questo caso, vista la funzione che svolgono, si
parla forse impropriamente  di  norme  extrapenali;  percio'  occorre
operare una distinzione tra le norme integratrici  della  fattispecie
penale e quelle che tali non possono essere considerate. 
    E' una distinzione alla quale si ricorre anche  nell'applicazione
dell'art. 47 c.p., comma 3 per decidere se un  errore  su  una  legge
diversa da quella penale escluda o meno  la  punibilita',  e  non  e'
questa la sede per stabilire se ai fini dell'art. 2 c.p. e  dell'art.
47 c.p. la qualificazione di una norma extrapenale  debba  essere  la
stessa; qui e' sufficiente  considerare  che  nell'art.  47  c.p.  il
legislatore ha riconosciuto l'esistenza di leggi  diverse  da  quelle
penali, alle quali ha ricollegato un diverso trattamento dell'errore,
e non e' arbitrario pensare che anche agli effetti dell'art.  2  c.p.
le leggi diverse da quelle penali possano avere trattamenti  diversi.
E' da aggiungere che la retroattivita', mentre per le norme penali di
favore rappresenta la regola (art. 2 c.p., commi 2, 3 e 4), anche  se
puo' subire deroghe (Corte cost., 23 novembre 2006, n. 393),  per  le
norme diverse da quelle  penali  costituisce  un'eccezione  (art.  11
disp. gen.), sicche' una  nuova  legge  extrapenale  puo'  avere,  di
regola, un effetto retroattivo solo se integra la fattispecie penale,
venendo a partecipare della sua natura, e cio' avviene, come nel caso
delle disposizioni definitorie, se la disposizione  extrapenale  puo'
sostituire idealmente la  parte  della  disposizione  penale  che  la
richiama. Ad esempio nel d.lgs. n.  286  del  1998,  art.  14,  comma
5-ter, come e' gia' stato rilevato,  le  parole  "lo  straniero"  ben
potrebbero essere sostituite con le parole "il cittadino di Stato non
appartenente all'Unione Europea e l'apolide"  (secondo  l'indicazione
del d.lgs. n. 286 del 1998, art. 1), e si  verificherebbe  certamente
una successione di leggi  penali  se  questa  definizione  cambiasse,
escludendo l'apolide o il cittadino  di  Stati  di  cui  e'  previsto
l'ingresso nell'Unione. 
    Analogamente le parole "minori" o "minorenni",  che  figurano  in
numerose disposizioni del codice penale, potrebbero essere sostituite
con le parole "persone che non hanno compiuto il diciottesimo anno di
eta'", percio' l'art. 2 c.c., comma 1 sulla maggiore  eta'  ben  puo'
essere considerato una disposizione integratrice dei precetti  penali
che si riferiscono a maggiorenni o a minorenni.  E  tale  infatti  la
giurisprudenza ha considerato la disposizione civilistica  quando  e'
stata modificata dalla legge 8 marzo 1975, n.  39,  art.  1,  che  ha
ridotto il limite della maggiore eta' da ventuno a diciotto anni:  la
vicenda e' stata ricondotta nell'ambito dell'art. 2 c.p. ed e'  stata
esclusa la  punibilita'  dei  fatti  di  sottrazione  consensuale  di
minorenni (art. 573 c.p.) commessi nei confronti di persone  di  eta'
tra i diciotto e i ventuno anni prima che il  limite  della  maggiore
eta' venisse ridotto (Sez. 6^, 11 aprile 1975, n. 8940, Centone,  rv.
130790; Sez. 6^, 29 dicembre 1977, n. 3791, Amato, rv. 138463). 
    In casi come questi si  puo'  parlare  di  modificazioni  mediate
della norma incriminatrice, da trattare,  alla  stregua  dell'art.  2
c.p., come una successione di norme penali». 
    Puo' allora affermarsi che la direttiva  2008/115/CE,  integrando
il precetto penale dettato dall'art. 14 comma 5-ter d.lgs. 286/98, ha
effetto retroattivo, anche se - nel caso di specie - non puo' portare
alla disapplicazione dell'ordine di allontanamento del Questore e per
l'effetto all'assoluzione dell'imputato. 
    Infatti, benche' l'ordine di allontanamento del 1° settembre 2010
abbia concesso il termine di 5 giorni ovvero un termine  inferiore  a
quello previsto dall'art. 7 della direttiva  2008/115/CE,  l'imputato
e' stato arrestato per inottemperanza  il  giorno  17  novembre  2010
quando erano gia' trascorsi 77 giorni dall'emanazione dell'ordine  di
allontanamento. 
    Lo straniero ha di fatto potuto usufruire di un  termine  congruo
per lasciare il territorio dello Stato, termine comunque superiore al
minimo di 7 giorni previsto dalla direttiva CE. 
    Ricorrendo tali presupposti di fatto,  non  e'  allora  possibile
disapplicare  l'ordine  di  allontanamento  per  contrasto   con   la
direttiva 2008/115/CE. 
    Deve osservarsi che la ratio della direttiva  2008/115/CE,  cosi'
come risultante dall'art. 7, e' quella di assicurare  allo  straniero
un termine congruo per poter lasciare il paese CE  ove  soggiorna  in
modo irregolare. 
    La violazione del termine da' luogo - in base  alle  disposizioni
della direttiva 2008/115/CE - alla  possibilita'  di  allontanare  lo
straniero ex  art.  8  o  alla  possibilita'  del  trattenimento  per
effettuare l'allontanamento ex art. 15. 
    Quando la  ratio  della  direttiva  e'  osservata,  perche'  allo
straniero il termine congruo e'  stato  di  fatto  concesso,  non  e'
possibile  operare  una  disapplicazione  della  norma  interna,  non
ricorrendo  una  effettiva   incompatibilita'   con   la   disciplina
comunitaria. 
    D'altra parte, l'art. 249 III comma del Trattato CE  lascia  allo
Stato  membro  la  scelta  delle  modalita'  di  raggiungimento   del
risultato indicato dalla direttiva. 
    Se  lo  scopo  della  direttiva  e'  quella  di  consentire  allo
straniero di  lasciare  il  territorio  dello  Stato  in  un  termine
congruo, l'autorita' di  pubblica  sicurezza,  in  ottemperanza  alla
direttiva stessa, puo' lasciare trascorrere un  termine  superiore  a
cinque giorni al fine di consentire allo  straniero  di  allontanarsi
dallo Stato prima di procedere con il trattenimento o l'arresto. 
    A ben vedere si tratta  di  una  modalita'  di  adeguamento  alla
direttiva, che impedisce la disapplicazione della norma  interna  nel
caso di specie. 
    Appare in conclusione  rilevante  la  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 14 comma 5-ter d.lgs. 286/98  per  contrasto
con l'art. 117 I comma della Costituzione in relazione all'art.  5  I
comma lettera  f)  della  Convenzione  Europea  di  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (ratificata in Italia
in forza della legge 4 agosto 1955 n. 848). 
V. Il contrasto tra l'art. 14 comma 5-ter d.lgs. 25  luglio  1998  n.
286 e l'art. 5 I comma lettera  f)  (diritto  alla  liberta'  e  alla
sicurezza) della Convenzione  europea  di  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo (CEDU). 
    L'art.  5  I  comma  lettera  f)  della  Convenzione  Europea  di
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(ratificata in Italia in forza della legge  4  agosto  1955  n.  848)
statuisce che: «nessuno puo' essere privato della  liberta',  se  non
nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge: f)  se  si  tratta
dell'arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle
di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona  contro
la quale e' in corso un procedimento d'espulsione o d'estradizione». 
    La norma della Convenzione Europea  prevede  la  possibilita'  di
privare della liberta' una persona contro la quale  e'  in  corso  un
procedimento di espulsione. 
    La Corte Europea dei diritti dell'uomo, con la  sentenza  del  1°
dicembre 2009 Hokic e Hrustic contro  Italia,  ha  affermato  che  la
privazione della liberta' personale  nei  confronti  di  una  persona
contro la quale e' in  corso  un  procedimento  di  espulsione  «deve
essere effettuata in buona fede e deve altresi'  essere  strettamente
legata al fine consistente nell'impedire ad una  persona  di  entrare
clandestinamente sul territorio». 
    Viene di seguito riportato per esteso l'estratto  della  sentenza
citata dalla quale e' stato estrapolato il precedente passo. 
    «Infine, la Corte ricorda che  la  conformita'  all'art.  5  §  1
presuppone un collegamento "tra, da una parte, il motivo addotto  per
la privazione di liberta' autorizzata, e, dall'altra, il luogo  e  il
regime detentivo" (Mubilanzila Mayeka e Kaniki Mitunga c. Belgio,  n.
13178/03, (§ 102), CEDH 2006 ...). Questa norma non richiede  che  la
detenzione  di  una  persona  contro  la  quale  sia  in   corso   un
procedimento   di   espulsione   sia   considerata    ragionevolmente
necessaria, per esempio per impedirle di commettere  un  reato  o  di
scappare; in proposito, l'art. 5 par. 1  f)  non  prevede  la  stessa
tutela prevista dall'art. 5 par. 1 c) (Chahal succitata, § 112).  Per
non essere tacciata di  arbitraria,  l'esecuzione  di  questa  misura
detentiva deve essere effettuata  in  buona  fede,  e  deve  altresi'
essere strettamente legata al fine consistente nell'impedire  ad  una
persona di entrare clandestinamente sul territorio.  Il  luogo  e  le
condizioni detentive, inoltre, devono  essere  adeguate;  infine,  la
durata della carcerazione non deve eccedere il limite ragionevolmente
necessario per ottenere lo scopo perseguito  (Saadi  c.  Regno  Unito
[GC], n. 13229/03, §§ 72-74, CEDH 2008 ....)». 
    Sempre la Corte Europea, con la sentenza Chahal c. Regno Unito 25
ottobre 1996, ha affermato che «solo lo svolgimento del  procedimento
di espulsione giustifica  la  privazione  della  liberta'  basata  su
questa norma (art. 5-1-f). Se la  procedura  non  e'  svolta  con  la
dovuta diligenza, la detenzione cessa di essere giustificata rispetto
all'art. 5 § 1 f) (art. 5-1-f) (sentenze  Quinn  c.  Francia  del  22
marzo 1995, serie A n. 311, p. 19, § 48, e Kolompar c. Belgio del  24
settembre 1992, serie A n. 235-C, p. 55, § 36)». 
    La Corte Europea, nell'interpretare la Convenzione, conclude  nel
senso di consentire la privazione della liberta' personale al fine di
effettuare l'espulsione e non come sanzione  penale  volta  a  punire
l'inottemperanza ad un ordine di allontanamento. 
    Lo scopo della privazione della liberta' e'  quello  di  impedire
l'immigrazione  illegale  e  per   l'effetto   quello   di   eseguire
l'espulsione  dello  straniero,  che  e'  entrato  illegalmente   nel
territorio di' uno Stato contraente. 
    Cosi' interpretato, l'art. 5 I comma lettera f) della Convenzione
coincide con la ratio  ed  il  contenuto  normativo  della  direttiva
2008/115/CE. 
    Gia' si e' detto come la direttiva preveda il trattenimento dello
straniero solo al fine di eseguire l'espulsione e  il  diritto  dello
straniero alla liberazione qualora l'espulsione risulti impossibile. 
    Ne deriva l'incostituzionalita' dell'art. 14 comma  5-ter  d.lgs.
n. 286/98, in quanto la citata norma  introduce  la  reclusione  come
sanzione    penale    conseguente    all'inottemperanza    volontaria
all'espulsione del tutto sganciata da qualsiasi logica amministrativa
di espulsione. 
    La stessa  Corte  Costituzionale  ha  piu'  volte  affermato  che
l'incriminazione prevista dall'art. 14 comma 5-ter d.lgs.  286/98  ha
lo scopo di controllare i flussi migratori e disciplinare  l'ingresso
e la permanenza degli stranieri nel territorio nazionale. 
    Afferma la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 22/2007: 
        «In tutti i casi richiamati non e' rinvenibile  la  finalita'
che il legislatore intende perseguire  con  la  norma  oggetto  delle
questioni sollevate nel presente giudizio: il  controllo  dei  flussi
migratori e la disciplina  dell'ingresso  e  della  permanenza  degli
stranieri nel territorio nazionale. 
    Si tratta di un grave problema sociale, umanitario  ed  economico
che implica valutazioni di politica legislativa non  riconducibili  a
mere  esigenze  generali  di  ordine   e   sicurezza   pubblica   ne'
sovrapponibili o assimilabili a problematiche  diverse,  legate  alla
pericolosita' di alcuni soggetti e di alcuni comportamenti che  nulla
hanno a che fare con il fenomeno dell'immigrazione. 
    Per quanto detto, la comparazione con le norme penali  suindicate
non puo' certo essere condotta in chiave di  confronto  rivolto  alla
rilevazione di ingiustificate disparita' di  trattamento  censurabili
dal giudice delle leggi, ma puo' servire eventualmente al legislatore
per una considerazione sistematica di tutte le  norme  che  prevedono
sanzioni penali per violazioni  di  provvedimenti  amministrativi  in
materia di sicurezza pubblica,  senza  dimenticare  peraltro  che  il
reato  di  indebito  trattenimento  nel  territorio  nazionale  dello
straniero espulso  riguarda  la  semplice  condotta  di  inosservanza
dell'ordine di allontanamento dato dal questore, con una  fattispecie
che prescinde da una accertata o presunta pericolosita' dei  soggetti
responsabili». 
    Occorre ricordare, nell'economia della presente ordinanza, che la
Corte Costituzionale,  con  le  sentenze  348  e  349  del  2007,  ha
affermato che il parametro costituzionale  dettato  dall'art.  117  I
comma  Cost.  comporta  l'obbligo  del   legislatore   ordinario   di
rispettare le norme contenute in accordi internazionali come le norme
CEDU, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con  la
norma CEDU e dunque con gli obblighi internazionali di  cui  all'art.
117 primo comma viola per cio' stesso tale parametro costituzionale. 
    Si riporta un estratto della motivazione  tratta  dalla  sentenza
della Corte Costituzionale n. 349 del 2007. 
    «6.1.2. - Dagli orientamenti della giurisprudenza di questa Corte
e' dunque possibile desumere un  riconoscimento  di  principio  della
peculiare rilevanza delle norme della Convenzione, in  considerazione
del contenuto della medesima, tradottasi nell'intento  di  garantire,
soprattutto mediante  lo  strumento  interpretativo,  la  tendenziale
coincidenza ed integrazione delle garanzie  stabilite  dalla  CEDU  e
dalla  Costituzione,  che  il  legislatore  ordinario  e'  tenuto   a
rispettare e realizzare. 
    La peculiare rilevanza degli obblighi internazionali assunti  con
l'adesione alla  Convenzione  in  esame  e'  stata  ben  presente  al
legislatore ordinario.  Infatti,  dopo  il  recepimento  della  nuova
disciplina della Corte europea dei diritti dell'uomo, dichiaratamente
diretta a "ristrutturare il meccanismo di controllo  stabilito  dalla
Convenzione per mantenere e rafforzare l'efficacia  della  protezione
dei diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  prevista  dalla
Convenzione" (Preambolo  al  Protocollo  n.  11,  ratificato  e  reso
esecutivo con la legge 28 agosto 1997, n. 296), si  e'  provveduto  a
migliorare i meccanismi finalizzati ad assicurare l'adempimento delle
pronunce della Corte europea (art. 1 della legge 9 gennaio  2006,  n.
12), anche mediante norme volte a  garantire  che  l'intero  apparato
pubblico  cooperi  nell'evitare   violazioni   che   possono   essere
sanzionate (art. 1, comma 1217, della  legge  27  dicembre  2006,  n.
296). Infine, anche sotto il  profilo  organizzativo,  da  ultimo  e'
stata  disciplinata  l'attivita'  attribuita  alla   Presidenza   del
Consiglio dei Ministri, stabilendo che  gli  adempimenti  conseguenti
alle  pronunce  della  Corte  di  Strasburgo  sono   curati   da   un
Dipartimento di detta Presidenza (d.P.C.m. 1° febbraio 2007 -  Misure
per  l'esecuzione  della  legge  9  gennaio  2006,  n.  12,   recante
disposizioni in materia di pronunce della Corte europea  dei  diritti
dell'uomo). 
    6.2. - E' dunque alla luce della complessiva disciplina stabilita
dalla Costituzione, quale risulta anche dagli orientamenti di  questa
Corte, che deve essere preso  in  considerazione  e  sistematicamente
interpretato l'art. 117, primo  comma,  Cost.,  in  quanto  parametro
rispetto al quale valutare la compatibilita'  della  norma  censurata
con l'art.  1  del  Protocollo  addizionale  alla  CEDU,  cosi'  come
interpretato dalla Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo. 
    Il dato subito emergente  e'  la  lacuna  esistente  prima  della
sostituzione  di  detta  norma  da  parte  dell'art.  2  della  legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche  al  titolo  V  della
parte seconda della Costituzione), per il fatto  che  la  conformita'
delle  leggi  ordinarie  alle   norme   di   diritto   internazionale
convenzionale era suscettibile di controllo da parte di questa  Corte
soltanto entro i limiti e nei casi sopra indicati al  punto  6.1.  La
conseguenza  era  che  la  violazione  di   obblighi   internazionali
derivanti da norme di natura convenzionale non contemplate  dall'art.
10 e  dall'art.  11  Cost.  da  parte  di  leggi  interne  comportava
l'incostituzionalita'  delle  medesime  solo  con  riferimento   alla
violazione diretta di  norme  costituzionali  (sentenza  n.  223  del
1996). E  cio'  si  verificava  a  dispetto  di  uno  degli  elementi
caratterizzanti    dell'ordinamento    giuridico    fondato     sulla
Costituzione, costituito dalla forte apertura al rispetto del diritto
internazionale e piu' in generale delle fonti esterne,  ivi  comprese
quelle richiamate dalle norme di diritto  internazionale  privato;  e
nonostante  l'espressa  rilevanza  della   violazione   delle   norme
internazionali oggetto di altri e specifici parametri costituzionali.
Inoltre, tale violazione di obblighi internazionali non  riusciva  ad
essere scongiurata adeguatamente dal solo  strumento  interpretativo,
mentre, come sopra precisato, per le  norme  della  CEDU  neppure  e'
ammissibile il ricorso alla "non applicazione"  utilizzabile  per  il
diritto comunitario. Non v'e' dubbio, pertanto, alla luce del  quadro
complessivo delle norme costituzionali e degli orientamenti di questa
Corte, che il nuovo testo  dell'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  ha
colmato una lacuna e che, in armonia con  le  Costituzioni  di  altri
Paesi europei, si  collega,  a  prescindere  dalla  sua  collocazione
sistematica nella Carta costituzionale, al quadro  dei  principi  che
espressamente gia' garantivano a  livello  primario  l'osservanza  di
determinati obblighi internazionali assunti dallo Stato. 
    Cio' non significa, beninteso, che con l'art. 117,  primo  comma,
Cost., si possa attribuire rango costituzionale alle norme  contenute
in  accordi  internazionali,  oggetto  di  una  legge  ordinaria   di
adattamento, com'e' il caso delle  norme  della  CEDU.  Il  parametro
costituzionale in esame comporta, infatti, l'obbligo del  legislatore
ordinario di rispettare dette norme, con la conseguenza che la  norma
nazionale incompatibile con la norma della  CEDU  e  dunque  con  gli
«obblighi internazionali» di cui all'art. 117, primo comma, viola per
cio' stesso tale parametro  costituzionale.  Con  l'art.  117,  primo
comma, si e' realizzato, in definitiva, un rinvio mobile  alla  norma
convenzionale di volta in volta  conferente,  la  quale  da'  vita  e
contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente  evocati  e,
con essi, al  parametro,  tanto  da  essere  comunemente  qualificata
«norma interposta»; e che e' soggetta a sua volta, come si  dira'  in
seguito, ad  una  verifica  di  compatibilita'  con  le  norme  della
Costituzione. Ne consegue che al giudice comune  spetta  interpretare
la norma interna in modo conforme alla  disposizione  internazionale,
entro i limiti nei quali cio' sia permesso  dai  testi  delle  norme.
Qualora cio' non sia possibile, ovvero  dubiti  della  compatibilita'
della norma interna con la disposizione  convenzionale  «interposta»,
egli  deve  investire  questa  Corte  della  relativa  questione   di
legittimita' costituzionale  rispetto  al  parametro  dell'art.  117,
primo comma, come correttamente e'  stato  fatto  dai  rimettenti  in
questa occasione. In relazione alla  CEDU,  inoltre,  occorre  tenere
conto della sua peculiarita' rispetto alla generalita' degli  accordi
internazionali, peculiarita' che consiste nel superamento del  quadro
di una semplice somma di diritti ed obblighi  reciproci  degli  Stati
contraenti. Questi  ultimi  hanno  istituito  un  sistema  di  tutela
uniforme dei diritti fondamentali. L'applicazione e l'interpretazione
del sistema di norme e' attribuito  beninteso  in  prima  battuta  ai
giudici degli Stati membri, cui compete il ruolo  di  giudici  comuni
della Convenzione.  La  definitiva  uniformita'  di  applicazione  e'
invece  garantita  dall'interpretazione  centralizzata   della   CEDU
attribuita alla Corte europea dei diritti  dell'uomo  di  Strasburgo,
cui spetta la parola ultima e la cui competenza «si estende  a  tutte
le questioni concernenti  l'interpretazione  e  l'applicazione  della
Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa  nelle
condizioni previste» dalla medesima (art. 32, comma 1,  della  CEDU).
Gli stessi Stati membri, peraltro, hanno significativamente mantenuto
la possibilita' di esercitare il diritto di riserva  relativamente  a
questa o quella disposizione in occasione della ratifica, cosi'  come
il diritto di denuncia successiva, si' che,  in  difetto  dell'una  e
dell'altra, risulta palese la totale e consapevole  accettazione  del
sistema  e  delle  sue  implicazioni.  In  considerazione  di  questi
caratteri della Convenzione, la rilevanza di quest'ultima, cosi' come
interpretata dal  «suo»  giudice,  rispetto  al  diritto  interno  e'
certamente diversa rispetto a quella della generalita' degli  accordi
internazionali, la cui interpretazione  rimane  in  capo  alle  Parti
contraenti, salvo, in  caso  di  controversia,  la  composizione  del
contrasto mediante negoziato o arbitrato o comunque un meccanismo  di
conciliazione di tipo negoziale. 
    Questa Corte e la Corte di Strasburgo hanno in  definitiva  ruoli
diversi, sia pure tesi al medesimo obiettivo di  tutelare  al  meglio
possibile i diritti fondamentali dell'uomo.  L'interpretazione  della
Convenzione di Roma e dei Protocolli spetta alla Corte di Strasburgo,
cio' che solo  garantisce  l'applicazione  del  livello  uniforme  di
tutela all'interno dell'insieme dei Paesi  membri.  A  questa  Corte,
qualora sia sollevata una questione di legittimita' costituzionale di
una norma nazionale rispetto all'art. 117,  primo  comma,  Cost.  per
contrasto - insanabile in via interpretativa - con una o  piu'  norme
della  CEDU,  spetta  invece  accertare  il  contrasto  e,  in   caso
affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell'interpretazione
data dalla Corte di Strasburgo, garantiscono una tutela  dei  diritti
fondamentali  almeno   equivalente   al   livello   garantito   dalla
Costituzione  italiana.  Non  si   tratta,   invero,   di   sindacare
l'interpretazione della norma CEDU operata dalla Corte di Strasburgo,
come infondatamente preteso dalla difesa erariale nel caso di specie,
ma   di   verificare   la   compatibilita'    della    norma    CEDU,
nell'interpretazione  del  giudice  cui   tale   compito   e'   stato
espressamente attribuito dagli Stati membri, con le pertinenti  norme
della Costituzione. In  tal  modo,  risulta  realizzato  un  corretto
bilanciamento tra l'esigenza di garantire il rispetto degli  obblighi
internazionali voluto dalla Costituzione e quella di evitare che cio'
possa comportare per altro verso un vulnus alla Costituzione stessa». 
VI. L'impossibilita'  di  ricondurre  la  privazione  della  liberta'
personale operata in  applicazione  della  sanzione  penale  prevista
dall'art. 14 comma 5-ter d.lgs. n. 286/1998 all'art. 5, primo  comma,
lettera f) (diritto alla liberta' e alla sicurezza) della Convenzione
europea di salvaguardia dei diritti dell'uomo (CEDU). 
    L'art. 5, primo comma, lettera a)  CEDU  consente  la  privazione
della liberta' personale in seguito ad una sentenza  di  condanna  da
parte di un tribunale competente. 
    Sul  presupposto  di  tale  disposizione  la   reclusione   dello
straniero irregolare  potrebbe  trovare  una  legittima  causa  nella
sentenza di condanna in relazione  al  reato  previsto  dall'art.  14
comma 5-ter d.lgs. n. 286/1998. 
    Ma tale interpretazione deve essere fermamente respinta. 
    In base all'interpretazione  della  giurisprudenza  istituzionale
gia' piu' volte richiamata, la privazione  della  liberta'  personale
come sanzione penale  conseguente  all'inottemperanza  all'ordine  di
allontanamento  costituisce  uno  strumento  con   il   quale   viene
perseguito  «il  controllo  dei  flussi  migratori  e  la  disciplina
dell'ingresso e  della  permanenza  degli  stranieri  nel  territorio
nazionale» (cfr. sentenza Corte costituzionale 2  febbraio  2007,  n.
22). 
    Si tratta di una sanzione penale con funzione  general-preventiva
avente lo  scopo  di  minacciare  la  pena  e  quindi  dissuadere  lo
straniero dall'inottemperanza all'ordine di allontanamento. 
    Lo stesso art. 14 comma 5-bis  d.lgs.  n.  286/1998  prevede  che
l'ordine  di  allontanamento   debba   recare   l'indicazione   della
conseguenze sanzionatorie della permanenza illegale. 
    L'avvertimento delle conseguenze sanzionatorie assume  un  valore
cosi' pregnante nell'ambito della fattispecie penale in commento, che
la giurisprudenza di legittimita' ha affermato - nell'interpretare le
conseguenze della modifica normativa operata dalla legge n.  271  del
2004 - che lo straniero  irregolare  risponde  della  contravvenzione
ante modifica del 2004 e  non  del  delitto  se  l'inottemperanza  e'
iniziata prima della modifica e l'ordine di  allontanamento  reca  la
minaccia dell'arresto e non della reclusione. 
    «In  tema  di  immigrazione  clandestina,  qualora  la   condotta
relativa al reato di cui all'art. 14, comma quinto-ter, d.lgs. n. 286
del  1998  (violazione  dell'ordine  di  allontanamento  emesso   dal
Questore) sia cominciata prima (e si sia protratta dopo) la  modifica
di cui alla legge n. 271 del 2004 che ha trasformato il citato  reato
da contravvenzione in delitto inasprendo la pena, l'imputato risponde
della violazione meno grave, allorche' essa sia  stata  indicata  nel
provvedimento  del  Questore,  posto  che  tale   indicazione   delle
conseguenze  penali  della  trasgressione   dell'ordine   costituisce
requisito sostanziale del  provvedimento  medesimo»  (cfr.  Corte  di
Cassazione sentenza 29726 del 15 giugno 2007). 
    Le incriminazioni, di cui  all'art.  14  comma  5-ter  d.lgs.  25
luglio  1998,  n.  286,  configurano  allora   un   mero   intervento
incidentale  del  diritto  penale  nell'ambito  della  procedura   di
espulsione amministrativa. 
    La  fattispecie  penale  non  tutela  alcun  bene  giuridico   di
rilevanza costituzionale, tanto e' vero che la Corte  Costituzionale,
con la sentenza 2 febbraio 2007, n. 22, ha affermato che:  «il  reato
di indebito trattenimento nel territorio  nazionale  dello  straniero
espulso riguarda la semplice condotta di inosservanza dell'ordine  di
allontanamento dato dal questore, con una fattispecie  che  prescinde
da una accertata o presunta pericolosita' dei soggetti responsabili». 
    A ben vedere, non e' rilevabile alcuna diversita'  oggettiva  tra
il  presupposto  di  fatto  della  reclusione   come   inottemperanza
all'ordine di allontanamento ex art. 14 comma 5-ter d.lgs. 25  luglio
1998, n. 286 ed il presupposto di fatto del trattenimento ex art.  15
della direttiva 2008/115/CE. 
    Entrambe le disposizioni normative prevedono la privazione  della
liberta' personale nei confronti  di  uno  straniero  irregolare  sul
territorio  dello  stato  nei  cui  confronti  e'  stato  avviato  il
procedimento  di  espulsione  con  l'adozione   di   un   ordine   di
allontanamento, rimasto in-ottemperato dallo straniero. 
    La differenza sostanziale attiene  allo  scopo  della  privazione
della liberta' perche', nel caso della direttiva CE, il trattenimento
e'  finalizzato  in  via  esclusiva  all'esecuzione  dell'espulsione,
mentre, nel caso della reclusione,  il  fine  dell'allontanamento  e'
assente e residua unicamente una finalita'  sanzionatoria  del  tutto
estranea al procedimento di espulsione. 
    Per esigenze di  completezza  si  riporta  per  esteso  il  testo
dell'art. 15 della direttiva 2008/115/CE. 
Trattenimento  ai  fini   dell'allontanamento   -   Articolo   15   -
Trattenimento. 
    1. Salvo  se  nel  caso  concreto  possono  essere  efficacemente
applicate altre misure sufficienti  ma  meno  coercitive,  gli  Stati
membri possono trattenere il cittadino di un paese terzo sottoposto a
procedure di  rimpatrio  soltanto  per  preparare  il  rimpatrio  e/o
effettuare l'allontanamento, in particolare quando: 
        a) sussiste un rischio di fuga o 
        b)  il  cittadino  del  paese  terzo  evita  od  ostacola  la
preparazione del rimpatrio o dell'allontanamento. 
    Il trattenimento ha durata quanto  piu'  breve  possibile  ed  e'
mantenuto solo per il  tempo  necessario  all'espletamento  diligente
delle modalita' di rimpatrio. 
    2. Il trattenimento e' disposto dalle autorita' amministrative  o
giudiziarie. 
    Il trattenimento e' disposto per iscritto ed e' motivato in fatto
e in diritto. 
    Quando   il   trattenimento   e'   disposto    dalle    autorita'
amministrative, gli Stati membri: 
        a) prevedono un pronto riesame giudiziario della legittimita'
del trattenimento su cui decidere entro il piu' breve tempo possibile
dall'inizio del trattenimento stesso, 
        b)  oppure  accordano  al  cittadino  di   un   paese   terzo
interessato il diritto di presentare ricorso  per  sottoporre  ad  un
pronto riesame giudiziario la legittimita' del trattenimento  su  cui
decidere entro il piu' breve tempo possibile dall'avvio del  relativo
procedimento. In tal caso gli Stati membri  informano  immediatamente
il  cittadino  del  paese  terzo  in  merito  alla  possibilita'   di
presentare tale ricorso. 
    Il  cittadino  di  un  paese  terzo   interessato   e'   liberato
immediatamente se il trattenimento non e' legittimo. 
    3. In ogni caso, il trattenimento e'  riesaminato  ad  intervalli
ragionevoli su richiesta del cittadino di un paese terzo  interessato
o d'ufficio. Nel caso  di  periodi  di  trattenimento  prolungati  il
riesame e' sottoposto al controllo di un'autorita' giudiziaria. 
    4.  Quando  risulta  che  non  esiste  piu'  alcuna   prospettiva
ragionevole di allontanamento per motivi di ordine  giuridico  o  per
altri motivi o che non  sussistono  piu'  le  condizioni  di  cui  al
paragrafo 1, il trattenimento non e' piu' giustificato e  la  persona
interessata e' immediatamente rilasciata. 
    5. Il trattenimento e' mantenuto finche' perdurano le  condizioni
di cui al paragrafo i e per il periodo necessario ad  assicurare  che
l'allontanamento sia eseguito. Ciascuno Stato  membro  stabilisce  un
periodo limitato di trattenimento, che non puo' superare i sei mesi. 
    6. Gli Stati membri non possono prolungare il periodo di  cui  al
paragrafo 5, salvo per un periodo limitato  non  superiore  ad  altri
dodici mesi conformemente alla legislazione  nazionale  nei  casi  in
cui,  nonostante  sia  stato  compiuto   ogni   ragionevole   sforzo,
l'operazione di allontanamento rischia  di  durare  piu'  a  lungo  a
causa: 
        a) della mancata cooperazione da parte del  cittadino  di  un
paese terzo interessato, o 
        b)   dei   ritardi    nell'ottenimento    della    necessaria
documentazione dai paesi terzi. 
    La sostanziale sovrapponibilita' del presupposto di  fatto  della
privazione della liberta' personale dello  straniero,  inottemperante
all'ordine di allontanamento,  determina  la  riconducibilita'  dello
strumento giuridico in esame all'alveo di applicazione  dell'art.  5,
primo comma, lettera f) CEDU.