Ordinanza 
 
nei giudizi di legittimita' costituzionale  degli  artt.  10-bis  del
decreto legislativo  25  luglio  1998,  n.  286  (Testo  unico  delle
disposizioni concernenti  la  disciplina  dell'immigrazione  e  norme
sulla condizione dello straniero), aggiunto dall'art.  1,  comma  16,
lettera a), della legge  15  luglio  2009,  n.  94  (Disposizioni  in
materia di sicurezza pubblica) e modificato dall'art.  16,  comma  1,
modificato dall'art. 1, comma 16, lettera b), della citata  legge  n.
94 del 2009, e 62-bis del decreto legislativo 28 agosto 2000, n.  274
(Disposizioni sulla competenza penale del giudice di  pace,  a  norma
dell'articolo 14  della  L.  24  novembre  1999,  n.  468),  aggiunto
dall'art. 1, comma 17, lettera  d),  della  legge  n.  94  del  2009,
promossi dal Giudice di pace di Lonigo con  ordinanza  del  30  marzo
2010, dal Giudice di Pace di Valdagno con  cinque  ordinanze  del  12
aprile 2010 e dal Giudice di pace di  Nardo'  con  ordinanza  dell'11
marzo 2010, rispettivamente iscritte ai nn. 309, da 369 a 373  e  391
del registro ordinanze 2010 e  pubblicate  nella  Gazzetta  Ufficiale
della Repubblica nn. 42, 49 e 52, 1ª serie speciale, dell'anno 2010. 
    Visti gli atti di intervento del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    Udito nella camera di consiglio del  6  aprile  2011  il  Giudice
relatore Paolo Grossi. 
    Ritenuto che, con ordinanza del 30 marzo 2010 (r.o.  n.  309  del
2010), il Giudice di pace di Lonigo e, con cinque distinte  ordinanze
di identico contenuto, tutte del 12 aprile 2010 (r.o. nn.  369,  370,
371, 372 e 373 del 2010), il Giudice di pace di Valdagno, in  persona
dello stesso magistrato, hanno sollevato, in riferimento  agli  artt.
2,  3,  10,  13  e  27  della  Costituzione  «nonche'  [ai]  principi
costituzionali  di   ragionevolezza   della   legge   penale   e   di
offensivita'», questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.
10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n.  286  (Testo  unico
delle disposizioni  concernenti  la  disciplina  dell'immigrazione  e
norme sulla condizione  dello  straniero),  introdotto  dall'art.  1,
comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni
in materia di sicurezza pubblica), nella parte in  cui  prevede  come
reato il fatto dello straniero che fa ingresso  o  si  trattiene  nel
territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del  medesimo
testo unico; 
        che i giudici rimettenti dubitano della suddetta disposizione
nell'ambito di altrettanti processi penali nei confronti di cittadini
extracomunitari, imputati della contravvenzione prevista dalla  norma
censurata; 
        che  questa   disposizione   violerebbe   il   principio   di
eguaglianza, di cui all'art.  3  Cost.,  non  attribuendo  rilievo  a
eventuali situazioni legittimanti la  presenza  dello  straniero  nel
territorio dello Stato, quali quelle evocate  dalla  clausola  «senza
giustificato motivo» in rapporto al reato di inosservanza dell'ordine
di allontanamento del questore (art. 14, comma 5-ter, del  d.lgs.  n.
286 del 1998); 
        che essa si porrebbe in contrasto anche con il  principio  di
ragionevolezza, di  cui  parimenti  all'art.  3  Cost.,  sia  perche'
risulterebbe priva di ogni fondamento giustificativo, essendo la  sua
sfera applicativa destinata  a  sovrapporsi  integralmente  a  quella
dell'espulsione amministrativa; sia perche' conterrebbe la previsione
di un'ammenda (da 5.000 a  10.000  euro)  sproporzionata  rispetto  a
soggetti che a priori si trovano nell'impossibilita' di far fronte  a
sanzioni pecuniarie di questa entita'; 
        che sarebbero altresi' violati i principi di  colpevolezza  e
di offensivita', giacche' l'ingresso e  la  permanenza  illegale  nel
territorio dello Stato  non  costituirebbero  fatti  lesivi  di  beni
meritevoli di tutela penale e personalmente  rimproverabili  al  loro
autore, ma l'espressione di una  condizione  personale  -  quella  di
migrante - effetto, nella maggioranza dei casi, «della disperazione e
della ricerca di migliori condizioni di vita, che ogni  essere  umano
ha diritto di raggiungere»; 
        che risulterebbero anche lesi il «principio di  proporzione»,
ricavabile dall'art. 27, terzo comma, Cost., nonche' il principio del
buon andamento dei pubblici uffici, di cui  all'art.  97  Cost.,  dal
momento  che  l'introduzione  della   nuova   fattispecie   criminosa
graverebbe il sistema giudiziario di un abnorme  numero  di  processi
«privi di reale utilita'  sociale»,  senza  che,  peraltro,  sussista
alcuna prospettiva di riscossione delle pene pecuniarie  inflitte  in
esito ad essi, stante la condizione di insolvibilita' dei condannati,
e senza che dunque le pene  medesime  siano  in  grado  di  esplicare
alcuna funzione rieducativa; 
        che verrebbe violato anche il «principio di  sussidiarieta'»,
ricavabile dall'art. 13, primo comma, Cost., in quanto  la  pena  non
sarebbe proporzionata  alla  gravita'  del  fatto,  ne'  risulterebbe
necessaria, quale extrema ratio; 
        che sarebbe vulnerato, ancora, il «principio di  solidarieta'
sociale», espresso dagli artt. 2 e 3, primo e secondo  comma,  Cost.,
giacche'   l'introduzione   della   nuova   fattispecie   di    reato
determinerebbe una condizione di isolamento e  di  rifiuto  da  parte
della societa' nei confronti degli immigrati, che, piu' degli  altri,
sarebbero invece bisognosi di solidarieta'; 
        che sarebbe, infine, violato l'art.  10  Cost.,  giacche'  la
configurazione come reato del soggiorno  irregolare  dello  straniero
nel territorio dello Stato si porrebbe in contrasto  con  i  principi
affermati in  materia  di  immigrazione  nel  diritto  internazionale
generalmente riconosciuto e con il «diritto di libera circolazione  e
di soggiorno dei cittadini  comunitari»,  sancito  dall'art.  18  del
Trattato istitutivo della Comunita' europea. 
        che nei  giudizi  instaurati  con  le  ordinanze  emesse  dal
Giudice  di  pace  di  Valdagno  e'  intervenuto  il  Presidente  del
Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e  difeso  dalla  Avvocatura
generale dello Stato, per chiedere che la questione venga  dichiarata
inammissibile o manifestamente infondata; 
        che, con ordinanza dell'11 marzo 2010 (r.o. n. 391 del 2010),
il Giudice di pace di Nardo' ha sollevato, in riferimento agli  artt.
3,  25,  27  e  97  della  Costituzione,  questione  di  legittimita'
costituzionale  degli  artt.  10-bis  (limitatamente  all'ipotesi  di
soggiorno illegale) e 16, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998 - come,
rispettivamente, introdotto dall'art. 1, comma 16, lettera a),  della
legge n. 94 del 2009 e modificato dall'art. 1, comma 16, lettera  b),
e comma 22, lettera o), della medesima legge n. 94 del 2009 - nonche'
dell'art. 62-bis del decreto  legislativo  28  agosto  2000,  n.  274
(Disposizioni sulla competenza penale del giudice di  pace,  a  norma
dell'articolo 14 della L. 24 novembre 1999, n. 468), come  introdotto
dall'art. 1, comma 17, lettera d), della predetta  legge  n.  94  del
2009; 
        che la rilevanza della questione riguarderebbe, nel  giudizio
a quo, la «statuizione sulla sanzione da comminare  all'imputato,  in
caso  di  riconoscimento  di  responsabilita'  penale»,   conseguente
all'applicazione della normativa censurata; 
        che «la criminalizzazione di una condizione (status) che fino
alla data di entrata  in  vigore  della  novella  era  di  competenza
esclusiva  dell'autorita'  amministrativa»  violerebbe  «i   principi
costituzionali di materialita' e offensivita'  del  diritto  penale»,
oltre che di «uguaglianza,  proporzionalita'  e  ragionevolezza»,  di
cui, in combinato disposto, ai richiamati artt. 3,  25  e  27  Cost.,
nonche' «i principi generali che informano la materia penale»; 
        che  la  sanzione  penale  prevista,  infatti,  da  un  lato,
risulterebbe   «scollegata   al   fatto   materiale   e   colpevole»,
connettendosi piuttosto «al modo di essere del soggetto  (immigrato)»
e,  dall'altro,  parrebbe  «priva  della  compromissione   del   bene
giuridico protetto (lesione o  messa  in  pericolo)»,  senza  che  le
condotte  incriminate   possano   essere   considerate   «indice   di
pericolosita' sociale» e senza che  la  sanzione  penale  costituisca
«l'unico ed estremo  strumento  di  deterrenza»,  data  la  «perfetta
coincidenza del rimedio penale con il rimedio amministrativo»; 
        che  ulteriori  «dubbi  di  ragionevolezza   e   legittimita'
costituzionale»  riguarderebbero  una  fattispecie  nella  quale   la
«punibilita' degradi in caso di provvedimenti di respingimento  o  di
espulsione amministrativa fino alla pronuncia giudiziale di non luogo
a procedere» e nella quale  anche  «l'accertamento  del  reato  possa
concludersi nell'irrogazione di un  provvedimento  di  espulsione  in
doppio binario con il provvedimento di  espulsione  amministrativo  e
che deve essere obbligatoriamente emesso»; 
        che l'irrazionalita' deriverebbe tanto dall'«inefficacia  del
raggiungimento della tutela dei  beni  costituzionalmente  rilevanti»
quanto dall'inutile «accavallarsi dello strumento penale  con  quello
amministrativo», se non proprio da una vera e propria subordinazione,
di  fatto,  del  primo  rispetto  al  secondo,  «con  la  conseguente
inapplicabilita' della pena sostitutiva in sede penale», in contrasto
con   il   principio   del   buon   funzionamento   della    pubblica
amministrazione di cui all'art. 97 Cost.; 
        che quanto, ancora, alla previsione di una pronuncia  di  non
luogo a procedere nel caso in cui l'autore del reato  sia  espulso  o
respinto ex art. 10, comma 2, del decreto legislativo in  esame,  non
potrebbe escludersi, a giudizio del rimettente,  che,  in  violazione
dell'art. 3 Cost., «condotte del tutto identiche [...] in assenza  di
adozione  di  provvedimenti  dell'autorita'  amministrativa  assumano
rilevanza   penale   differente,   determinandosi   sperequazione   e
disparita' di trattamento tra chi  debba  essere  prosciolto  poiche'
colpito da provvedimenti amministrativi [...] e chi, fatalmente,  non
destinatario  di  provvedimenti  di  allontanamento,   debba   essere
destinatario della sanzione penale», senza  che  si  possa  ricorrere
«all'analogia in malam  partem,  a  tanto  ostando  il  principio  di
tassativita' ex art. 25 Cost.»; 
        che nella normativa censurata  si  rileverebbe,  inoltre,  il
mancato riferimento alla funzione rieducativa  della  pena  (prevista
«in maniera ancillare  a  completamento  dell'azione  amministrativa,
volta all'espulsione in sede penale  dello  straniero»)  nonche',  in
violazione dell'art. 3 Cost., la mancata attribuzione di rilevanza ad
eventuali giustificati motivi di trattenimento nel  territorio  dello
Stato, al pari di quanto previsto per «l'analoga  ipotesi  delittuosa
di cui all'art. 14, comma 5-ter, del decreto legislativo n.  286  del
1998». 
    Considerato che le ordinanze di  rimessione  sollevano  questioni
identiche o analoghe e, percio', i relativi giudizi vanno riuniti per
essere definiti con un'unica pronuncia; 
        che tutti i giudici rimettenti dubitano, in riferimento  agli
indicati parametri costituzionali, della legittimita'  costituzionale
dell'art. 10-bis del decreto  legislativo  25  luglio  1998,  n.  286
(Testo   unico   delle   disposizioni   concernenti   la   disciplina
dell'immigrazione e norme sulla condizione dello  straniero)  e,  tra
essi, il solo Giudice di pace  di  Nardo'  estende  le  censure  alle
collegate previsioni dell'art. 16, comma 1, del  d.lgs.  n.  286  del
1998 nonche' dell'art. 62-bis del  d.lgs.  28  agosto  2000,  n.  274
(Disposizioni sulla competenza penale del giudice di parte,  a  norma
dell'articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468); 
        che tutte le ordinanze  di  rimessione  omettono  di  fornire
adeguate indicazioni sulle vicende oggetto  dei  relativi  giudizi  e
sulla  loro  effettiva   riconducibilita'   al   paradigma   punitivo
considerato,  atte  a  permettere  a   questa   Corte   la   verifica
dell'asserita rilevanza delle questioni, sia nel loro  complesso  che
in rapporto alle singole censure prospettate; 
        che i giudici rimettenti si limitano, infatti, in sostanza, a
riportare, nell'epigrafe delle loro ordinanze, il capo di imputazione
attraverso   una   generica   parafrasi   del   testo   della   norma
incriminatrice, affermando la rilevanza delle  questioni  in  termini
puramente assiomatici; 
        che  identiche  questioni,  sollevate  dagli  stessi  giudici
rimettenti  con  provvedimenti  di  identico   tenore,   sono   state
dichiarate manifestamente inammissibili, per le parti  relative,  con
le ordinanze n. 13 del 2011 e n. 144 del 2011; 
        che le questioni vanno, pertanto,  dichiarate  manifestamente
inammissibili. 
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,  n.
87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti  alla
Corte costituzionale.