LA COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE 
 
    Ha  emesso  la  seguente  ordinanza  sull'  appello  n.   2153/10
depositato il 10 novembre 2010 - avverso la sentenza n. 99/05/2009; 
    Emessa  dalla  Commissione  Tributaria  Provinciale   di   Verona
proposto dall'ufficio: Agenzia Entrate Dir.  Provin.  Uff.  Controlli
Verona; 
    Controparte: Meneghello Claudia,Via Bron n. 512  -  37017  Lazise
Verona; 
    Difeso da: Lucchese Tiziano Via Stella n. 19 - 37122 Verona VR. 
    Atti  impugnati:  avviso  di  accertamento  n.   8360101001352007
IVA+IRPEF+IRAP 2004. 
    Letti gli atti; 
    udite le parti alla pubblica udienza fissata per la discussione; 
    udito  in  camera  di  consiglio  il  relatore   dott.   Giuseppe
Caracciolo; 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    La commissione tributaria provinciale di Verona  ha  parzialmente
accolto il ricorso della «Mac Motors di' Meneghello Claudia»  avverso
avviso di accertamento  concernente  IVA  -  IRPEF  IRAP  per  l'anno
d'imposta 2004, e  cio'  in  relazione  ai  recuperi  ad  imposizione
diversi da quello concernente il  disconoscimento  dell'IVA  detratta
(in relazione alla quale ultima il provvedimento di  accertamento  e'
rimasto invece confermato). 
    Con il predetto avviso l'Agenzia -sulla premessa che la ditta Mac
Motors avesse partecipato (nella qualita' di  "buffer",  e  cioe'  di
filtro solo apparentemente regolare) ad  un  sistema  di  illecita  e
fraudolenta evasione dell'IVA,  realizzato  attraverso  un  complesso
meccanismo di transazioni economiche intracomunitarie concernenti  il
commercio  di  autovetture  e  concretizzantesi  nella  emissione  di
fatture (percio' definite "soggettivamente inesistenti") correlate  a
fittizi passaggi di  merce  (comunque,  effettivamente  importata)  e
finalizzate a  consentire  che  uno  degli  anelli  della  catena  di
passaggi ottenesse (di fatto)  di  evadere  l'obbligo  di  versamento
dell'imposta  -  aveva  non  soltanto  disconosciuto  la   detrazione
dell'IVA portata dalle fatture pervenute ma  -  anche  recuperato  ad
imposizione i costi sostenuti per l'acquisto delle autovetture (oltre
ad imporre comunque il  versamento  dell'IVA  esposta  nelle  fatture
emesse) ed infine recuperato a tassazione il compenso  che  la  ditta
aveva  verosimilmente  incassato  per  la   sua   partecipazione   al
meccanismo fraudolento. 
    L'impugnazione dell'anzidetto provvedimento da parte della  ditta
contribuente e' stata accolta dall'adita Commissione  Provinciale  di
Verona - per la parte di cui si e' detto - con l'argomento  che  (pur
pacifica  la  partecipazione   della   Mac   Motors   al   meccanismo
fraudolento, della cui natura quest'ultima  non  avrebbe  potuto  non
rendersi conto, atteso il ruolo che vi svolgevano le ditte fornitrici
degli autoveicoli  e  la  propria  notevole  esperienza  nel  settore
commerciale in questione, e percio' data per  pacificamente  indebita
la detrazione dell'IVA corrisposta) non poteva considerarsi legittima
la pretesa di  precludere  la  detrazione  dei  costi  (pacificamente
sostenuti), siccome l'art. 14 comma 4-bis della legge n. 537  del  24
dicembre 1993 concerne le sole "attivita' di per  se'  illecite....ma
non una normale  attivita'  commerciale",  atteso  che  lo  scopo  di
evadere le imposte non rende criminosa l'intera attivita', che rimane
lecita. 
    Si e' doluta di  -  questa  pronuncia  l'Agenzia  delle  Entrate,
avanti a questa Commissione Regionale, per la violazione del disposto
dell'art.14  dianzi  menzionato  (che,  nella  formulazione   vigente
all'epoca dei fatti di causa, come gia' modificata dall'art. 2  della
legge n. 289/2002, prevede: «Nella determinazione dei redditi di  cui
all'articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte  sui  redditi,
di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22  dicembre  1986,
n.  917,  non  sono  ammessi  in  deduzione  i  costi  o   le   spese
riconducibili a fatti, atti o  attivita'  qualificabili  come  reato,
fatto salvo l'esercizio di diritti costituzionalmente  riconosciuti»)
evidenziando che la condotta tenuta dalla Mac Motor attraverso la sua
titolare  Meneghello  Claudia),  consistita  nella  sua   consapevole
partecipazione al meccanismo fraudolento, deve essere sussunta  nella
fattispedie prevista e punita dall'art. 2 del d.lgs.  n.  74  del  10
marzo  2000  relativa  all'utilizzo,   mediante   indicazione   nelle
dichiarazioni annuali e con il  fine  di  evasione  dell'imposta  sul
reddito, di fatture emesse per operazioni inesistenti,  condotta  per
la quale la Meneghello era stata  infatti  indagata  in  procedimento
penale ancora pendente. 
    Richiedere, a questo proposito, che  lo  stesso  costo  sostenuto
debba integrare la funzione di strumento del reato (come in  sostanza
aveva ritenuto il  primo  giudice),  avrebbe  significato  -  secondo
l'appellante Agenzia - distorcere il chiaro significato  della  norma
dianzi trascritta, a mente della quale e'  sufficiente  che  i  costi
disconoscibili  siano  "riconducibili"  alla  condotta  criminosa,  e
percio'  correlati  con  quella,  ma  non  necessariamente  frutto  o
strumento del reato. 
    La finalita' sanzionatoria della norma in  questione  -  posta  a
presidio dell'attivita' di prevenzione  delle  frodi  in  materia  di
imposta sul valore aggiunto - precluderebbe,  quindi,  ogni  indagine
circa la correlazione tra costo e reato. 
    All'esito  di  dette  considerazioni,  l'Agenzia  appellante   ha
chiesto a questa Commissione di riformare la decisione di primo grado
e (per vero, implicitamente) di dichiarare  non  detraibili  ai  fini
delle imposte dirette costi connessi con il menzionato  reato,  quali
indicati nel provvedimento impositivo. 
    Costituendosi in giudizio, la Mac Motors ha non  soltanto  svolto
difese ma anche interposto appello incidentale con cui ha  contestato
che vi fossero elementi  probatori  idonei  a  acclarare  l'attiva  o
soltanto  consapevole  partecipazione  di  essa   Mac   Motors   alla
macchinazione fraudolenta,  con  la  conseguente  positiva  esistenza
delle fatture passive annotate e di quelle correlativamente emesse  e
l'ineludibile diritto alla detrazione dell'IVA. 
    L'appellante incidentale ha  pure  riproposto  tre  argomenti  di
impugnazione del provvedimento  impositivo,  sulla  premessa  che  il
giudice di primo grado ne aveva eluso l'esame. 
    Espletata la pubblica udienza ed udite le parti, la commissione -
riunita in camera di consiglio - si  e'  riservata  di  deliberare  a
mente dell'art. 35 comma 2 d.lgs. n. 546/1992. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    La commissione ritiene di non  poter  adottare  alcuna  decisione
senza avere prima sottoposto alla Corte Costituzionale  la  questione
di legittimita' dell'art. 14 comma 4-bis della legge 537 del 1993. Si
tratta di' questione che e' gia' stata proposta  innanzi  alla  Corte
Costituzionale con ordinanza di  data  11.11.2009  della  Commissione
Tributaria Provinciale di Terni  ,  ma  la  Corte  ne  ha  dichiarato
l'inammissibilita'  con  provvedimento  del  3.3.2011  n.73,  sicche'
occorre tornare a proporla ai fini di un nuovo esame. 
    a) Sulla rilevanza della questione prospettata. 
    Prima di esporre gli argomenti  a  sostegno  del  dubbio  di  non
manifesta   infondatezza   della    questione    di    illegittimita'
costituzionale dell'art. 14 comma 4-bis della legge n. 537  del  1993
(nella  versione  attualmente  vigente,  identica  a  quella  vigente
all'epoca dei fatti) la Commissione reputa  necessario  indagarne  la
rilevanza ai fini della soluzione della presente controversia. 
    Sul punto occorre preliminarmente osservare  (con  la  necessaria
concisione dettata dalla finalita' del  presente  provvedimento)  che
l'appello  incidentale  proposto  dalla   societa'   Mac   Motors   -
logicamente pregiudiziale - non  pare  idoneo  a  consentire  di  non
esaminare nel merito quello principale proposto dall'Agenzia,  atteso
che  la  appellante  incidentale  non  lamenta  affatto  che  si  sia
erroneamente  attribuito  il  carattere  fraudolento   al   complesso
meccanismo di  transazioni  commerciali  intracomunitarie  a  cui  la
medesima Mac Motors oggettivamente ha partecipato, ma lamenta che non
esista prova positiva in ordine alla  propria  partecipazione  attiva
all'anzidetto meccanismo  ovvero  almeno  alla  consapevolezza  della
predisposizione di un siffatto sistema da parte  delle  terze  ditte,
tra le quali essa Mac Motors aveva sostanzialmente assunto  il  ruolo
di' interposta. 
    Sul punto infatti sono dirimenti  le  considerazioni  gia'  fatte
proprie dalla Commissione di primo grado, in ragione del fatto che la
esperienza  maturata  dalla  Mac  Motors  nello   specifico   settore
commerciale non rende prospettabile in alcun  modo  che  alla  stessa
possa essere stata ignota o non conoscibile con l'uso  dell'ordinaria
diligenza la finalita' di evasione fiscale per la  quale  le  plurime
transazioni della stessa merce venivano poste in  essere,  nonostante
la loro apparente diseconomicita'. 
    Del pari non assorbenti appaiono gli  argomenti  di  impugnazione
riproposti dalla appellante incidentale  siccome  non  esaminati  dal
primo giudice,  apparendo  il  provvedimento  impositivo  debitamente
motivato, anche in punto di indicazione degli elementi di prova;  non
apparendo che possano sussistere  le  valorizzate  preclusioni  della
modalita' "parziale" dell'accertamento espletato dall'Agenzia  e  non
potendo avere  incidenza  sulla  questione  qui  in  esame  l'aspetto
relativo alla  legittima  adozione  del  provvedimento  sanzionatorio
correlato all'accertamento della maggiore imposta. 
    Cio'  posto,  occorre  dire  che   indubbia   rilevanza   assume,
nell'ottica dell'esame dell'appello principale,  la  questione  della
illegittimita' costituzionale della disciplina piu' volte menzionata,
non potendosi dare soluzione alla censura proposta dall'Agenzia senza
indagare sulla rispondenza  a  Costituzione  della  lettera  e  della
diffusa interpretazione della norma qui in considerazione. 
    Ed invero, la predetta disposizione di legge e' posta dalla parte
appellante principale a fondamento della censura che e' proposta  nei
confronti  della  decisione  adottata  dal  primo  giudice,   siccome
quest'ultima e' motivata proprio con la attribuzione all'art.  14  in
parola di un ambito di limitata applicazione, quale desunto in  forza
di una interpretazione del suo significato (implicita,  per  verita')
di portata restrittiva. 
    Va detto - a questo proposito - che del diffuso sentire in ordine
ad  un'ampia  lettura  applicativa  da  attribuire  alla   menzionata
disciplina  e'  interprete  in  primo  luogo  la  Suprema  Corte   di
Cassazione che - per exemplum - con la sentenza  n.  25617-2010  (non
massimata sul punto) ha affermato che costituiscono «ipotesi di reato
che ne impediscono la deduzione» (dei costi sostenuti) quelle in  cui
i predetti costi risultino "fittizi  in  quanto  coperti  da  fatture
false e quindi diretta espressione di  un  comportamento  costituente
reato ai sensi del d.lgs. n. 74 del 2000, art. 1, comma 1, lett.  a),
e art. 8», ed ha corroborato espressamente la tesi  secondo  cui  «la
indeducibilita' assume connotazione sanzionatoria e quindi non  e'  a
rischio di collisione con il principio  di  cui  all'art.  53  Cost.»
(conferma si rinviene poi nella sentenza n.  16750  del  2008,  nella
quale la Corte ha pure argomentato che «si tratta di un intervento di
tipo sanzionatorio che si aggiunge a quelli normalmente previsti  per
gli illeciti piu' gravi, costituenti reato", ma  ha  poi  qualificato
come «sola eccezione alla neutralita' del prelievo  fiscale  rispetto
alla dicotomia liceita'/illiceita'» la indeducibilita' dei costi  dei
«beni srumetitali» delle attivita' criminali). 
    Anche la prassi applicativa ha proposto una  lettura  quanto  mai
ampia della disposizione in parola, giungendo ad assumere  (Circolare
n.42/E del 26 settembre 2005) che la norma vieta la deducibilita'  di
costi e spese  comunque  inerenti  all'attivita'  e  funzionali  alla
produzione dei relativi proventi, nel caso in cui l'attivita' nel suo
complesso ovvero il singolo atto  o  fatto  illecito  costituisca  un
illecito penalmente rilevante»; ed aggiungendo anche che «nel caso in
cui l'illiceita' coinvolga solo uno o piu' «fatti o atti» nell'ambito
della propria attivita' lecita, l'indeducibilita' riguardera'  sia  i
costi e le spese a questi specificamente afferenti, sia una quota dei
costi riconducibili all'attivita' in generale  ossia  comuni  a  pini
fatti o atti, alcuni leciti e altri illeciti. In tale ultima ipotesi,
la quota  indeducibile  dovra'  essere  determinata  con  criteri  di
proporzionalita' in relazione alla fattispecie esaminata». 
    In questo contesto si e' anche evidenziato che  l'indeducibilita'
dei  costi  e'  resa  addirittura   conseguenza   necessitata   della
disciplina relativa alla imponibilita' dei proventi illeciti (comma 4
dell'art. 14 in esame) atteso che - estremizzando - «nel caso in  cui
l'intera attivita' esercitata dal contribuente rilevi  come  illecito
penale e tutti i proventi siano sottoposti a sequestro o confisca, la
deducibilita'  dei  costi  e  delle  spese  in  regime   di   impresa
determinerebbe, per assurdo, una perdita fiscale riportabile». 
    Infine, anche la dottrina - per la maggior parte - assume che  la
disposizione in esame non opera distinguo alcuno fra i  diversi  tipi
di costi da reato, sicche' le spese riferibili ad un illecito penale,
di qualsivoglia natura, anche se da esso non si  genera  un  provento
tassabile, siano esse strumentali o non strumentali  al  reato,  sono
soggette alla censura di indetraibilita'. 
    Nel giudicare la correlazione che esiste tra  la  previsione  del
comma dell'art.14  (tassabilita'  dei  proventi  da  illecito)  e  la
previsione del comma 4-bis, la  dottrina  ha  messo  in  evidenza  la
completa autonomia della seconda previsione rispetto alla  prima  con
il  condivisibile  argomento  secondo   cui   per   disciplinare   il
trattamento fiscale dei soli costi correlati ai proventi generati  da
un illecito non sarebbe stato affatto necessario emanare una apposita
disposizione, poiche' anche prima dell'inserimento  del  comma  4-bis
nel corpo della disposizione normativa non vi era dubbio alcuno sulla
tassabilita' di detti proventi al  netto  dei  costi,  e  poiche'  il
riferimento ai soli reati della disposizione del comma 4-bis conferma
la totale disomogeneita' delle due distinte previsioni. 
    D'altronde,  i  sostenitori  dell'opposta  tesi   (quella   della
complementarieta' tra la previsione del comma 4  e  del  comma  4-bis
menzionati) lamentano solo che il contrario indirizzo darebbe luogo a
conseguenze  irragionevoli,  come:   l'eventualita'   che   diventino
indeducibili  anche  i  costi  correlati  a  reati  che  non  abbiano
determinato alcuna specifica produzione  di  reddito;  l'eventualita'
che si penalizzi l'erogatore del costo che sia correlato ad un  reato
commesso da un terzo. Ma un siffatto rilievo,  se  pur  correttamente
valorizzabile nell'ottica dei criteri  previsti  dall'art.  12  disp.
prel. cod civ, non puo' certamente costituire ragione assorbente  per
la soluzione della questione di esegesi nella specie qui in esame,  a
fronte del chiaro tenore letterale delle norme. 
    Ed invero, se il legislatore avesse  realmente  inteso  stabilire
una inderogabile  correlazione  tra  la  concreta  produzione  di  un
provento tassabile per effetto  di  un  atto  penalmente  illecito  e
l'indeducibilita' dei costi a detto illecito correlati,  non  avrebbe
omesso di richiamare almeno quella eccezione che - invece - e'  stata
espressamente formulata nel comma 4, a proposito dei  proventi  «gia'
sottoposti a sequestro o confisca penale». 
    Cio' posto,  e  ritenuto  pertanto  di  non  poter  aderire  agli
argomenti su cui e' fondata - in parte qua - la  pronuncia  di  primo
grado (cio' che peraltro e' in linea con la pregressa  giurisprudenza
di  questa  Commissione,  si  veda  la  sentenza  CTR  Veneto-sezione
staccata di Verona 112/21/10  in  data  30  settembre  2010,  ove  si
evidenzia chiaramente che non  rileva  -  ai  fini  dell'applicazione
della disposizione in esame - la distinzione tra  costi  direttamente
funzionali  alla  condotta   qualificabile   come   reato   e   costi
indirettamente funzionali e neppure  rileva  la  circostanza  che  il
recupero a tassazione dei predetti costi sia operato  ai  fini  delle
sole imposte dirette, mentre poi si prospetti un reato esclusivamente
correlato alla  violazione  della  specifica  disciplina  dettata  in
materia di IVA), a questa Commissione non.:testa  che  prendere  atto
della  rilevanza  ai  fini  di  causa  del  dubbio  di   legittimita'
costituzionale della norma, senza la soluzione  del  quale  non  pare
possibile giudicare sulla domanda proposta. 
    b) sulla rilevanza «in  concreto»  della  questione  prospettata,
anche alla luce del potere di accertamento incidentale del  fatto  di
reato. 
    Sempre in termini di rilevanza,  questa  Commissione  ritiene  di
dover evidenziare che - benche' nella specie di causa  risulti,  come
gia' si e' detto, che la Meneghello e' stata effettivamente  indagata
per reati commessi a mezzo  della  condotta  dianzi  descritta  -  e'
ragionevole ritenere che questo presupposto storico non  sia  neppure
imprescindibile, attesa la lettera della norma (che parla di  «fatti,
atti o attivita' qualificabili come reato»),  a  tenore  della  quale
appare competere alla potesta' del giudice tributario  l'accertamento
- incidenter tantum - della penale rilevanza del  fatto  presupposto,
anche alla luce della circostanza che -secondo l'assodato e  costante
indirizzo giurisprudenziale - l'accertamento del giudice  penale  non
fa' stato nel giudizio tributario, sicche' ancor meno puo'  farlo  (o
comunque costituire ragione di coazione delle libere valutazioni  del
giudice  a  questo  proposito  competente)  il   semplice   esercizio
dell'azione penale o la semplice trasmissione al P.M.  della  notizia
di reato. 
    Ne' e' possibile supporre che la  locuzione  finale  della  norma
(«fatto   salvo    l'esercizio    di    diritti    costituzionalmente
riconosciuti») possa essere intesa nel senso di un implicito richiamo
all'art. 27 comma 2 (l'imputato non  e'  considerato  colpevole  sino
alla condanna definitiva), con la conseguenza della impossibilita' di
fare   applicazione   della   indetraibilita'   (e   quindi   neanche
provvisoriamente o cautelarmente)  fino  al  passaggio  in  giudicato
della sentenza penale di condanna. 
    Invero, il presupposto di detta indetraibilita', come  si  desume
dal tenore complessivo  della  norma,  non  e'  affatto  la  condanna
adottata nel  processo  penale  (poiche',  altrimenti,  a  quella  il
legislatore si sarebbe  sin  dall'inizio  riferito)  ma  la  astratta
rilevanza penale della condotta finalizzata all'evasione dell'imposta
(ovviamente riguardata  anche  nell'ottica  del  necessario  elemento
psicologico, il  cui  accertamento  compete  -  non  meno  di  quello
materiale - al medesimo giudice tributario),  nel  mentre  i  diritti
costituzionalmente garantiti rilevano qui soltanto come  deroga  alla
disciplina che attribuisce all'amministrazione il potere di avvalersi
della declaratoria di indetraibilita' di singole poste di costo. 
    Cio'  posto,  nella  specie  di  causa  si   verte   nell'ipotesi
(riferibile alla disciplina dell'art. 2 del d.lgs. n.74 del 2000)  di
colui che si e' avvalso di fatture o altri documenti  per  operazioni
(soggettivamente) inesistenti,  mediante  indicazione  in  una  delle
inerenti dichiarazioni annuali,  onde  valorizzare  elementi  passivi
fittizi, con  conseguente  evasione  dell'IVA  o  delle  imposte  sui
redditi (circa gli esatti confini di applicazione  della  fattispecie
astratta qui in discorso si e' recentemente espressa Cass.  sez.  III
penale, 16 marzo 2010 n. 10394). 
    Non  di  meno  si  verte  anche  nell'ipotesi  (riferibile   alla
disciplina dell'art.8 del d.lgs. n.74  del  2000)  di  chi  emette  o
rilascia fatture o altri documenti per  operazioni  (soggettivamente)
inesistenti, al fine di consentire a terzi l'evasione  delle  imposte
sui redditi o sul valore aggiunto. 
    Ed infatti risulta che la Meneghello non ha solo registrato nella
propria contabilita' fatture (passive) utili alla  realizzazione  del
fine ultimo cui mirava il complesso  meccanismo  fraudolento,  ma  ha
anche a sua volta  emesso  fatture  (attive)  non  di  meno  utili  a
consentire che il complesso meccanismo trovasse un suo positivo esito
a mezzo  della  loro  registrazione  in  contabilita'  da  parte  del
cessionario dei beni. 
    Poiche' e' conclamata dalla espressa previsione dell'art.  l  del
d.lgs. n. 74 del  2000  la  penale  rilevanza  del  fatto  integrante
l'inesistenza "soggettiva" della fattura (almeno con  riferimento  al
sistema dell'IVA, ove l'evasione si configura anche  in  presenza  di
costi effettivamente sostenuti: in termini Cass.  sez.  V,  19.1.2010
n.735), e poiche' l'esistenza dell'elemento materiale delle anzidette
condotte  risulta  documentato  in  causa,  non  meno  dell'esistenza
dell'elemento psicologico (quest'ultimo  per  le  considerazioni  che
sono state dianzi fatte  a  proposito  della  impossibilita'  che  la
Meneghello non fosse consapevole  di  partecipare  ad  un  meccanismo
fraudolento) non vi e' ragione di  insistere  oltre  sulla  questione
della   sussistenza   del   presupposto   indefettibile    ai    fini
dell'applicazione dell'art. 14 comma 4-bis alla specie di causa. 
    b.1) Sull'illegittimita' per violazione degli art.3, 25, 27 e  97
della Carta Costituzionale. 
    Se  il  dubbio  di  legittimita'  costituzionale  si   palesa   -
ovviamente - nella considerazione delle aberranti conseguenze cui  da
luogo la applicazione della menzionata  norma  del  comma  4  bis  in
qualsivoglia fattispecie (cosi' che per effetto di  essa  si  finisce
per tassare una ricchezza inesistente, con inevitabile compromissione
dei fondamentali principi di rilevanza primaria) , cio' e' tanto piu'
evidente nella fattispecie qui concretamente in esame, nella quale si
tratta non gia' di recupero  di  utili  extrabilancio  e  percio'  di
diniego di detrazione di costi di cui e'  stata  omessa  la  regolare
contabilizzazione, ovvero di denegare la detraibilita' delle sanzioni
pecuniarie correlate alla commissione del reato, ma bensi'  di  costi
che direttamente funzionali alla creazione di ricavi e  percio'  (pro
quota) del reddito tassato. 
    Ed invero se non c'e' dubbio sul  fatto  che  il  costo  dell'IVA
versata  sulla  fattura  relativa   ad   operazione   soggettivamente
inesistente  puo'  correttamente  considerarsi  "non  inerente"  allo
svolgimento dell'attivita' istituzionale dell'impresa (ex art. 19 del
d.P.R. n. 633 del 1972) in quanto espressione  di  distrazione  verso
finalita' ulteriori e diverse, diversamente e' a dirsi per  cio'  che
concerne  i  costi  sostenuti  per   l'acquisto   delle   merci   che
costituiscono  l'oggetto  materiale  della  transazione   commerciale
perche' essi (sia pure sostanzialmente riferibili a soggetto  diverso
da  quello  che  appare  averli  sostenuti)  concorrono  comunque   a
determinare il reddito  complessivo  d'impresa,  e  percio'  la  base
imponibile ai fini dell'imposizione diretta, sulla scorta della quale
va parametrata la "capacita' contributiva" dell'imprenditore. 
    Orbene, in materia di imposte dirette la deviazione  rispetto  ai
canoni  generali  previsti  per  la  determinazione   dell'imponibile
fiscale  (eguale  rilevanza  dei  ricavi  e  dei  costi   fiscalmente
riconosciuti, sia che derivino da attivita' penalmente lecite che  da
attivita' penalmente illecite) e' stata da  piu'  parti  giustificata
con la necessita' di "amplificazione della sanzione" e percio' con la
previsione di una eccezionale  tecnica  di  tassazione  al  loro  dei
costi, anzicche' la netto. 
    Ma la postulata  "connotazione  sanzionatoria"  della  disciplina
(peraltro sempre lasciata  priva  di  -  attributi,  sicche'  non  si
intende se le sia attribuisca  natura,  penale,  .  amministrativa  o
tributaria) appare francamente non condivisibile, ad un piu'  attento
esame, non potendosi supporre -da una parte- che  possa  esistere  un
prelievo impositivo a titolo "sanzionatorio", per  la  contraddizione
stessa con le ragioni che ispirano l'imposizione tributaria,  che  e'
fondata sul principio della solidarieta'. 
    D'altra parte, neppure e' prospettabile  che  esista  nel  nostro
ordinamento  -improntato  al  principio  di  legalita',  inteso  come
tassativita-determinatezza    delle    norme     incriminatrici     e
sanzionatrici-  una  norma  sanzionatrice  (di  un   fatto   che   e'
caratterizzato dalla sua penale rilevanza) in cui  l'ammontare  della
sanzione (lato sensu pecuniaria) resta indeterminato sia  nel  minino
che  nel  massimo,  sicche'  poi  detto  ammontare  non  e'   neppure
proporzionato alla gravita' dell'illecito ma dipende da  fattori  del
tutto casuali, non ultimo il rapporto usuale tra costi e ricavi che -
settore per settore - risulta enormemente  variabile,  si'  che  (nel
complesso) la maggior  o  minor  incidenza  dell'indetraibilita'  dei
costi  finisce  per  essere  del  tutto  indipendente  dall'effettivo
ammontare dell'imposta evasa. 
    Su entrambi i punti appare dirimente (senza che si entri qui  nel
riepilogo analitico) la giurisprudenza della Corte costituzionale che
si e' venuta formando a far tempo da due emblematiche sentenze: 
        la n. 360  del  1995,  in  cui  e'  stato  a  chiare  lettere
affermato il principio secondo cui l'offensivita'  in  astratto  deve
essere   intesa   come   limite   di   rango   costituzionale    alla
discrezionalita' del  legislatore  in  materia  di  previsione  delle
fattispecie  penalmente  rilevanti,  ed  e'  stato   di   conseguenza
consacrato il principio secondo  cui  l'art.  25  della  Costituzione
postula un ininterrotto operare del  principio  di  offensivita'  dal
momento dell'astratta predisposizione della  norma  incriminatrice  a
quello della sua applicazione concreta  da  parte  del  giudice  (cui
compete soltanto di impedire, con  un  prudente  apprezzamento  della
lesivita' in concreto, una arbitraria e illegittima dilatazione della
sfera dei fatti da ricondurre al modello legale); 
        la n. 49 del 1989, nella quale la Corte ha affermato  che  le
valutazioni relative alla proporzione tra  la  pena  prevista  ed  il
fatto contemplato rientrano nell'ambito del potere discrezionale  del
legislatore, il cui esercizio puo' tuttavia essere censurato sotto il
profilo della legittimita' costituzionale, in rispetto agli  art.  3,
27 e 97 Cost., nei casi in cui non sia stato rispettato  il  criterio
di  ragionevolezza,  di  modo  che  la  sanzione  comminata   risulti
irrazionale ed arbitraria. 
    Non guasta infine rimarcare -  per  quanto  non  assuma  concreta
rilevanza nell'ottica della soluzione della lite  pendente  avanti  a
questa Commissione - che la  previsione  normativa  qui  in  discorso
appare anche in conflitto con  il  principio  di  personalita'  della
responsabilita' penale (art. 27 comma 1 Cost) nella parte in  cui  di
fatto determina una conseguenza  sanzionatoria  automatica  ed  anche
oggettiva (l'indetraibilita' dei costi) in  capo  agli  enti  persone
giuridiche, per  le  condotte  dei  propri  amministratori  o  legali
rappresentanti che abbiano realizzato condotte  penalmente  rilevanti
alle quali risultino riconducibili costi o spese di esercizio (almeno
nei limiti in cui - secondo l'indirizzo della prassi e della dottrina
meno rigoristica - le condotte  in  questione  risultino  rivolte  ad
obbiettivo vantaggio dell'ente persona giuridica). 
    Si conclude percio'  nel  senso  che  -  anche  a  voler  seguire
l'indirizzo  che  ritiene  che  la  disciplina  qui  in  esame  possa
considerarsi non confliggente con l'art.53 della Costituzione, attesa
la  sua   natura   di   norma   sanzionatrice-appare   comunque   non
manifestamente infondato il  dubbio  che  essa  disciplina  entri  in
conflitto con gli art.3, 25, 27  e  97  della  Carta  Costituzionale,
sicche' - in denegata ipotesi  -  occorre  prospettare  anche  questo
profilo di illegittimita' costituzionale. 
    b.2) Sull'illegittimita' per violazione dell'art. 53 della  Carta
Costituzionale. 
    La tassazione al  lordo  di  peculiari  categorie  di  costi  del
reddito (quale che ne sia la categoria,  alla  luce  dell'elencazione
contenuta nell'art. 6 comma 1 del T.U. n.917 del 1986) appare insomma
confliggere apertamente con  i  principi  generali  che  regolano  le
imposte  sui  redditi  e  deve  essere  considerata  una   disciplina
apertamente derogatoria di detti principi. Ed in specie del principio
di neutralita' fiscale, il quale  imporrebbe  la  deduzione  di  ogni
costo correlato alla produzione di proventi di ogni genere, leciti od
illeciti che essi siano, nel mentre invece la  norma  qui  in  parola
prescrive la indeducibilita'  generale  dei  costi  correlati  ad  un
reato, pur prevedendosi invece nel comma 4  dell'art.  14  menzionato
che siano soggetti a tassazione i proventi rinvenienti dalle medesime
attivita' penalmente illecite. 
    Ma una siffatta deroga  agli  ordinari  principi  in  materia  di
tassazione   non   sembra   possa    rientrare    nell'alveo    della
discrezionalita' concessa al legislatore dalla  Carta  costituzionale
ed  in  particolare  dall'art.  53,   giacche'   determina   evidente
alterazione dei criteri normativi di quantificazione  del  tributo  a
mezzo di una irragionevole amplificazione della base imponibile. 
    Ne consegue che vengono ad essere assoggettate ad  imposta  somme
che non sono espressione della capacita'  contributiva  dell'impresa,
cioe' di quella potenzialita' economica cui deve  essere  commisurato
il prelievo fiscale, e che vengono incluse  nel  reddito  imponibile,
sommate alle componenti positive, ivi compresi i  proventi  derivanti
dalle stesse attivita' penalmente  rilevanti  cui  si  riferiscono  i
costi indeducibili. 
    Ne rimane violato il principio  di  necessaria  correlazione  tra
imposizione e  capacita'  contributiva,  il  quale  non  puo'  essere
scardinato e reso  inefficace  a  mezzo  della  ridefinizione  di  un
concetto di' "inerenza" in termini eticamente orientati, e  cioe'  in
termini tali che sia da considerare - per presunzione  assoluta-  non
inerente alla stessa attivita'  di  (lecito)  esercizio  dell'impresa
tutto cio' che si correli alla commissione di un reato. 
    Poiche' invece e' comune avviso che il concetto di  inerenza  dei
costi e' . mediato  dal  riferimento  all'oggetto  dell'attivita'  di
impresa, e non si qualifica nella correlazione diretta tra  ricavi  e
costi  (dei  quali  sarebbe   impossibile   predicare   una   diretta
"utilita'", se essi non fossero rapportati all'oggetto dell'attivita'
espletata), non e' da credere che anche i costi correlati ad un fatto
di reato non corrispondano al «proprium» del concetto di inerenza. 
    E d'altronde, se l'antigiuridicita'  (sia  penale  che  di  altro
genere) non equivale ad irrilevanza tributaria dei redditi che se  ne
ricavano, altrettanto dovrebbe affermarsi per il componente  negativo
illecito  o  derivante   da   atto   illecito,   giacche'   anch'esso
determinante ai fini, del complessivo risultato d'esercizio. 
    Insomma, solo in un ambito estraneo al sistema  fiscale  potrebbe
giustificarsi l'indifferenza al principio  dell'art.53  Cost.,  ma  a
condizione che ne sussistano le necessarie coperture  costituzionali,
le quali ultime - invece - questa Commissione suppone  mancanti,  per
come si e' detto nel capo relativo  all'analisi  della  questione  di
costituzionalita'  riferita   alla   natura   "sanzionatoria"   della
disciplina qui in esame. 
    Rimanendo  nell'alveo  del  sistema  propriamente  fiscale  -  in
difetto di una esplicita indicazione di estraneita' ad esso  che  sia
desumibile direttamente dalla fonte normativa - le ragioni di  genere
latu sensu etico o di prevenzione generale ovvero ancora di  recupero
di base imponibile che e'  possibile  supporre  che  presiedano  alla
scelta legislativa non appaiono giustificare il vulnus  al  principio
fondamentale di garanzia previsto dall'art. 53 Cost. 
    Ed infatti la Corte costituzionale, con la sentenza 103 del  1967
ebbe modo di dichiarare (in materia non dissimile da  quella  qui  in
esame) la illegittimita' costituzionale dell'art.  22,  comma  primo,
del d.P.R. 5 luglio 1951, n. 573, per violazione dell'art. 53  Cost.,
nella parte in cui detta norma, per l'ipotesi di omessa dichiarazione
dei redditi soggetti alle imposte dirette, disponeva la maggiorazione
del 10  per  cento  per  i  redditi  mobiliari  dichiarati  nell'anno
precedente,  e  cio'  con  l'argomento  che  «la  pura   e   semplice
considerazione di un presumibile  ulteriore  sviluppo  dell'attivita'
del contribuente con conseguente aumento del reddito  e'  inidonea  a
legittimare  la  maggiorazione  in  esame  poiche'  nessun   elemento
concreto o indice positivo puo' essere posto  a  suo  fondamento.  La
norma denunciata preclude  al  contribuente  di  dimostrare  di  aver
realizzato un reddito inferiore a quello iscritto a ruolo ed  e'  del
tutto irrazionale estendere tale preclusione all'aumento del  10  per
cento». 
    Vi  e'  quindi  senz'altro  un  limite   di   razionalita'   alla
discrezionalita' del legislatore nel  campo  tributario,  limite  che
positivamente si invera  nel  precetto  dell'art.53  Cost.,  e  detto
limite non puo' non operare anche  con  riferimento  alla  necessaria
rilevanza (in un quadro di determinazione analitica  dell'imponibile)
di gli elementi negativi del reddito, allorquando  essi  generano  un
reddito positivo che resta concretamente sottoposto a tassazione. 
    In conclusione, appare non manifestamente infondato il dubbio che
la norma dell'art.14 comma 4-bis della legge n. 537 dei  24  dicembre
1993 possa collidere con i dianzi  richiamati  articoli  della  Carta
Costituzionale, e cioe' gli art. 3, 25, 27, 53 e 97 (per  le  ragioni
che sono state dianzi analizzate) sicche'  si  impone  la  rimessione
della questione alla Corte costituzionale, affinche' ne verifichi  la
fondatezza.