Sentenza 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 297,  comma
3, del codice di procedura penale promosso dalla Corte di  cassazione
nel procedimento penale  a  carico  di  B.M.  con  ordinanza  del  26
novembre 2010, iscritta al  n.  30  del  registro  ordinanze  2011  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale  della  Repubblica  n.  9,  prima
serie speciale, dell'anno 2011. 
    Udito nella camera di consiglio del 22  giugno  2011  il  Giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    Con ordinanza  depositata  il  26  novembre  2010,  la  Corte  di
cassazione, prima sezione penale, ha sollevato, in  riferimento  agli
artt. 3, 13, quinto comma, e 27, secondo comma,  della  Costituzione,
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 297, comma 3,  del
codice  di  procedura  penale,  nella  parte   in   cui   -   secondo
l'interpretazione datane dalle Sezioni unite della  stessa  Corte  di
cassazione, qualificabile come  «diritto  vivente»  -  «impedisce  la
retrodatazione della custodia cautelare in carcere nelle  ipotesi  in
cui per i fatti contestati nella prima ordinanza l'imputato sia stato
condannato con sentenza passata in giudicato,  prima  della  adozione
della seconda misura». 
    Il  Collegio  rimettente  riferisce,  in  punto  di  fatto,   che
l'imputato ricorrente nel giudizio principale era stato raggiunto  da
due  ordinanze  applicative  della  custodia  cautelare,  emesse  dal
Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano «in [...]
solo  apparentemente,  in  una   prospettiva   diacronica,   distinti
procedimenti». La prima ordinanza -  emessa  il  18  maggio  2008  ed
eseguita il 20 maggio 2008 - atteneva a un delitto  di  detenzione  e
spaccio, in concorso, di sostanza stupefacente, commesso  nei  giorni
30 settembre e 1° ottobre 2006: reato per  il  quale  l'imputato  era
stato condannato, a seguito di giudizio abbreviato, alla pena di  sei
anni e otto mesi di reclusione con sentenza del  16  settembre  2008,
passata  in  giudicato  in  difetto  di  impugnazione.   La   seconda
ordinanza, del 24 settembre 2009 ed eseguita il 14 ottobre 2009,  era
stata emessa nello  stesso  procedimento,  proseguito  nei  confronti
degli imputati - alcuni dei quali concorrenti con  l'interessato  nel
reato che aveva dato luogo all'applicazione della prima  misura  -  e
atteneva a ulteriori  fatti  di  detenzione  e  spaccio  di  sostanze
stupefacenti,  nonche'  alla  partecipazione   a   una   associazione
finalizzata al loro commercio: reati  commessi  nel  corso  dell'anno
2006 e fino al gennaio 2007. 
    In relazione alla custodia cautelare applicata con  tale  seconda
ordinanza,  l'imputato  aveva  quindi  presentato  una   istanza   di
scarcerazione per decorrenza dei termini di durata massima  di  fase,
basata sul disposto dell'art. 297, comma 3, cod. proc. pen. , in tema
di cosiddette contestazioni a catena: norma in forza della quale, «se
nei  confronti  di  un  imputato  sono  emesse  piu'  ordinanze   che
dispongono  la  medesima  misura  per  uno  stesso   fatto,   benche'
diversamente circostanziato o qualificato, ovvero per  fatti  diversi
commessi anteriormente  alla  emissione  della  prima  ordinanza,  in
relazione ai quali sussiste connessione ai  sensi  dell'articolo  12,
comma 1, lettera b) e c), limitatamente ai casi di reati commessi per
eseguire gli altri, i termini decorrono dal giorno in  cui  e'  stata
eseguita  o  notificata  la  prima  ordinanza  e   sono   commisurati
all'imputazione piu'  grave».  Secondo  la  difesa,  nell'ipotesi  di
specie  avrebbero  dovuto   ravvisarsi   tutti   i   presupposti   di
operativita' della previsione normativa considerata, giacche' i fatti
oggetto  della  seconda  ordinanza  cautelare  erano  stati  commessi
anteriormente all'emissione del primo  provvedimento  restrittivo  ed
erano, altresi', legati da connessione qualificata al fatto con  esso
contestato. 
    Contro il provvedimento del Giudice per le indagini  preliminari,
di rigetto dell'istanza, l'interessato aveva  proposto  appello,  che
era stato a sua volta respinto dal Tribunale di Milano con  ordinanza
del 6 maggio 2010, sul rilievo - reputato assorbente - della  carenza
del  presupposto  di   operativita'   dell'invocato   meccanismo   di
retrodatazione, costituito dalla coesistenza  delle  due  misure.  Il
Tribunale aveva fatto, in  particolare,  applicazione  del  principio
affermato dalle Sezioni  unite  della  Corte  di  cassazione  con  la
sentenza 24 aprile 2009-18 maggio 2009, n. 20780, in forza del  quale
la disciplina dettata dalla norma censurata non opera qualora -  come
nel caso di specie -  per  i  fatti  oggetto  della  prima  ordinanza
cautelare, l'imputato sia stato condannato con  sentenza  passata  in
giudicato anteriormente all'emissione della seconda ordinanza. 
    Avverso la decisione l'imputato aveva  proposto  il  ricorso  per
cassazione di cui la Corte rimettente  e'  investita,  assumendo  che
l'art. 297, comma 3, cod. proc. pen. ,  nella  lettura  datane  dalle
Sezioni  unite,  violerebbe  la  ratio  di  garanzia   sottesa   alla
disposizione, legittimando  l'arbitrio  del  pubblico  ministero  nel
ritardare  la  richiesta  della  successiva  ordinanza  cautelare   e
determinando, cosi',  irragionevoli  disparita'  di  trattamento  tra
imputati in eguale situazione. 
    Tutto  cio'  Premesso,  la  Corte  rimettente  Osserva  come   il
principio  affermato  dalle  Sezioni  unite  nella  sentenza   dianzi
richiamata costituisca «diritto  vivente»:  con  la  conseguenza  che
l'ordinanza impugnata, che ad esso si e'  adeguata,  dovrebbe  essere
confermata. 
    Il giudice a quo dubita, tuttavia, sotto plurimi  profili,  della
legittimita' costituzionale della norma censurata,  quale  risultante
alla luce della predetta interpretazione. 
    Essa contrasterebbe, anzitutto, con  l'art.  3  Cost.,  generando
irragionevoli disparita' di trattamento tra situazioni  omologhe.  Ne
sarebbe dimostrazione eloquente la vicenda  oggetto  del  giudizio  a
quo, in cui, nell'ambito di un unico procedimento originario, per  il
primo reato contestato al ricorrente era intervenuto,  a  seguito  di
giudizio abbreviato, il giudicato di condanna; mentre il procedimento
era proseguito sia nei confronti dei coimputati nel  medesimo  reato,
sia in rapporto a  ulteriori  reati,  successivamente  contestati  al
ricorrente, sempre in concorso con altre persone. Con la  irrazionale
conseguenza che i coimputati, i quali avevano proseguito il  giudizio
ordinario,   avevano   maturato,   grazie   al    meccanismo    della
retrodatazione, il diritto  alla  scarcerazione  per  decorrenza  dei
termini in rapporto ad ogni imputazione; mentre il ricorrente  -  che
aveva optato per il giudizio abbreviato, senza poi nemmeno  impugnare
la sentenza di condanna - era rimasto detenuto per i reati contestati
successivamente.   Cio',   pur   trattandosi   di   fatti    commessi
anteriormente alla prima ordinanza cautelare, avvinti da  connessione
qualificata al reato con questa contestato e addirittura  conoscibili
sulla  base  degli  atti  originariamente  acquisiti  (essendo  stati
desunti  -   secondo   le   deduzioni   difensive,   non   contestate
dall'ordinanza impugnata - da intercettazioni telefoniche cessate nel
gennaio 2007). 
    Risulterebbe leso, in secondo luogo,  l'art.  13,  quinto  comma,
Cost.,  giacche'  l'inserimento,  tra  gli  elementi  ostativi   alla
scarcerazione, di un evento, quale il passaggio  in  giudicato  della
sentenza di condanna per il reato contestato con la  prima  ordinanza
cautelare,  violerebbe  la  regola   costituzionale   -   debitamente
valorizzata dalla giurisprudenza di questa Corte  -  in  forza  della
quale  la  durata  massima  della  custodia  cautelare  deve   essere
determinata dal legislatore, e non dipendere da iniziative, dolose  o
colpose, del pubblico ministero, ovvero  da  circostanze  accidentali
estranee  alle  esigenze  di  garanzia   della   liberta'   personale
dell'imputato nel corso del processo  (quali  la  colpa  del  giudice
nella conoscenza degli atti processuali, l'eccessivo carico di lavoro
gravante sugli uffici, le loro disfunzioni o la loro efficienza). 
    L'avere stabilito che la formazione del giudicato  in  ordine  al
primo reato in connessione qualificata fa venire meno  la  condizione
di operativita' della retrodatazione, costituita dalla contestualita'
delle  misure,  rifletterebbe,  d'altra  parte,  una  concezione  del
giudicato ormai superata dagli sviluppi della legislazione. Lungi dal
cristallizzare in modo definitivo la  situazione  processuale,  anche
con riferimento alla pena inflitta,  il  giudicato  sarebbe  divenuto
ormai «permeabile», tanto da poter essere modificato  e  «ridotto»  a
fronte di eventi successivi, quale, in particolare, il riconoscimento
della continuazione tra il reato gia' giudicato e altro «sub iudice». 
    In  questa   prospettiva,   la   sopravvenienza   del   giudicato
relativamente al reato oggetto della prima  ordinanza  cautelare  non
avrebbe  alcun  significato  rilevante,  tale  da   giustificare   il
depotenziamento della ratio di garanzia sottesa alla disciplina della
retrodatazione, la cui applicazione non sopporterebbe limitazioni che
non  si  connettano  a  interessi   di   pari   o   superiore   rango
costituzionale.  Conclusione,  questa,  condivisa  anche  da   alcune
pronunce della stessa Corte di cassazione, sia pure in rapporto  alla
diversa  fattispecie  del   giudicato   intervenuto   successivamente
all'emissione della seconda ordinanza cautelare. 
    La norma censurata violerebbe, da ultimo, la presunzione  di  non
colpevolezza, sancita dall'art. 27, secondo comma, cost.  Attribuendo
al  giudicato  formatosi  in  relazione  a  uno  solo  dei  reati  in
connessione qualificata un effetto ostativo alla  retrodatazione,  si
correrebbe, infatti, il rischio di imputare l'esecuzione della  pena,
in corso per il reato gia' giudicato, ove questo  sia  meno  grave  -
stante la piu' che probabile riduzione conseguente al  riconoscimento
del nesso della continuazione - alla pena conseguente ai  reati  piu'
gravi  oggetto  della  seconda  ordinanza  cautelare  e   ancora   da
giudicare: sicche', in pratica, l'imputato sconterebbe una  pena  per
reati relativamente ai quali non e' ancora intervenuta  una  sentenza
definitiva. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. - La Corte di cassazione, prima sezione penale,  dubita  della
legittimita' costituzionale dell'art. 297, comma  3,  del  codice  di
procedura penale, nella parte  in  cui  -  secondo  l'interpretazione
accolta  dalle  Sezioni  unite  della  stessa  Corte  di  cassazione,
qualificabile come «diritto vivente» - «impedisce  la  retrodatazione
della custodia cautelare in carcere nelle ipotesi in cui per i  fatti
contestati nella prima ordinanza l'imputato sia stato condannato  con
sentenza passata in giudicato, prima  della  adozione  della  seconda
misura». 
    Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata, intesa  in  tali
termini,  violerebbe,  anzitutto,  l'art.   3   della   Costituzione,
determinando  una  irragionevole   disparita'   di   trattamento   di
situazioni eguali. In particolare, i coimputati dei medesimi reati si
vedrebbero negato o riconosciuto il  diritto  alla  scarcerazione,  a
seconda che nei loro confronti si sia formato o meno il giudicato sui
fatti oggetto della prima ordinanza  cautelare,  col  risultato,  tra
l'altro, di penalizzare coloro che abbiano scelto riti alternativi  e
omesso di impugnare la sentenza di condanna. 
    Sarebbe leso, altresi', l'art. 13, quinto comma, Cost.,  giacche'
l'attribuzione  al  giudicato  sui  fatti  contestati  con  la  prima
ordinanza di un effetto ostativo alla  retrodatazione  violerebbe  la
regola  che  vuole  i  termini  massimi  della   custodia   cautelare
predeterminati dal  legislatore,  e  non  dipendenti  da  iniziative,
dolose o colpose,  del  pubblico  ministero,  ovvero  da  circostanze
accidentali  estranee  alle  esigenze  di  garanzia  della   liberta'
personale dell'imputato nel corso del processo. 
    La norma denunciata si porrebbe in contrasto, da ultimo,  con  la
presunzione di non colpevolezza, sancita dall'art. 27, secondo comma,
Cost.: presunzione che rischierebbe  di  essere  elusa,  ove  risulti
prevedibile che la pena definitiva in corso di esecuzione -  relativa
ai reati meno gravi contestati con la  prima  ordinanza  cautelare  -
dovra' essere imputata, in forza del vincolo della continuazione  con
i reati  piu'  gravi  ancora  da  giudicare,  oggetto  della  seconda
ordinanza, alla pena conseguente al futuro giudicato di condanna  per
questi ultimi. 
    2. - In riferimento agli artt. 3 e 13, quinto  comma,  Cost.,  la
questione e' fondata, nei termini di seguito specificati. 
    3. - Il quesito di costituzionalita' sottoposto  all'esame  della
Corte investe la disciplina delle cosiddette contestazioni a  catena:
disciplina  che  -  raccordandosi  in  modo  diretto   ai   parametri
costituzionali  ora  evocati  -   trova   la   sua   ratio   fondante
nell'esigenza di evitare che prassi artificiose o  colpevoli  inerzie
dell'autorita' giudiziaria possano incidere in senso  negativo  sulla
permanenza in vinculis dell'imputato, determinando uno spostamento in
avanti del dies a quo per il computo dei termini  massimi  di  durata
delle misure cautelart. 
    Giova, al riguardo, ricordare come,  nel  vigore  del  codice  di
procedura penale del 1930 - che ignorava, in origine, il  fenomeno  -
fosse stata la giurisprudenza di legittimita' ad  enucleare,  in  via
interpretativa, eccezioni al principio  di  autonoma  decorrenza  dei
termini in rapporto  a  ciascun  titolo  custodiale,  finalizzate  ad
arginare possibili fenomeni elusivi. Si era ritenuto, in particolare,
che nel caso in cui una persona risultasse colpita da una  pluralita'
di  provvedimenti  cautelari,  la  colpevole  inerzia  dell'autorita'
giudiziaria nell'adottare i provvedimenti successivi al  primo,  e  a
maggior ragione l'artificioso ritardo nelle nuove contestazioni,  non
potessero dar luogo a un prolungamento della  custodia:  dovendo,  in
tal caso, operare una regola di retrodatazione, in forza della  quale
i termini di durata delle misure successive  andavano  computati  dal
momento di esecuzione del primo provvedimento. 
    Detto orientamento giurisprudenziale trovava  una  eco  normativa
dapprima nell'art. 2 della legge 28 luglio 1984, n. 398 (Nuove  norme
relative alla diminuzione dei termini  di  carcerazione  cautelare  e
alla concessione della liberta' provvisoria), che  sostituiva  l'art.
271 del codice di rito del 1930; indi nell'originario art. 297, comma
3,   del   codice   vigente,   sostanzialmente   riproduttivo   della
disposizione ora citata, e, infine, nell'art. 12 della legge 8 agosto
1995, n. 332 (Modifiche al codice di  procedura  penale  in  tema  di
semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di
difesa), che ha sostituito, ampliandone la portata, detto  art.  297,
comma 3. 
    La regolamentazione legislativa del fenomeno -  pur  partecipando
della medesima ratio - si e'  posta,  peraltro,  in  una  prospettiva
differenziata,  quanto   a   meccaniche   di   intervento,   rispetto
all'indirizzo giurisprudenziale dianzi ricordato. In luogo, cioe', di
far perno sulla  rimproverabilita'  all'autorita'  giudiziaria  della
frammentazione temporale delle misure, il  legislatore  ha  preferito
individuare  talune  relazioni  tra  i  reati  oggetto  dei   plurimi
provvedimenti cautelari, reputandole di per se' giustificative  della
retrodatazione dei termini. In particolare, il nuovo testo  dell'art.
297, comma 3, cod. proc. pen. introdotto dalla legge n. 332 del  1995
rende  applicabile  detta  disciplina  -  oltre  che  alle  ordinanze
cautelari  emesse  «per  uno  stesso  fatto»,  benche'  «diversamente
circostanziato o qualificato»  -  anche  alle  ordinanze  emesse  per
«fatti diversi», laddove si tratti di  fatti  commessi  anteriormente
all'emissione della prima ordinanza  e  sempre  che  tra  gli  stessi
intercorra   una   connessione   qualificata    (concorso    formale,
continuazione o connessione teleologica). 
    Alla luce di una lettura ormai  consolidata,  in  presenza  delle
condizioni ora ricordate  la  retrodatazione  opera  automaticamente:
senza, cioe', che occorra accertare che i fatti oggetto  del  secondo
provvedimento  cautelare  fossero  desumibili  dagli  atti  acquisiti
dall'autorita' giudiziaria  al  momento  dell'emissione  della  prima
ordinanza e, tanto meno, che dagli  atti  emergessero  elementi  gia'
idonei a giustificare l'adozione della misura cautelare. 
    Si tratta di soluzione che questa Corte ha  giudicato  del  tutto
ragionevole, in quanto sorretta dal preminente intento «di comprimere
entro  spazi  sicuri  il  termine  di  durata  massima  delle  misure
cautelari, in perfetta aderenza con  quanto  previsto  dall'art.  13,
ultimo comma, della Carta fondamentale». Obiettivo,  questo,  con  il
quale non puo' «ritenersi incoerente [...] la scelta  di  individuare
alcune  ipotesi  che,  piu'  di   altre,   presentano   elementi   di
correlazione contenutistica  di  spessore  tale  da  consentirne  una
valutazione unitaria agli effetti del trattamento cautelare», secondo
una prospettiva volta ad «impedire che, nel corso delle indagini,  le
contestazioni cautelari  plurime  per  fatti  connessi  ammettano  un
diverso trattamento sul piano della durata delle misure a seconda che
l'indagato riesca o meno a provare l'artificiosa diluizione nel tempo
delle singole ordinanze» (sentenza n. 89 del 1996; in senso conforme,
ordinanze n. 20 del 1999, n. 349 e n. 221 del 1996). 
    Secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza di legittimita'  (si
veda, in particolare, la sentenza delle Sezioni unite della Corte  di
cassazione 22 marzo 2005-10 giugno 2005, n. 21957),  tale  disciplina
opera non soltanto quando le ordinanze cautelari siano  emesse  nello
stesso procedimento, ma anche quando -  come  nel  caso  oggetto  del
giudizio  a  quo  (a  seguito  della  intervenuta   separazione   dei
procedimenti)  -  le   misure   vengano   adottate   nell'ambito   di
procedimenti  distinti.  Cio',  a  evitare  che  la  separazione  dei
procedimenti si traduca in un meccanismo elusivo:  prospettiva  nella
quale, peraltro, l'operativita' della regola di computo  dei  termini
di cui  si  discute  resta  subordinata  all'ulteriore  condizione  -
stabilita dal secondo periodo dello stesso art. 297,  comma  3,  cod.
proc. pen. - che i fatti  oggetto  del  diverso  procedimento  e  del
secondo titolo custodiale risultino desumibili dagli atti  prima  del
rinvio a giudizio per i fatti contestati con la prima  ordinanza  (in
caso contrario, infatti, lo  svolgimento  separato  dei  procedimenti
dovrebbe ritenersi imposto da ragioni oggettive). 
    Dopo la  novellazione  operata  dalla  legge  n.  332  del  1995,
rimaneva,  per  converso,  incerto  il   trattamento   da   riservare
all'ipotesi  -  non  regolata  dalla  legge  -  in  cui   i   plurimi
provvedimenti cautelari riguardassero reati non uniti da un  rapporto
di connessione qualificata. A fronte della formazione di un indirizzo
giurisprudenziale contrario all'operativita' della retrodatazione  in
tale ipotesi -  il  quale,  benche'  successivamente  smentito  dalle
Sezioni unite della Corte di  cassazione  (si  veda  la  gia'  citata
sentenza 22 marzo 2005-10 giugno 2005, n. 21957), vincolava, nel caso
di specie, i giudici rimettenti quale principio di diritto  enunciato
in  sede  di  rinvio  -   questa   Corte   interveniva,   dichiarando
costituzionalmente illegittimo l'art. 297, comma 3, cod. proc. pen. ,
«nella parte in  cui  non  si  applica  anche  a  fatti  diversi  non
connessi, quando risulti che  gli  elementi  per  emettere  la  nuova
ordinanza erano gia' desumibili dagli atti al momento della emissione
della precedente ordinanza» (sentenza n. 408 del 2005). 
    La Corte rilevava come, nell'evenienza ora indicata, nella  quale
la  diluizione   temporale   delle   misure   risulta   concretamente
ascrivibile a  scelte  o  a  negligenze  dell'autorita'  giudiziaria,
l'esclusione della retrodatazione dei termini di  durata  resti  «del
tutto ingiustificata». In un contesto normativo attento  a  calibrare
l'intera disciplina dei termini di  durata  delle  misure  limitative
della liberta' personale sulla falsariga dei valori della adeguatezza
e proporzionalita', infatti, «nessuno spazio puo' residuare  in  capo
agli organi titolari del potere cautelare di scegliere il  momento  a
partire dal quale possono essere fatti decorrere i termini custodiali
in caso di pluralita'  di  titoli  e  di  fatti  reato  cui  essi  si
riferiscono. Se dunque il legislatore, in  perfetta  aderenza  con  i
valori di certezza e di durata minima della  custodia  cautelare  (v.
art. 13, primo ed ultimo comma,  Cost.,  nonche'  art.  5,  comma  3,
Convenzione europea dei diritti  dell'uomo),  ha  ritenuto  di  dover
stabilire [...] meccanismi legali di  retrodatazione  automatica  dei
termini, in presenza di certe condizioni,  nel  caso  in  cui  tra  i
diversi titoli sussista l'indicato nesso di connessione  qualificata,
a fortiori l'identico regime di garanzia dovra' operare  in  tutti  i
casi in cui, pur potendo i diversi  provvedimenti  coercitivi  essere
adottati  in  un  unico  contesto  temporale,  per  qualsiasi   causa
l'autorita' giudiziaria abbia invece prescelto  momenti  diversi  per
l'adozione delle singole ordinanze». In simile evenienza, difatti, la
durata della custodia viene a dipendere «non da  un  fatto  obiettivo
(rispettoso,   dunque,   del   canone   dell'uguaglianza   e    della
ragionevolezza), quale quello dell'acquisizione di elementi idonei  e
sufficienti per adottare i diversi provvedimenti cautelari, ma da una
imponderabile valutazione soggettiva degli organi titolari del potere
cautelare». 
    4. - Cio' Premesso, nell'odierno frangente viene  in  rilievo  un
ulteriore profilo problematico del  fenomeno:  quello,  cioe',  delle
interferenze tra la disciplina delle  contestazioni  a  catena  e  il
giudicato di condanna formatosi in  rapporto  ai  reati  oggetto  del
primo provvedimento cautelare. 
    Come si ricorda nell'ordinanza di rimessione, il tema ha  formato
oggetto  di  una  pronuncia  delle  Sezioni  unite  della  Corte   di
cassazione,  la  quale  -  dirimendo  il   pregresso   contrasto   di
giurisprudenza, nel senso dell'adesione all'indirizzo  in  precedenza
maggioritario - ha individuato nella formazione di  detto  giudicato,
se anteriore alla data di adozione della seconda ordinanza cautelare,
un elemento preclusivo implicito all'operativita' della disciplina in
questione (sentenza 23 aprile 2009-18 maggio 2009, n. 20780). Secondo
la citata decisione, infatti, la  sentenza  definitiva  di  condanna,
determinando la cessazione della  prima  vicenda  cautelare  (cui  si
sostituisce l'espiazione della pena inflitta)  ancora  prima  che  si
innesti la seconda,  esclude  eo  ipso  la  configurabilita'  di  una
situazione di «coesistenza» tra plurime misure. Situazione, che  deve
considerarsi, di  contro,  presupposta  ai  fini  dell'applicabilita'
della regola stabilita dalla disposizione censurata, alla luce di  un
complesso di argomenti, a cominciare da quello letterale: l'art. 297,
comma 3, cod. proc. pen.  -  rivolgendosi  all'«imputato»  e  facendo
riferimento all'«imputazione» piu'  grave,  quale  parametro  per  la
commisurazione dei termini cautelari - mostra, infatti, di richiedere
l'attuale pendenza dei procedimenti e la contestualita' temporale tra
le ordinanze concatenate. 
    Al  principio  ora  ricordato  si  e'  conformata  la  successiva
giurisprudenza di legittimita': il che consente  di  parlare  di  una
lettura, allo stato, consolidata della norma sottoposta a scrutinio. 
    5. - Questa Corte e' chiamata quindi a verificare  se  l'indicata
preclusione all'operativita' del regime  della  retrodatazione  possa
ritenersi conforme ai parametri evocati dal giudice a quo. 
    Al riguardo, e' opportuno ribadire e sottolineare come il  nucleo
di disvalore  del  fenomeno  delle  contestazioni  a  catena  risieda
nell'impedimento, ad esso conseguente, al contemporaneo  decorso  dei
termini relativi  a  plurimi  titoli  custodiali  nei  confronti  del
medesimo soggetto. Il ritardo nell'adozione della  seconda  ordinanza
cautelare non vale, ovviamente, a  prolungare  i  termini  di  durata
massima della prima misura - essendo gli  stessi  predeterminati  per
legge, ai sensi dell'art. 303 cod. proc. pen. -  ma,  in  difetto  di
adeguati correttivi, avrebbe l'effetto di  espandere  la  restrizione
complessiva della liberta' personale dell'imputato, tramite il cumulo
materiale - totale o parziale - dei periodi  custodiali  afferenti  a
ciascun  reato.  Cio',  col  risultato  di  porre  l'interessato   in
situazione  deteriore  rispetto  a  chi,  versando   nella   medesima
situazione  sostanziale,  venga  invece  raggiunto  da  provvedimenti
cautelari coevi,  e  di  rendere,  al  tempo  stesso,  aggirabile  la
predeterminazione legale dei termini di durata massima delle  misure,
imposta dall'art. 13, quinto comma, cost. Ed e' questo l'effetto  che
la disciplina dettata dall'art. 297, comma 3, cod. proc. pen. , quale
integrata dalla citata sentenza di questa Corte n. 408 del 2005, mira
a prevenire: in termini rigidi e di protezione avanzata, quando tra i
reati contestati con i provvedimenti cautelari  sequenziali  sussista
un  legame  contenutistico  di  particolare  spessore,  quale  quello
espresso dalla identita' del fatto o dalla  connessione  qualificata;
ovvero    subordinatamente    alla    concreta     verifica     della
rimproverabilita' del ritardo all'autorita' giudiziaria,  in  assenza
di quel legame. 
    Se cosi' e', non  si  puo'  peraltro  ritenere  che  -  in  linea
generale - la «coesistenza» tra le misure cautelari rappresenti,  sul
piano  logico-giuridico,  un  presupposto  necessario  affinche'   si
producano   le   conseguenze   lesive   che   il   meccanismo   della
retrodatazione tende a scongiurare. Il vulnus  arrecato  ai  principi
costituzionali  che  presiedono  alla   disciplina   della   liberta'
personale dell'imputato  e',  anzi,  maggiore  allorche'  la  seconda
ordinanza cautelare intervenga  dopo  che  la  prima,  per  qualunque
ragione, ha cessato di produrre  i  suoi  effetti.  Il  prolungamento
della restrizione della liberta' personale risulta, infatti,  massimo
allorche' il secondo titolo - anziche' sovrapporsi,  per  un  periodo
piu' o meno lungo, al primo, confluendo, cosi', almeno in  parte,  in
un unico periodo custodiale - sia adottato quando  il  precedente  ha
gia' esaurito completamente le  sue  potenzialita',  con  conseguente
cumulo  integrale  dei  due  periodi  di  privazione  della  liberta'
personale. 
    Altrettanto  evidente  e'   l'irrilevanza,   sotto   il   profilo
considerato, dello iato temporale che eventualmente intercorra tra la
cessazione degli effetti della prima misura  e  l'applicazione  della
seconda. Per quanto ampio, esso non elide la  circostanza  che  a  un
periodo  di  custodia  cautelare  -  magari  interamente  patito  per
scadenza del termine finale - se ne sommi  successivamente  un  altro
che - alla luce della regola legale di retrodatazione -  non  sarebbe
dovuto  affatto  iniziare  o,  comunque,  avrebbe  avuto  una  durata
inferiore a quella consentita dai normali criteri di  computo.  Unica
conseguenza  della  mancanza  di  continuita'  tra   le   misure   e'
l'assolutamente ovvia impossibilita' di tenere conto del periodo  nel
quale il soggetto  e'  tornato  in  liberta',  nella  verifica  della
scadenza dei termini della custodia. 
    6. - La conclusione - per il profilo  che  qui  interessa  -  non
muta, peraltro, neppure quando l'evento che determina  la  cessazione
della  prima  vicenda  cautelare  sia  costituito  dal  passaggio  in
giudicato della sentenza di  condanna  relativa  al  reato  che  l'ha
originata. 
    Per  escludere  la  lesione  costituzionale  denunciata  non  e',
infatti, sufficiente evocare la fondamentale  regola  in  materia  di
esecuzione penale stabilita dall'art. 657, comma 1, cod. proc. pen. ,
che impone di  detrarre  la  custodia  cautelare  subita  dalla  pena
detentiva inflitta con  la  sentenza  irrevocabile:  meccanismo  che,
trasformando il periodo di custodia gia' sofferto  in  espiazione  di
pena, impedirebbe, in tesi, di imputare -  con  operazione  di  segno
inverso - quello stesso periodo alla durata  massima  della  custodia
cautelare applicata con una diversa ordinanza. 
    A  prescindere  da  ogni  altro  rilievo,  il  ragionamento   ora
ricordato non vale, di  nuovo,  a  cancellare  il  fatto  che,  anche
nell'ipotesi considerata, l'adozione scaglionata nel tempo dei titoli
custodiali pone l'imputato in  situazione  oggettivamente  deteriore,
rispetto a quella in cui si sarebbe trovato ove le ordinanze  fossero
state emesse nel medesimo contesto temporale. In  quest'ultimo  caso,
infatti,  il  tempo  massimo   di   durata   si   sarebbe   consumato
parallelamente per entrambe le misure  cautelari,  confluendo  in  un
unico periodo di privazione della liberta' personale. Non  solo:  ma,
dopo il passaggio in giudicato della  sentenza  di  condanna  per  il
reato contestato con la prima  ordinanza,  nel  computo  del  termine
della custodia  cautelare  applicata  con  la  seconda  ordinanza  si
sarebbe dovuto comunque tenere conto anche del periodo nel  quale  la
misura in questione  si  e'  sovrapposta  all'esecuzione  della  pena
inflitta per il primo reato. Cio', in forza dell'espressa  previsione
dell'art. 297, comma 5, secondo periodo, cod. proc. pen. , secondo la
quale «ai soli effetti del computo dei termini di durata massima,  la
custodia cautelare si considera compatibile con  lo  stato  detentivo
per esecuzione di pena». Questa previsione rende palese come,  se  la
custodia cautelare riguarda un reato diverso da quello oggetto  della
condanna irrevocabile, il passaggio alla fase esecutiva - e,  dunque,
anche l'ipotizzato fenomeno di  trasformazione  della  custodia  gia'
sofferta per il reato gia' giudicato in espiazione di pena, a seguito
della regola di detrazione prevista  dall'art.  657,  comma  1,  cod.
proc. pen. - non precluda l'operativita'  dell'art.  303  cod.  proc.
pen. - e, quindi, la  rilevanza  del  decorso  dei  termini  da  esso
previsti - per il reato ancora da giudicare. 
    Anche nell'evenienza considerata sussiste, dunque, l'esigenza  di
prevenire possibili fenomeni di aggiramento dei  termini  massimi  di
custodia. Tale situazione potrebbe prestarsi, in  effetti,  ad  abusi
persino piu' gravi: quale quello di attendere,  prima  dell'emissione
della seconda  ordinanza  relativa  a  fatti  diversi,  non  soltanto
l'esaurimento  della  prima  vicenda  cautelare,  ma  anche  l'intera
espiazione della pena inflitta per il reato cui questa si  riferisce,
evitando cosi' di rendere operante la regola di  computo  di  cui  al
citato art. 297, comma 5, secondo periodo, cod. proc. pen. 
    7. - Neppure, da ultimo, e' possibile ritenere che,  nell'ipotesi
di cui si discute, le esigenze di garanzia  sottese  alla  disciplina
delle contestazioni a catena restino  integralmente  soddisfatte  dal
principio del ne bis in idem, enunciato dall'art. 649 cod. proc. pen. 
    E' ben vero che il divieto di un secondo giudizio per  lo  stesso
fatto sul quale e' intervenuta una pronuncia irrevocabile - anche  se
diversamente considerato per il titolo, il grado o le  circostanze  -
opera anche in  rapporto  alle  iniziative  cautelari:  determinando,
percio', una preclusione radicale all'emissione di  ulteriori  titoli
custodiali, che assorbe le finalita' cui e' preordinata la regola  di
retrodatazione dell'art. 297,  comma  3,  cod.  proc.  pen.  Ma  tale
assorbimento si produce esclusivamente  in  rapporto  alle  ordinanze
cautelari emesse in sequenza per uno «stesso fatto»:  lasciando,  per
converso, totalmente scoperta, sul piano della  tutela,  l'ipotesi  -
estranea allo spettro di operativita' dell'art. 649 cod. proc. pen. e
che viene specificamente in  rilievo  nel  giudizio  a  quo  -  delle
ordinanze sequenziali relative a «fatti diversi». 
    8. - Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve dunque
concludere che  -  in  rapporto  a  tale  ipotesi  -  la  preclusione
all'applicazione  del  meccanismo  di  retrodatazione  dei   termini,
connessa alla formazione del giudicato sui fatti oggetto della  prima
ordinanza cautelare in data anteriore  a  quella  di  adozione  della
seconda ordinanza - evento sul quale incide, peraltro,  un  complesso
di fattori, anche casuali - viola l'art. 3 Cost.,  determinando,  per
le  ragioni  dianzi   evidenziate,   ingiustificate   disparita'   di
trattamento tra imputati che versano in situazioni eguali. 
    La medesima preclusione viola, altresi', l'art. 13, quinto comma,
Cost., nella misura in cui apre la via alla  possibile  elusione  dei
limiti massimi di durata della  custodia  cautelare  prefigurati  dal
legislatore. 
    9. - L'art. 297, comma 3, cod. proc. pen. (come  integrato  dalla
sentenza di questa Corte n. 408 del 2005)  va  dichiarato,  pertanto,
costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui - con  riferimento
alle ordinanze che dispongono misure cautelari per  fatti  diversi  -
non prevede che la regola in tema di decorrenza dei termini  in  esso
stabilita si applichi anche quando, per i  fatti  contestati  con  la
prima ordinanza, l'imputato sia stato condannato con sentenza passata
in giudicato anteriormente all'adozione della seconda misura. 
    La censura formulata dal giudice a quo  in  riferimento  all'art.
27, secondo comma, cost. resta assorbita.