Ricorso della Regione Emilia-Romagna, in persona del  Presidente
pro tempore, autorizzato con deliberazione della Giunta Regionale  n.
1271 del 5 settembre 2011 (doc. 1), rappresentata e difesa - come  da
procura  speciale  a  margine  del  presente  atto,  dall'avv.  prof.
Giandomenico Falcon di Padova e dall'avv. Luigi Manzi  di  Roma,  con
domicilio eletto in Roma presso lo studio dell'Avv. Manzi,  in  Roma,
via Confalonieri, n.53; 
    Contro  il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,   per   la
dichiarazione di illegittimita' costituzionale  del  decreto-legge  6
luglio 2011 , n. 98, convertito con  modificazioni,  nella  legge  15
luglio  2011,  n.  111,   recante   Disposizioni   urgenti   per   la
stabilizzazione finanziaria, pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  n.
164 del 16 luglio 2011, con riferimento alle seguenti disposizioni: 
        art. 16, comma 1, lettere: b); c; d); e); f); 
        art. 19, comma 4; 
    per violazione: 
        della Costituzione, e segnatamente  degli  articoli:  3;  97;
114; 117, commi 2, 3, 4, 6; 118; 
        dei  principi   costituzionali   di   leale   collaborazione,
ragionevolezza  e  proporzionalita';  nei  modi  e  per   i   profili
illustrati nel presente ricorso. 
 
                                Fatto 
 
    Nella Gazzetta Ufficiale n. 164  del  16  luglio  2011  e'  stata
pubblicata la legge 15 luglio  2011,  n.  111,  recante  Disposizioni
urgenti per la stabilizzazione finanziaria, la quale ha convertito in
legge, con modificazioni, il decreto-legge 6 luglio 2011 , n. 98. 
    Pur  comprendendo  le  cogenti  ragioni  finanziarie  che   hanno
determinato il ricorso al predetto decreto, la Regione ritiene che  -
anche  per  i  tempi  ristretti  che  hanno   dovuto   caratterizzare
l'emanazione e la conversione del decreto-legge - in diversi casi non
sia stato possibile dedicare la necessaria attenzione al rispetto dei
rapporti tra lo Stato e le Regioni come definiti dalla Costituzione. 
    Essa comunque  con  il  presente  ricorso  concentra  la  propria
impugnazione su due soli gruppi di disposizioni, e precisamente da un
lato le disposizioni di cui all'art. 16, comma 1, lettere b), c), d),
e),  f),  in  materia  di  organizzazione  e   personale   regionale,
dall'altro  l'art.  19,  comma  4,  in  materia   di   organizzazione
scolastica. 
    Tali disposizioni,  infatti,  sono  ad  avviso  della  ricorrente
Regione costituzionalmente  illegittime  e  lesive  delle  competenze
regionali per le seguenti ragioni di 
 
                               Diritto 
 
1. Illegittimita' costituzionale dell'art. 16, comma 1,  lettere  b),
c), d), e) ed f). 
    L'art. 16, comma 1, del d.l. n. 98/2001, affida  ad  uno  o  piu'
regolamenti di delegificazione ex articolo  17,  comma  2,  legge  n.
400/1988  il  compito  di  dettare  misure  di  «razionalizzazione  e
contenimento della spesa in materia di pubblico impiego». 
    Tra l'altro, queste misure prevedono la possibilita' di: 
        lett. b): prorogare fino  al  31  dicembre  2014  le  vigenti
disposizioni che limitano la crescita dei trattamenti economici anche
accessori del personale delle pubbliche amministrazioni; 
        lett.  c):  fissare  le   modalita'   di   calcolo   relative
all'erogazione dell'indennita' di vacanza contrattuale per  gli  anni
2015-2017; 
        lett. d): semplificare, rafforzare e rendere obbligatorie  le
procedure   di   mobilita'   del   personale   tra    le    pubbliche
amministrazioni; 
        lett.   e):   differenziare   l'ambito   applicativo    delle
disposizioni di cui alle lettere a) e b), in ragione dell'esigenza di
valorizzare ed incentivare l'efficienza di determinati settori; 
        lett. f): includere  tutti  i  soggetti  pubblici  -  escluse
unicamente le regioni e le province autonome e gli enti del  servizio
sanitario nazionale - fra gli enti destinatari in via  diretta  delle
misure  di  razionalizzazione  della  spesa,  in  particolare  quelle
previste dall'articolo 6 d.l. n. 78/2010, n. 78 (convertito in  legge
n. 122/2010). 
    E' agevole constatare che tali misure, pur  non  essendo  rivolte
specificamente alle Regioni, le riguardano direttamente: la lett.  b)
e  d)  in  quanto  il  trattamento  economico  del  personale  incide
sull'organizzazione  e  sulla  finanza  regionale;   la   lett.   d),
specificamente, in quanto la disciplina della mobilita' incide  sulla
possibilita'  e  sulle  modalita'  del  reclutamento  del   personale
regionale, e dunque sulla autonomia organizzativa della  Regione  (si
pensi ad esempio ai  delicati  problemi  del  settore  sanitario,  in
relazione all'urgenza ed  alla  specificita'  delle  professionalita'
richiesta); la lett. e) perche' la sua applicazione  puo'  portare  i
settori di competenza regionale ad essere discriminati rispetto  agli
altri, con conseguenze sulla funzionalita' dei servizi. 
    Non le riguarda direttamente la lett. f),  e  tuttavia  la  norma
rimane comunque lesiva, in quanto contempla la  possibilita'  che  le
misure restrittive possano essere applicate  direttamente  agli  enti
dipendenti dalla Regione.  Inoltre,  la  stessa  lettera,  nella  sua
genericita',  rende  possibile  estendere  agli  enti  locali  misure
restrittive delle quali esse non fossero  sinora  destinatari:  sotto
questo  profilo  la  Regione  impugna  a   difesa   della   autonomia
costituzionale  ad   essi   riconosciuta.   D'altronde,   le   misure
restrittive incidono sulla possibilita' di tali enti di  svolgere  le
attivita' ed i servizi di interesse regionale. 
    Ad avviso della  ricorrente  Regione  tale  disposizione  risulta
costituzionalmente  illegittima,   sotto   i   profili   di   seguito
illustrati. 
    Nella   individuazione   della   «materia»   costituzionale    di
riferimento  delle  disposizioni  ora  indicate  e'  necessario  fare
riferimento all'insegnamento di codesta  Corte,  la  quale  anche  di
recente ha ribadito come «per la identificazione della materia in cui
si colloca la disposizione impugnata, questa  va  individuata  avendo
riguardo all'oggetto o alla disciplina da essa stabilita, sulla  base
della sua  ratio,  senza  tenere  conto  degli  aspetti  marginali  e
riflessi» (sentenza n. 235/2010). 
    Sulla base di tale criterio, e' la stessa disposizione  impugnata
a  rendere  palese   la   propria   finalita'   di   «assicurare   il
consolidamento delle misure di razionalizzazione e contenimento della
spesa» (art. 16, comma  1,  cit.):  ne  consegue  che  le  misure  in
questione  risultano  chiaramente  riconducibili  alla  materia   del
coordinamento della finanza pubblica di cui all'art.  117,  comma  3,
Cost.. 
    Tuttavia, esse risultano violare  i  principi  costituzionali  di
tale materia, sia sotto il profilo formale che quello sostanziale. 
    Per  quanto   riguarda   innanzitutto   l'aspetto   formale   (in
particolare, del tipo di fonte normativa impiegata), e' evidente  che
i principi statali di tale materia dovrebbero essere fissati con atto
avente rango  legislativo  (in  accordo  con  la  regola  recata  dal
medesimo  comma  3,  secondo  cui  nelle  materie   di   legislazione
concorrente la determinazione dei principi fondamentali e' «riservata
alla legislazione dello Stato»). Tanto piu' ove  si  rammenti  che  -
nelle materie di legislazione concorrente - la potesta' regolamentare
e' inutilizzabile da parte statale, essendo a priori  riservata  alle
Regioni ex art. 117, comma 6, Cost. 
    In violazione di tali regole, al contrario,  la  norma  impugnata
rimette invece la definizione  delle  misure  di  contenimento  della
spesa pubblica alla fonte regolamentare. 
    Di qui, una prima ragione di illegittimita' costituzionale. 
    Ma le disposizioni impugnate risultano altresi'  illegittime  per
un secondo ordine di ragioni. 
    Come noto, infatti, codesta Corte ha chiaramente stabilito che il
legislatore   statale,   con   «disciplina   di   principio»,    puo'
legittimamente  «imporre  agli  enti   autonomi,   per   ragioni   di
coordinamento   finanziario   connesse   ad   obiettivi    nazionali,
condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle  politiche
di bilancio,  anche  se  questi  si  traducono,  inevitabilmente,  in
limitazioni indirette all'autonomia di spesa degli enti» (sentenze n.
417 del 2005 e n. 36 del 2004). 
    Tuttavia, il rispetto dell'autonomia delle Regioni e  degli  enti
locali richiede che tali vincoli riguardino unicamente l'entita'  del
disavanzo di parte corrente oppure - ma solo «in via  transitoria»  -
la crescita della spesa corrente degli enti autonomi. 
    In definitiva, alla legge statale e' consentito di stabilire solo
un «limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia liberta' di
allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di  spesa»
(sentenze n. 88 del 2006, n. 449 e n. 417 del 2005, n. 36 del  2004).
Su tali basi, codesta Corte ha  riconosciuto  legittime  disposizioni
statali che intervenivano sulla spesa del personale  delle  autonomie
regionali (in considerazione della sua natura di «rilevante aggregato
della  spesa  di  parte  corrente»),  ma  limitandosi   a   prevedere
l'ammontare complessivo del risparmio (in quel caso, in  particolare,
si prevedeva che le Regioni - e non certo un regolamento governativo!
-  adottassero  «misure  necessarie  a  garantire  che  le  spese  di
personale [... ] non superino per ciascuno degli anni  2006,  2007  e
2008 il corrispondente ammontare dell'anno 2004 diminuito dell'1  per
cento»: art. 1, comma 198, legge n. 266/2005). 
    Tale disposizione statale e' stata fatta salva da  codesta  Corte
in  considerazione  del  fatto  che  essa  «non  prescrive  ai   suoi
destinatari alcuna modalita' per il conseguimento  dell'obiettivo  di
contenimento della spesa  per  il  personale,  ma  lascia  libere  le
Regioni  di  individuare  le   misure   a   tal   fine   necessarie»,
differenziandosi  cosi'   da   precedenti   disposizioni   dichiarate
incostituzionali, in quanto recanti  «limiti  puntuali  a  specifiche
voci di spesa» (sentenza n. 169 del 2007). 
    Nel  presente  caso,  pare  alla  ricorrente   Regione   che   le
disposizioni statali contestate -all'opposto di quanto ora  ricordato
- riservino alla  fonte  statale  (regolamentare)  la  specificazione
delle modalita' per il conseguimento degli obiettivi di  contenimento
della spesa pubblica, al contempo privando le  Regioni  di  qualunque
possibilita' di individuare le misure allo scopo necessarie. 
    E' infatti lo Stato a disporre direttamente la  limitazione  alla
crescita  dei   trattamenti   economici   (lett.   b))   (addirittura
riservandosi discrezionalmente di determinare i settori specifici  ai
quali  applicare  tale  limitazione:  lett.   e)),   la   definizione
dell'ammontare dell'indennita' di vacanza contrattuale (lett. c),  il
ricorso  obbligatorio  a  procedure   di   mobilita'   tra   pubblica
amministrazione (lett. d): in tal  modo,  dunque,  non  si  enunciano
principi  della  materia,  ma  si  stabiliscono  concrete  regole  di
dettaglio. 
    Su tale base, le disposizioni indicate risultano incostituzionali
per violazione dell'articolo  117,  comma  3,  Cost.  in  materia  di
coordinamento della finanza pubblica e dell'articolo  114  Cost.  per
lesione dell'autonomia regionale. 
    In subordine, ove si dovesse  ritenere  legittima  la  competenza
statale  relativa  alla  estensione  in  via   amministrativa   delle
specifiche e dettagliate misure di contenimento della  spesa  per  il
personale contenute nelle disposizioni impugnate - ugualmente risulta
evidente che sia la competenza regionale concorrente  in  materia  di
coordinamento della  finanza  pubblica  che  l'evidente  e  rilevante
impatto delle disposizioni statali sull'organizzazione amministrativa
regionale avrebbero richiesto che  la  decisione  in  relazione  alle
misure di contenimento della spesa per il personale fosse subordinata
all'intesa con  la  Conferenza  Stato-Regioni,  secondo  i  ben  noti
principi   codificati   in   materia   da   codesta   ecc.ma    Corte
costituzionale. 
    La mancata  previsione  dell'intesa,  all'opposto,  determina  la
lesione del principio di leale  collaborazione,  in  connessione  con
l'articolo 118 Cost. 
2. Illegittimita' costituzionale dell'articolo 19, comma 4. 
    L'art. 19, comma 4, del decreto n. 98 stabilisce che «al fine  di
garantire un processo  di  continuita'  didattica  nell'ambito  dello
stesso  ciclo  di  istruzione,  a  decorrere   dall'anno   scolastico
2011-2012, la scuola  dell'infanzia,  la  scuola  primaria  e  quella
secondaria di primo grado sono aggregate in istituti comprensivi, con
la conseguente soppressione delle  istituzioni  scolastiche  autonome
costituite separatamente da direzioni didattiche e scuole  secondarie
di primo grado»; dispone altresi' che «gli istituti  comprensivi  per
acquisire l'autonomia  devono  essere  costituiti  con  almeno  1.000
alunni, ridotti a 500 per le istituzioni site  nelle  piccole  isole,
nei  comuni  montani,  nelle  aree  geografiche   caratterizzate   da
specificita' linguistiche». 
    Tali regole (la necessita' che le istituzioni scolastiche abbiano
un assetto organizzativo di carattere «comprensivo», il numero minimo
di alunni per scuola, la riduzione, in certi casi, del numero minimo)
riguardano   l'offerta   formativa,   la    programmazione    e    il
dimensionamento  della   rete   scolastica:   tutti   aspetti   della
organizzazione  scolastica,  ricadente  nella  materia  «istruzione»,
oggetto di potesta' regionale  concorrente,  ai  sensi  dell'articolo
117, comma 3, Cost. Sul punto la giurisprudenza costituzionale appare
assolutamente costante (da ultimo v. la sent. 92/2011, punto 7.1; tra
le precedenti v. le sentt. nn. 200/2009, 34/2005, punto 7, 13/2004). 
    E' invece  escluso  che  esse  siano  riconducibili  alle  «norme
generali sull'istruzione» riservate allo Stato. Esse  non  toccano  i
«cicli» dell'istruzione, non regolano in alcun modo le «articolazioni
cicliche» e le «finalita' ultime» del  sistema  dell'istruzione.  Non
riguardano «la previsione generale del contenuto dei programmi  delle
varie fasi e dei vari cicli del sistema»,  ne'  «la  regolamentazione
delle prove che consentono il passaggio ai diversi  cicli»,  ne'  «la
valutazione periodica degli apprendimenti e del  comportamento  degli
studenti del sistema  educativo  di  istruzione  e  formazione»  (per
riprendere   taluni   contenuti   delle   «norme   generali»,    come
puntualizzati dalla sent. 200/2009). Cosi' individuata la materia  di
riferimento, e'  da  escludere  che  il  censurato  comma  4  esprima
principi  fondamentali  nella  materia  dell'istruzione.  Occorre  in
proposito ricordare che - con considerazione  delle  peculiarita'  di
tale materia  (anche  alla  luce  «norme  generali  sull'istruzione»,
attribuite alla competenza esclusiva dello Stato) - la Corte ha avuto
modo di individuare lo spazio specifico della legislazione  regionale
nelle «valutazioni coinvolgenti le  specifiche  realta'  territoriali
delle Regioni, anche  sotto  il  profilo  socio-economico»;  cio'  si
traduce - sul piano della struttura dei principi -  nella  necessita'
che essi lascino spazio per una attuazione regionale, e non  per  una
pura attivita' di esecuzione (sent. n. 200/2009). In  altri  termini,
in  ordine  al  dimensionamento  della   rete   scolastica   sussiste
costituzionalmente  uno  «spazio»  non  occupabile  dallo  Stato.  Si
potrebbe dire che - come in certi casi taluni contenuti normativi non
possono non essere «di  principio»  (con  radicale  esclusione  della
legislazione regionale: sent.  438/2008)  -  cosi',  simmetricamente,
taluni contenuti normativi non possono che essere «di dettaglio» (con
esclusione - in relazione a quei contenuti - della potesta' statale). 
    Poste tali  premesse,  ad  avviso  della  ricorrente  Regione  le
disposizioni impugnate non superano il test di legittimita'. 
    Cio' vale in primo luogo per  la  prima  norma  ricavabile  dalla
disposizione impugnata, la norma secondo la quale non possono esservi
istituzioni scolastiche autonome che non riguardino insieme la scuola
dell'infanzia, la scuola primaria e quella secondaria di primo  gado,
escludendo radicalmente e in via assoluta qualunque  possibilita'  di
apprezzamento delle particolarita' locali,  imponendo  una  attivita'
regionale di mera esecuzione. Al contrario, tale imposizione non puo'
giustificarsi - come fa la disposizione impugnata - sulla base di  un
criterio di «continuita' didattica», la quale non e' ne' favorita ne'
ostacolata dalla autonomia dell'organizzazione scolastica (del  resto
tale arbitraria giustificazione e' contraddetta dalla stessa  rubrica
dell'art. 19, che fa piu' sincero riferimento alla «razionalizzazione
della spesa relativa all'organizzazione scolastica»). 
    Invece, la norma in questione rende mere appendici  organizzative
scuole che hanno una identita' ed una tradizione,  che  costituiscono
esse stesse una risorsa. Ne' puo' essere giustificata sulla  base  di
un vincolo finanziario, dal momento che  le  decisioni  regionali  si
svolgono sempre all'interno di un  quadro  di  risorse  organizzative
deciso insieme allo Stato o direttamente dallo Stato. 
    Le norme sul numero minimo di alunni, per parte  loro,  vincolano
anch'esse in modo rigido, senza una ragione razionale,  le  possibili
scelte  regionali,  da  effettuare  sulla  base  da  un  lato   della
valutazione delle risorse disponibili - a partire dalla  risorsa  del
personale, determinata dallo Stato (vincolo che qui non si  contesta)
- dall'altro delle caratteristiche  locali.  Anche  in  questo  caso,
dunque, non si tratta di  un  principio,  ma  della  definizione  dei
dettagli che precludono l'esercizio di scelte  che  sono  la  ragione
stessa dell'autonomia che la Costituzione riserva alle Regioni. 
    La censura non viene certo meno per il fatto che il vincolo posto
alle Regioni e' differenziato per le  piccole  isole,  per  i  comuni
montani e per le aree geografiche  caratterizzate  da  particolarita'
linguistiche: la logica, infatti, e' sempre quella del limite rigido,
fissato in generale per tutte le «piccole» isole, per tutti i  Comuni
montani, per  tutte  le  aree  linguisticamente  particolari.  Ed  e'
inoltre escluso che altre ragioni possano giustificare una bacino  di
studenti  piu'   ridotto   per   l'istituzione   scolastica,   mentre
peculiarita' locali meritevoli di apprezzamento  sussistono  (possono
sussistere) in tutto il territorio (si pensi  alla  diversita'  nella
densita' demografica, nella rete  dei  trasporti  e  dei  servizi  in
genere, nella provenienza sociale degli alunni, ecc.). Sembra  chiaro
che se si tolgono alle  Regioni  queste  scelte,  si  compromette  la
ragione stessa della loro competenza costituzionale. 
    Del resto, conferma dello spessore della competenza regionale  in
materia di istruzione, e della  impossibilita'  di  riconoscere  alle
regole  sul  dimensionamento  degli  istituti  natura   di   principi
fondamentali, si ha nella  normativa  precedente  all'intervento  del
decreto legge n. 98, come letta dalla giurisprudenza costituzionale. 
    Gia' anteriormente alla riforma del titolo V, il regolamento  del
d.P.R.  18  giugno  1998,  n.  233  riconosceva  che  i   «piani   di
dimensionamento delle istituzioni scolastiche ...  sono  definiti  in
conferenze provinciali di organizzazione della rete  scolastica,  nel
rispetto degli indirizzi di programmazione e  dei  criteri  generali,
riferiti anche agli  ambiti  territoriali,  preventivamente  adottati
dalle regioni  (art.  3,  comma  1:  norma  valorizzata  dalla  Corte
costituzionale con la sent. 34/2005, che ha ritenuto non in contrasto
con la Costituzione la disposizione della Regione Emilia-Romagna, per
la quale spetta al Consiglio regionale,  su  proposta  della  Giunta,
approvare i "criteri per  la  definizione  dell'organizzazione  della
rete  scolastica,  ivi  compresi  i  parametri   dimensionali   delle
istituzioni   scolastiche");   d'altro   canto,   la    "popolazione,
consolidata e prevedibilmente  stabile  almeno  per  un  quinquennio,
compresa tra 500 e 900 alunni" - che l'art. 2, comma 2, dello  stesso
regolamento  indicava  come  parametro  per   riconoscere   autonomia
all'istituzione, valeva - testualmente - solo "di  norma":  lasciando
quindi ampio spazio di adattamento normativo alla realta' locale. 
    Successivamente  alla  riforma  costituzionale   del   2001,   il
regolamento 20 marzo 2009, n. 81 (art. 1, comma 1) ha  stabilito  che
«alla definizione dei criteri e dei parametri per il  dimensionamento
della  rete  scolastica  e  per  la  riorganizzazione  dei  punti  di
erogazione del servizio scolastico» si provvedera'  con  regolamento,
adottato "previa intesa in sede di Conferenza unificata", sulla  base
dell'articolo 64, comma 4-quinquies, d.l. n. 112/2008, cono. in legge
n. 133/2008. Sennonche', la base legislativa  costituita  dal  citato
comma 4-quinquies si limita a rinviare al precedente comma 4, lettera
f-ter), dichiarato incostituzionale con la sent. N. 200/2009. 
    Ancora: il decreto-legge n. 112/2008 (articolo 64, comma 4, lett.
f-bis) rimetteva ad un regolamento la «definizione di criteri,  tempi
e modalita' per la  determinazione  e  articolazione  dell'azione  di
ridimensionamento  della  rete  scolastica  ...»:   ma   anche   tale
disposizione e' caduta sotto la censura della sent. n. 200/2009. 
    Ora, al di la' della incostituzionalita' di tali previsioni, esse
dimostrano che per lo Stato  stesso  il  dimensionamento  della  rete
scolastica era «questione» regolamentare, questione che come tale  e'
stata assunta nel riparto  delle  competenze  attuato  con  il  nuovo
Titolo  V,  e  come  tale  e'  stata  considerata  fino   all'odierno
intervento legislativo. 
    Ancora,  le  disposizioni  impugnate  non  possono  giustificarsi
neppure come espressione di  coordinamento  della  finanza  pubblica,
come pure la rubrica sopra ricordata dell'art. 19 potrebbe indurre  a
credere. 
    Anzitutto,  esse  non  pongono  limiti  alla  complessiva   spesa
regionale,  o  ad  aggregati  significativi  della  stessa,  tali  da
consentire alla Regione adeguati spazi per  un  autonomo  adeguamento
(come vuole la giurisprudenza richiamata al punto 1). 
    In secondo luogo, occorre tenere conto del fatto che la autonomia
regionale sulla organizzazione della rete scolastica si  esplica  nel
rispetto del contingente  di  personale  complessivamente  attribuito
dallo Stato alla rete della Regione:  come  risulta  confermato,  tra
l'altro, dal comma 7 dell'articolo 19 (non impugnato dalla  Regione),
secondo il quale  «a  decorrere  dall'anno  scolastico  2012/2013  le
dotazioni organiche del personale docente,  educativo  ed  ATA  della
scuola non devono superare la consistenza  delle  relative  dotazioni
organiche dello stesso  personale  determinata  nell'anno  scolastico
2011/2012 in  applicazione  dell'articolo  64  del  decreto-legge  25
giugno 2008, n. 112, convertito, con  modificazioni,  dalla  legge  6
agosto 2008, n. 133, assicurando in ogni caso, in ragione di armo, la
quota delle economie lorde  di  spesa  che  devono  derivare  per  il
bilancio dello Stato,  a  decorrere  dall'anno  2012,  ai  sensi  del
combinato disposto di cui ai commi 6 e 9  dell'articolo  64  citato».
Dunque, il coordinamento finanziario esiste, e' assicurato  da  altri
strumenti, e nulla ad esso aggiungono le disposizioni impugnate. 
    Una ulteriore censura,  aggiuntiva  rispetto  a  quelle  sin  qui
illustrate, riguarda la dimensione temporale dell'applicazione  delle
norme qui censurate. 
    Il comma  4  pretende  che  le  proprie  norme  trovino  concreta
applicazione,  con  la   aggregazione-soppressione   di   istituzioni
scolastiche, a decorrere dall'anno scolastico 2011-2012. 
    Esse dunque intervengono a meno di due mesi dall'inizio dell'anno
scolastico a  sconvolgere  una  programmazione  e  un  assetto  della
organizzazione scolastica gia' definite all'inizio  dell'anno,  anche
in funzione di scelte consapevoli da parte degli alunni e delle  loro
famiglie, scelte che su tali basi sono state effettuate. 
    Esse risultano quindi irragionevoli, in violazione del  principio
ricavabile  dall'articolo   3;   tale   irragionevolezza,   incidendo
immediatamente  e  traducendosi  nella  vinificazione  delle   scelte
organizzative legittimamente operate dalla Regione, si traduce in una
lesione delle sue competenze. 
    Infine, l'impropria assunzione a livello legislativo, come se  si
trattasse di principi fondamentali anziche'  di  scelte  operative  e
concrete, destinate ad incidere in modo dettagliato e  diretto  sulle
realta' particolari, risulta illegittima anche perche'  preclude  che
vi sia, in applicazione di veri principi stabiliti dalla  legge,  una
sede di confronto e di concertazione tra lo Stato e le  Regioni,  per
gli eventuali aspetti che ne richiedano  la  collaborazione,  in  una
situazione  in  cui  malgrado  l'art.   117,   terzo   comma,   della
Costituzione,  la  materia  dell'istruzione  non  ha  ancora  trovato
compiuta regionalizzazione: s'intende ferma  l'unicita'  delle  norme
generali e dei principi comuni nella materia. 
    In  altre  parole,  la  forma   legislativa,   costituzionalmente
necessaria per i  principi  fondamentali,  si  rivela  invece  lesiva
dell'autonomia regionale quando si sostituisca a scelte che  spettano
alla Regione, o che in subordine debbono essere affidate a  procedure
amministrative di collaborazione.