Ricorso della Regione Liguria, in  persona  del  Presidente  pro
tempore, autorizzato con deliberazione della Giunta Regionale n. 1056
del 9 settembre 2011  (doc.  1),  rappresentata  e  difesa,  come  da
procura speciale n. rep. 14438 del 12 settembre 2011 (doc. 2), rogata
dal dott. Margherita Poli, Notaio alla residenza in Genova, dall'avv.
prof. Giandomenico Falcon di Padova e dall'avv. Luigi Manzi di  Roma,
con domicilio eletto in Roma presso lo  studio  dell'Avv.  Manzi,  in
Roma, via Confalonieri, n.5 
    Contro  il  Presidente  del  Consiglio  dei   ministri   per   la
dichiarazione di illegittimita' costituzionale  del  decreto-legge  6
luglio 2011 , n. 98, convertito con  modificazioni,  nella  legge  15
luglio  2011,  n.  111,   recante   Disposizioni   urgenti   per   la
stabilizzazione finanziaria, pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  n.
164 del 16 luglio 2011, con riferimento alle seguenti disposizioni: 
        articolo 2, commi 1, 3 e 4; 
        art. 16, comma 1, lettere: b); c); d); e); f); 
        art. 19, comma 4; 
        art. 30, commi 1 e 3; 
        art. 35, commi 6, e 7; 
    per violazione: 
        della Costituzione, e segnatamente  degli  articoli:  3;  97;
114; 117, commi 2, 3, 4, 6; 118; 
        dei  principi   costituzionali   di   leale   collaborazione,
ragionevolezza  e  proporzionalita';  nei  modi  e  per   i   profili
illustrati nel presente ricorso. 
 
                                Fatto 
 
    Nella Gazzetta Ufficiale n. 164  del  16  luglio  2011  e'  stata
pubblicata la legge 15 luglio  2011,  n.  111,  recante  Disposizioni
urgenti per la stabilizzazione finanziaria, la quale ha convertito in
legge, con modificazioni, il decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98. 
    Pur  comprendendo  le  cogenti  ragioni  finanziarie  che   hanno
determinato il ricorso al predetto  decreto,  la  ricorrente  Regione
ritiene che talune  delle  sue  disposizioni  -  e  precisamente  gli
articoli: 2, commi 1, 3 e 4; 16, comma 1, lettere b), c), d), e),  0;
19, comma 4; 30; 35, commi  6  e  7  -  siano  lesivi  delle  proprie
competenze  e  costituzionalmente  illegittimi,  per  violazione  dei
parametri indicati in epigrafe, secondo quanto di seguito  illustrato
nella parte in Diritto. 
    Sia  consentito  di  osservare   soltanto   in   termini   ancora
introduttivi -  e  pur  se  le  considerazioni  di  ordine  puramente
economico non possono costituire di per se' ne' oggetto ne' parametro
del presente giudizio - che le illegittimita' da cui ad avviso  della
ricorrente Regione sono affette  le  disposizioni  impugnate  possono
trovare rimedio attraverso  la  pronuncia  di  codesta  ecc.ma  Corte
costituzionale  senza  che  il  risultato  economico  della  predetta
manovra ne risulti compromesso. 
 
                               Diritto 
 
1. Illegittimita' costituzionale dell'articolo 2, commi 1, 3 e 4. 
    L'articolo 2 del d.l. n. 98/2011 («Auto  blu»)  dispone  che  «la
cilindrata delle auto di servizio  non  puo'  superare  i  1600  cc.»
(comma 1), che «le auto ad oggi in servizio possono essere utilizzate
solo fino alla loro dismissione o rottamazione» - norma di cui non e'
per vero facile ipotizzare la violazione - e che  esse  «non  possono
essere  sostituite»  (comma  3)  ed  infine  che  «con  decreto   del
Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del  Ministro  per
la pubblica amministrazione e l'innovazione, sono disposti  modalita'
e limiti di utilizzo delle autovetture di servizio al fine di ridurne
numero e costo» (comma 4). 
    Il contesto nel quale l'articolo e' inserito, e  la  mancanza  di
una norma che ne disciplini estensione e  limiti  di  un  effetto  di
vincolo a carico della Regione (come invece accade per  altri  limiti
valevoli in via diretta per lo Stato: v. ad es. l'articolo  1,  comma
4, sul trattamento  economico  di  titolari  di  cariche  pubbliche),
possono far ritenere che l'articolo 2  valga  esclusivamente  per  lo
Stato e per gli enti nazionali. Tale conclusione, tuttavia, non  puo'
dirsi sicura, in quanto il comma 2 dell'articolo 2 - che pur  prevede
eccezioni alla applicabilita' delle restrizioni alle c.d. «auto  blu»
- non vi comprende le Regioni e gli enti del «sistema  regionale»:  e
l'eccezione alla regola generale si  presta  ad  una  interpretazione
restrittiva. 
    Se intesi come riferiti anche alla Regione e agli  enti  da  essa
dipendenti, i commi 1, 3 e 4 dell'articolo 2 sono  costituzionalmente
illegittimi, sotto diversi profili. 
    I commi 1 e 3 sono illegittimi  in  primo  luogo  per  violazione
dell'articolo 117, commi 4 e 3,  Cost.  Da  un  lato,  infatti,  essi
incidono nella  materia  residuale  della  organizzazione  regionale;
d'altro lato, non  si  puo'  riconoscere  ad  essi  il  carattere  di
principi fondamentali nella  materia  concorrente  del  coordinamento
della finanza pubblica, in quanto  pongono  limiti  puntuali  ad  una
singola e minuta voce di spesa, senza lasciare  alla  Regione  alcuno
spazio di  adeguamento.  E  che  simili  limiti  non  siano  principi
fondamentali della materia e' stato piu' volte affermato dalla  Corte
(v. le sentt. nn. 155/2011, 297/2009, 237/2009,  159/2008,  157/2007,
95/2007, 89/2007, 88/2006, 449/2005, 417/2005 e 390/2004). 
    Inoltre, gli stessi commi 1 e 3  dell'articolo  3  sono  altresi'
illegittimi per violazione del principio  di  ragionevolezza  di  cui
all'articolo 3 Cost., nonche' del principio di buon  andamento  della
pubblica amministrazione, di cui all'articolo 97 Cost. 
    Per  valutare  l'irrazionalita'  intrinseca  delle   disposizioni
occorre valutarne l'ambito di applicazione. Ora, mentre nella rubrica
dell'articolo 2 si utilizza la non definita espressione «auto blu», i
commi dell'articolo precisano che si tratta in generale delle  «auto»
e delle «autovetture» di sevizio. In altre parole, non si tratta solo
dei mezzi a disposizione dei titolari degli organi  politici,  ma  di
tutti i mezzi di servizio: come  risulta  ancora  dal  comma  3,  che
eccettua dalla nuova disciplina,  oltre  alle  vetture  degli  organi
costituzionali espressamente indicati, solo «le auto blindate adibite
ai servizi istituzionali di pubblica sicurezza». 
    Ebbene, e' un dato evidente e di comune esperienza che, anche  al
di fuori della pubblica sicurezza, lo svolgimento adeguato di  taluni
compiti pubblici puo'  richiedere  mezzi  di  potenza  superiore:  si
pensi, per quanto riguarda  settori  di  competenza  regionale,  alla
protezione   civile,   alla   guardia   forestale,    alla    polizia
amministrativa.  La  limitazione  generalizzata   della   cilindrata,
impedendo  di  tenere  conto  della   diversita'   delle   situazioni
operative, viola sia il principio di ragionevolezza,  sia  quello  di
buona amministrazione. 
    Una ulteriore irrazionalita' nell'irrazionalita' consiste poi nel
riferimento alla cilindrata del motore.  Il  dato  della  cilindrata,
infatti, non significa alcunche', ne' di prezzo,  ne'  di  grandezza,
ne' in termini di funzionalita' e prestazioni. Il dato  significativo
- almeno entro certi limiti - e'  semmai  quello  della  potenza,  la
quale in effetti determina le prestazioni e corrisponde  in  generale
ad una scala di prezzo. 
    Una  ulteriore  e  specifica  violazione  del  principio  di  cui
all'articolo 97 Cost. toccherebbe  poi  il  divieto  di  sostituzione
posto dal comma 3, ove esso dovesse essere inteso nel senso che  esso
vale per tutte «le auto oggi in servizio», e non solo per  quelle  di
cilindrata superiore a 1600 c.c. Non si  vede,  infatti,  come  possa
essere vietato in generale di sostituire le auto di  servizio,  senza
che alla lunga divenga impossibile  svolgere  qualunque  servizio,  a
prescindere dalla sua necessita'. 
    Secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, la  Regione
e' abilitata a denunciare in via principale violazioni anche di norme
costituzionali di per se' estranee al riparto di  competenze,  quando
tali  violazioni  si  traducano  comunque  in  lesione   di   proprie
attribuzioni. E' cio' che  si  verifica  con  le  incostituzionalita'
evidenziate:  le  disposizioni  dei  commi  1  e  2,  a  causa  e  in
conseguenza diretta della loro  irragionevolezza  e  contrarieta'  al
principio di buon andamento, impediscono od ostacolano lo svolgimento
di taluni compiti, regolati dalla Regione nell'ambito  della  propria
autonomia legislativa, e ad essa spettanti sulla  base  dei  principi
dell'art. 118 Cost. 
    Anche il comma 4 risulta costituzionalmente illegittimo. 
    Esso e' illegittimo, in primo luogo, nella parte in  cui  prevede
che sia un organo statale a dettare «modalita' e limiti di  utilizzo»
delle vetture che operano  al  servizio  della  Regione,  degli  enti
locali e degli enti collegati.  La  stranezza  anzi  appare  tale  da
costituire indizio che l'effettiva intenzione del  legislatore  fosse
di limitare il vincolo alle sole amministrazioni statali. 
    Sembra infatti chiaro che - nei limiti delle risorse  di  cui  le
Regioni (e gli enti locali)  legittimamente  dispongono  -  sono  gli
organi responsabili a dover prescrivere tali modalita' e  limiti,  in
modo da rientrare nel budget. 
    Inoltre, ove la disposizione dovesse riferirsi anche alle vetture
delle Regioni ed enti locali,  essa  sarebbe  illegittima  anche  per
violazione dell'articolo 117, comma 6, Cost., in  quanto  prevede  in
materia regionale un atto amministrativo  di  natura  sostanzialmente
regolamentare, dal quale si dovrebbero dedurre vincoli a carico della
Regione stessa. Anche ammessa la  finalita'  di  coordinamento  della
finanza pubblica, essa  non  potrebbe  essere  perseguita  attraverso
regolamenti vincolanti l'autonomia regionale. 
    Ancora di recente, codesta  ecc.ma  Corte  ha  ribadito  che  «la
sussistenza di un ambito materiale di competenza concorrente comporta
che non e' consentita, ai sensi del sesto comma dell'art.  117  della
Costituzione che attua il principio di separazione delle  competenze,
l'emanazione di  atti  regolamentari»  (sent.  n.  200/2009),  e  che
prescrizioni  contenute  in  un  regolamento  «non   possono   essere
considerate  espressione  di  principi  fondamentali  della   materia
concorrente [...], per la inidoneita'  della  fonte  regolamentare  a
fissare detti principi» (sent. n. 92/2011). 
    In subordine, qualora in denegata ipotesi si dovesse ammettere la
possibilita' che tali vincoli derivino  da  un  atto  secondario,  la
disposizione rimarrebbe comunque illegittima in quanto l'articolo  2,
comma  4,  non  prevede  alcun  coinvolgimento  delle  Regioni,   con
violazione del principio costituzionale di leale collaborazione. 
2. Illegittimita' costituzionale dell'art. 16, comma 1,  lettere  b),
c), d), e) ed f). 
    L'art. 16, comma 1, del d.l. n. 98/2001, affida  ad  uno  o  piu'
regolamenti di delegificazione ex articolo  17,  comma  2,  legge  n.
400/1988  il  compito  di  dettare  misure  di  «razionalizzazione  e
contenimento della spesa in materia di pubblico impiego.». 
    Tra l'altro, queste misure prevedono la possibilita' di: 
        lett. b): prorogare fino  al  31  dicembre  2014  le  vigenti
disposizioni che limitano la crescita dei trattamenti economici anche
accessori del personale delle pubbliche amministrazioni; 
        lett.  c):  fissare  le   modalita'   di   calcolo   relative
all'erogazione dell'indennita' di vacanza contrattuale per  gli  anni
2015-2017; 
        lett. d): semplificare, rafforzare e rendere obbligatorie  le
procedure   di   mobilita'   del   personale   tra    le    pubbliche
amministrazioni; 
        lett.   e):   differenziare   l'ambito   applicativo    delle
disposizioni di cui alle lettere a) e b), in ragione dell'esigenza di
valorizzare ed incentivare l'efficienza di determinati settori; lett.
f): includere tutti i  soggetti  pubblici  -  escluse  unicamente  le
regioni e le province autonome e  gli  enti  del  servizio  sanitario
nazionale - fra gli enti destinatari in via diretta delle  misure  di
razionalizzazione  della  spesa,  in  particolare   quelle   previste
dall'articolo 6 d.l. n.  78/2010,  n.  78  (convertito  in  legge  n.
122/2010). 
    E' agevole constatare che tali misure, pur  non  essendo  rivolte
specificamente alle Regioni, le riguardano direttamente: la lett.  b)
e  d)  in  quanto  il  trattamento  economico  del  personale  incide
sull'organizzazione  e  sulla  finanza  regionale;   la   lett.   d),
specificamente, in quanto la disciplina della mobilita' incide  sulla
possibilita'  e  sulle  modalita'  del  reclutamento  del   personale
regionale, e dunque sulla autonomia organizzativa della  Regione  (si
pensi ad esempio ai  delicati  problemi  del  settore  sanitario,  in
relazione all'urgenza ed  alla  specificita'  delle  professionalita'
richiesta); la lett. e) perche' la sua applicazione  puo'  portare  i
settori di competenza regionale ad essere discriminati rispetto  agli
altri, con conseguenze sulla funzionalita' dei servizi. 
    Non le riguarda direttamente la lett. f),  e  tuttavia  la  norma
rimane comunque lesiva, in quanto contempla la  possibilita'  che  le
misure restrittive possano essere applicate  direttamente  agli  enti
dipendenti dalla Regione.  Inoltre,  la  stessa  lettera,  nella  sua
genericita',  rende  possibile  estendere  agli  enti  locali  misure
restrittive delle quali esse non fossero  sinora  destinatari:  sotto
questo  profilo  la  Regione  impugna  a   difesa   della   autonomia
costituzionale  ad   essi   riconosciuta.   D'altronde,   le   misure
restrittive incidono sulla possibilita' di tali enti di  svolgere  le
attivita' ed i servizi di interesse regionale. 
    Ad avviso della  ricorrente  Regione  tale  disposizione  risulta
costituzionalmente  illegittima,   sotto   i   profili   di   seguito
illustrati. 
    Nella   individuazione   della   «materia»   costituzionale    di
riferimento  delle  disposizioni  ora  indicate  e'  necessario  fare
riferimento all'insegnamento di codesta  Corte,  la  quale  anche  di
recente ha ribadito come «per la identificazione della materia in cui
si colloca la disposizione impugnata, questa  va  individuata  avendo
riguardo all'oggetto o alla disciplina da essa stabilita, sulla  base
della sua  ratio,  senza  tenere  conto  degli  aspetti  marginali  e
riflessi» (sentenza n. 235/2010). 
    Sulla base di tale criterio, e' la stessa disposizione  impugnata
a  rendere  palese   la   propria   finalita'   di   «assicurare   il
consolidamento delle misure di razionalizzazione e contenimento della
spesa» (art. 16, comma  1,  cit.):  ne  consegue  che  le  misure  in
questione  risultano  chiaramente  riconducibili  alla  materia   del
coordinamento della finanza pubblica di cui  all'art.  117  comma  3,
Cost.. 
    Tuttavia, esse risultano violare  i  principi  costituzionali  di
tale materia, sia sotto il profilo formale che quello sostanziale. 
    Per  quanto   riguarda   innanzitutto   l'aspetto   formale   (in
particolare, del tipo di fonte normativa impiegata), e' evidente  che
i principi statali di tale materia dovrebbero essere fissati con atto
avente rango  legislativo  (in  accordo  con  la  regola  recata  dal
medesimo  comma  3,  secondo  cui  nelle  materie   di   legislazione
concorrente la determinazione dei principi fondamentali e' «riservata
alla legislazione dello Stato»). Tanto piu' ove  si  rammenti  che  -
nelle materie di legislazione concorrente - la potesta' regolamentare
e' inutilizzabile da parte statale, essendo a priori  riservata  alle
Regioni ex art. 117, comma 6, Cost. 
    In violazione di tali regole, al contrario,  la  norma  impugnata
rimette invece la definizione  delle  misure  di  contenimento  della
spesa pubblica alla fonte regolamentare. 
    Di qui, una prima ragione di illegittimita' costituzionale. 
    Ma le disposizioni impugnate risultano altresi'  illegittime  per
un secondo ordine di ragioni. 
    Come noto, infatti, codesta Corte ha chiaramente stabilito che il
legislatore   statale,   con   «disciplina   di   principio»,    puo'
legittimamente  «imporre  agli  enti   autonomi,   per   ragioni   di
coordinamento   finanziario   connesse   ad   obiettivi    nazionali,
condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle  politiche
di bilancio,  anche  se  questi  si  traducono,  inevitabilmente,  in
limitazioni indirette all'autonomia di spesa degli enti» (sentenze n.
417 del 2005 e n. 36 del 2004). 
    Tuttavia, il rispetto dell'autonomia delle Regioni e  degli  enti
locali richiede che tali vincoli riguardino unicamente l'entita'  del
disavanzo di parte corrente oppure - ma solo «in via  transitoria»  -
la crescita della spesa corrente degli enti autonomi. 
    In definitiva, alla legge statale e' consentito di stabilire solo
un «limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia liberta' di
allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di  spesa»
(sentenze n. 88 del 2006, n. 449 e n. 417 del 2005, n. 36 del  2004).
Su tali basi, codesta Corte ha  riconosciuto  legittime  disposizioni
statali che intervenivano sulla spesa del personale  delle  autonomie
regionali (in considerazione della sua natura di «rilevante aggregato
della  spesa  di  parte  corrente»),  ma  limitandosi   a   prevedere
l'ammontare complessivo del risparmio (in quel caso, in  particolare,
si prevedeva che le Regioni - e non certo un regolamento governativo!
-  adottassero  «misure  necessarie  a  garantire  che  le  spese  di
personale [...] non superino per ciascuno degli  anni  2006,  2007  e
2008 il corrispondente ammontare dell'anno 2004 diminuito dell'1  per
cento»: art. 1, comma 198, legge n. 266/2005). 
    Tale disposizione statale e' stata fatta salva da  codesta  Corte
in  considerazione  del  fatto  che  essa  «non  prescrive  ai   suoi
destinatari alcuna modalita' per il conseguimento  dell'obiettivo  di
contenimento della spesa  per  il  personale,  ma  lascia  libere  le
Regioni  di  individuare  le   misure   a   tal   fine   necessarie»,
differenziandosi  cosi'   da   precedenti   disposizioni   dichiarate
incostituzionali, in quanto recanti  «limiti  puntuali  a  specifiche
voci di spesa» (sentenza n. 169 del 2007). 
    Nel  presente  caso,  pare  alla  ricorrente   Regione   che   le
disposizioni statali contestate - all'opposto di quanto ora ricordato
- riservino alla  fonte  statale  (regolamentare)  la  specificazione
delle modalita' per il conseguimento degli obiettivi di  contenimento
della spesa pubblica, al contempo privando le  Regioni  di  qualunque
possibilita' di individuare le misure allo scopo necessarie. 
    E' infatti lo Stato a disporre direttamente la  limitazione  alla
crescita  dei   trattamenti   economici   (lett.   b))   (addirittura
riservandosi discrezionalmente di determinare i settori specifici  ai
quali  applicare  tale  limitazione:  lett.   e)),   la   definizione
dell'ammontare dell'indennita' di vacanza contrattuale (lett. c),  il
ricorso  obbligatorio  a  procedure   di   mobilita'   tra   pubblica
amministrazione (lett. d): in tal  modo,  dunque,  non  si  enunciano
principi  della  materia,  ma  si  stabiliscono  concrete  regole  di
dettaglio. 
    Su tale base, le disposizioni indicate risultano incostituzionali
per violazione dell'articolo  117,  comma  3,  Cost.  in  materia  di
coordinamento della finanza pubblica e dell'articolo  114  Cost.  per
lesione dell'autonomia regionale. 
    In subordine, ove si dovesse  ritenere  legittima  la  competenza
statale  relativa  alla  estensione  in  via   amministrativa   delle
specifiche e dettagliate misure di contenimento della  spesa  per  il
personale contenute nelle disposizioni impugnate - ugualmente risulta
evidente che sia la competenza regionale concorrente  in  materia  di
coordinamento della  finanza  pubblica  che  l'evidente  e  rilevante
impatto delle disposizioni statali sull'organizzazione amministrativa
regionale avrebbero richiesto che  la  decisione  in  relazione  alle
misure di contenimento della spesa per il personale fosse subordinata
all'intesa con  la  Conferenza  Stato-Regioni,  secondo  i  ben  noti
principi   codificati   in   materia   da   codesta   ecc.ma    Corte
costituzionale. 
    La mancata  previsione  dell'intesa,  all'opposto,  determina  la
lesione del principio di leale  collaborazione,  in  connessione  con
l'articolo 118 Cost. 
3. Illegittimita' costituzionale dell'articolo 19, comma 4. 
    L'art. 19, comma 4, del decreto n. 98 stabilisce che «al fine  di
garantire un processo  di  continuita'  didattica  nell'ambito  dello
stesso  ciclo  di  istruzione,  a  decorrere   dall'anno   scolastico
2011-2012, la scuola  dell'infanzia,  la  scuola  primaria  e  quella
secondaria di primo grado sono aggregate in istituti comprensivi, con
la conseguente soppressione delle  istituzioni  scolastiche  autonome
costituite separatamente da direzioni didattiche e scuole  secondarie
di primo grado»; dispone altresi' che «gli istituti  comprensivi  per
acquisire l'autonomia  devono  essere  costituiti  con  almeno  1.000
alunni, ridotti a 500 per le istituzioni site  nelle  piccole  isole,
nei  comuni  montani,  nelle  aree  geografiche   caratterizzate   da
specificita' linguistiche». 
    Tali regole (la necessita' che le istituzioni scolastiche abbiano
un assetto organizzativo di carattere «comprensivo», il numero minimo
di alunni per scuola, la riduzione, in certi casi, del numero minimo)
riguardano   l'offerta   formativa,   la    programmazione    e    il
dimensionamento  della   rete   scolastica:   tutti   aspetti   della
organizzazione  scolastica,  ricadente  nella  materia  «istruzione»,
oggetto di potesta' regionale  concorrente,  ai  sensi  dell'articolo
117, comma 3, Cost. Sul punto la giurisprudenza costituzionale appare
assolutamente costante (da ultimo v. la sent. 92/2011, punto 7.1; tra
le precedenti v. le sentt. nn. 200/2009, 34/2005, punto 7, 13/2004). 
    E' invece  escluso  che  esse  siano  riconducibili  alle  «norme
generali sull'istruzione» riservate allo Stato. Esse  non  toccano  i
«cicli» dell'istruzione, non regolano in alcun modo le «articolazioni
cicliche» e le «finalita' ultime» del  sistema  dell'istruzione.  Non
riguardano «la previsione generale del contenuto dei programmi  delle
varie fasi e dei vari cicli del sistema»,  ne'  «la  regolamentazione
delle prove che consentono il passaggio ai diversi  cicli»,  ne'  «la
valutazione periodica degli apprendimenti e del  comportamento  degli
studenti del sistema  educativo  di  istruzione  e  formazione»  (per
riprendere   taluni   contenuti   delle   «norme   generali»,    come
puntualizzati dalla sent. n. 200/2009). Cosi' individuata la  materia
di riferimento, e' da escludere che  il  censurato  comma  4  esprima
principi  fondamentali  nella  materia  dell'istruzione.  Occorre  in
proposito ricordare che - con considerazione  delle  peculiarita'  di
tale materia  (anche  alla  luce  «norme  generali  sull'istruzione»,
attribuite alla competenza esclusiva dello Stato) - la Corte ha avuto
modo di individuare lo spazio specifico della legislazione  regionale
nelle «valutazioni coinvolgenti le  specifiche  realta'  territoriali
delle Regioni,  anche  sotto  il  profilo  socioeconomico»;  cio'  si
traduce - sul piano della struttura dei  principi  -nella  necessita'
che essi lascino spazio per una attuazione regionale, e non  per  una
pura attivita' di esecuzione (sent. n. 200/2009). In  altri  termini,
in  ordine  al  dimensionamento  della   rete   scolastica   sussiste
costituzionalmente  uno  «spazio»  non  occupabile  dallo  Stato.  Si
potrebbe dire che - come in certi casi taluni contenuti normativi non
possono non essere «di  principio»  (con  radicale  esclusione  della
legislazione regionale: sent. n. 438/2008) - cosi',  simmetricamente,
taluni contenuti normativi non possono che essere «di dettaglio» (con
esclusione - in relazione a quei contenuti - della potesta' statale). 
    Poste tali  premesse,  ad  avviso  della  ricorrente  Regione  le
disposizioni impugnate non superano il test di legittimita'. 
    Cio' vale in primo luogo per  la  prima  norma  ricavabile  dalla
disposizione impugnata, la norma secondo la quale non possono esservi
istituzioni scolastiche autonome che non riguardino insieme la scuola
dell'infanzia, la scuola primaria e quella secondaria di primo grado,
escludendo radicalmente e in via assoluta qualunque  possibilita'  di
apprezzamento delle particolarita' locali,  imponendo  una  attivita'
regionale di mera esecuzione. Al contrario, tale imposizione non puo'
giustificarsi - come fa la disposizione impugnata - sulla base di  un
criterio di «continuita' didattica», la quale non e' ne' favorita ne'
ostacolata dalla autonomia dell'organizzazione scolastica (del  resto
tale arbitraria giustificazione e' contraddetta dalla stessa  rubrica
dell'art. 19, che fa piu' sincero riferimento alla «razionalizzazione
della spesa relativa all'organizzazione scolastica»). 
    Invece, la norma in questione rende mere appendici  organizzative
scuole che hanno una identita' ed una tradizione,  che  costituiscono
esse stesse una risorsa. Ne' puo' essere giustificata sulla  base  di
un vincolo finanziario, dal momento che  le  decisioni  regionali  si
svolgono sempre all'interno di un  quadro  di  risorse  organizzative
deciso insieme allo Stato o direttamente dallo Stato. 
    Le norme sul numero minimo di alunni, per parte  loro,  vincolano
anch'esse in modo rigido, senza una ragione razionale,  le  possibili
scelte  regionali,  da  effettuare  sulla  base  da  un  lato   della
valutazione delle risorse disponibili - a partire dalla  risorsa  del
personale, determinata dallo Stato (vincolo che qui non si  contesta)
- dall'altro delle caratteristiche  locali.  Anche  in  questo  caso,
dunque, non si tratta di  un  principio,  ma  della  definizione  dei
dettagli che precludono l'esercizio di scelte  che  sono  la  ragione
stessa dell'autonomia che la Costituzione riserva alle Regioni. 
    La censura non viene certo meno per il fatto che il vincolo posto
alle Regioni e' differenziato per le  piccole  isole,  per  i  comuni
montani e per le aree geografiche  caratterizzate  da  particolarita'
linguistiche: la logica, infatti, e' sempre quella del limite rigido,
fissato in generale per tutte le «piccole» isole, per tutti i  Comuni
montani, per  tutte  le  aree  linguisticamente  particolari.  Ed  e'
inoltre escluso che altre ragioni possano giustificare un  bacino  di
studenti  piu'   ridotto   per   l'istituzione   scolastica,   mentre
peculiarita' locali meritevoli di apprezzamento  sussistono  (possono
sussistere) in tutto il territorio (si pensi  alla  diversita'  nella
densita' demografica, nella rete  dei  trasporti  e  dei  servizi  in
genere, nella provenienza sociale degli alunni, ecc.). Sembra  chiaro
che se si tolgono alle  Regioni  queste  scelte,  si  compromette  la
ragione stessa della loro competenza costituzionale. 
    Del resto, conferma dello spessore della competenza regionale  in
materia di istruzione, e della  impossibilita'  di  riconoscere  alle
regole  sul  dimensionamento  degli  istituti  natura   di   principi
fondamentali, si ha nella  normativa  precedente  all'intervento  del
decreto-legge n. 98, come letta dalla giurisprudenza costituzionale. 
    Gia' anteriormente alla riforma del titolo V, il regolamento  del
d.P.R.  18  giugno  1998,  n.  233  riconosceva  che  i   «piani   di
dimensionamento delle istituzioni scolastiche ...  sono  definiti  in
conferenze provinciali di organizzazione della rete  scolastica,  nel
rispetto degli indirizzi di programmazione e  dei  criteri  generali,
riferiti anche agli  ambiti  territoriali,  preventivamente  adottati
dalle regioni  (art.  3,  comma  1:  norma  valorizzata  dalla  Corte
costituzionale con la sent.  n.  34/2005,  che  ha  ritenuto  non  in
contrasto  con  la  Costituzione  la   disposizione   della   Regione
Emilia-Romagna, per  la  quale  spetta  al  Consiglio  regionale,  su
proposta della  Giunta,  approvare  i  "criteri  per  la  definizione
dell'organizzazione della rete scolastica, ivi compresi  i  parametri
dimensionali  delle  istituzioni  scolastiche");  d'altro  canto,  la
"popolazione, consolidata e prevedibilmente  stabile  almeno  per  un
quinquennio, compresa tra 500 e 900 alunni" - che l'art. 2, comma  2,
dello stesso regolamento  indicava  come  parametro  per  riconoscere
autonomia all'istituzione, valeva - testualmente - solo  "di  norma":
lasciando quindi ampio spazio di adattamento normativo  alla  realta'
locale. 
    Successivamente  alla  riforma  costituzionale   del   2001,   il
regolamento 20 marzo 2009, n. 81 (art. 1, comma 1) ha  stabilito  che
«alla definizione dei criteri e dei parametri per il  dimensionamento
della  rete  scolastica  e  per  la  riorganizzazione  dei  punti  di
erogazione del servizio scolastico» si provvedera'  con  regolamento,
adottato «previa intesa in sede di Conferenza unificata», sulla  base
dell'articolo 64, comma 4-quinquies, d.l. n. 112/2008, conv. in legge
n. 133/2008. Sennonche', la base legislativa  costituita  dal  citato
comma 4-quinquies si limita a rinviare al precedente comma 4, lettera
f-ter), dichiarato incostituzionale con la sent. n. 200/2009. 
    Ancora: il decreto-legge n. 112/2008 (articolo 64, comma 4, lett.
f-bis) rimetteva ad un regolamento la «definizione di criteri,  tempi
e modalita' per la  determinazione  e  articolazione  dell'azione  di
ridimensionamento  della  rete  scolastica  ...»:   ma   anche   tale
disposizione e' caduta sotto la censura della sent. n. 200/2009. 
    Ora, al di la' della incostituzionalita' di tali previsioni, esse
dimostrano che per lo Stato  stesso  il  dimensionamento  della  rete
scolastica era «questione» regolamentare, questione che come tale  e'
stata assunta nel riparto  delle  competenze  attuato  con  il  nuovo
Titolo  V,  e  come  tale  e'  stata  considerata  fino   all'odierno
intervento legislativo. 
    Ancora,  le  disposizioni  impugnate  non  possono  giustificarsi
neppure come espressione di  coordinamento  della  finanza  pubblica,
come pure la rubrica sopra ricordata dell'art. 19 potrebbe indurre  a
credere. 
    Anzitutto,  esse  non  pongono  limiti  alla  complessiva   spesa
regionale,  o  ad  aggregati  significativi  della  stessa,  tali  da
consentire alla Regione adeguati spazi per  un  autonomo  adeguamento
(come vuole la giurisprudenza richiamata al punto 1). 
    In secondo luogo, occorre tenere conto del fatto che la autonomia
regionale sulla organizzazione della rete scolastica si  esplica  nel
rispetto del contingente  di  personale  complessivamente  attribuito
dallo Stato alla rete della Regione:  come  risulta  confermato,  tra
l'altro, dal comma 7 dell'articolo 19 (non impugnato dalla  Regione),
secondo il quale  «a  decorrere  dall'anno  scolastico  2012/2013  le
dotazioni organiche del personale docente,  educativo  ed  ATA  della
scuola non devono superare la consistenza  delle  relative  dotazioni
organiche dello stesso  personale  determinata  nell'anno  scolastico
2011/2012 in  applicazione  dell'articolo  64  del  decreto-legge  25
giugno 2008, n. 112, convertito, con  modificazioni,  dalla  legge  6
agosto 2008, n. 133, assicurando in ogni caso, in ragione di anno, la
quota delle economie lorde  di  spesa  che  devono  derivare  per  il
bilancio dello Stato,  a  decorrere  dall'anno  2012,  ai  sensi  del
combinato disposto di cui ai commi 6 e 9  dell'articolo  64  citato».
Dunque, il coordinamento finanziario esiste, e' assicurato  da  altri
strumenti, e nulla ad esso aggiungono le disposizioni impugnate. 
    Una ulteriore censura,  aggiuntiva  rispetto  a  quelle  sin  qui
illustrate, riguarda la dimensione temporale dell'applicazione  delle
norme qui censurate. 
    Il comma  4  pretende  che  le  proprie  norme  trovino  concreta
applicazione,  con  la   aggregazione-soppressione   di   istituzioni
scolastiche, a decorrere dall'anno scolastico 2011- 2012. 
    Esse dunque intervengono a meno di due mesi dall'inizio dell'armo
scolastico a  sconvolgere  una  programmazione  e  un  assetto  della
organizzazione scolastica gia' definite all'inizio  dell'anno,  anche
in funzione di scelte consapevoli da parte degli alunni e delle  loro
famiglie, scelte che su tali basi sono state effettuate. 
    Esse risultano quindi irragionevoli, in violazione del  principio
ricavabile  dall'articolo   3;   tale   irragionevolezza,   incidendo
immediatamente  e  traducendosi  nella  vanificazione  delle   scelte
organizzative legittimamente operate dalla Regione, si traduce in una
lesione delle sue competenze. 
    Infine, l'impropria assunzione a livello legislativo, come se  si
trattasse di principi fondamentali anziche'  di  scelte  operative  e
concrete, destinate ad incidere in modo dettagliato e  diretto  sulle
realta' particolari, risulta illegittima anche perche'  preclude  che
vi sia, in applicazione di veri principi stabiliti dalla  legge,  una
sede di confronto e di concertazione tra lo Stato e le  Regioni,  per
gli eventuali aspetti che ne richiedano  la  collaborazione,  in  una
situazione  in  cui  malgrado  l'art.   117,   terzo   comma,   della
Costituzione,  la  materia  dell'istruzione  non  ha  ancora  trovato
compiuta regionalizzazione: s'intende ferma  l'unicita'  delle  norme
generali e dei principi comuni nella materia. 
    In  altre  parole,  la  forma   legislativa,   costituzionalmente
necessaria per i  principi  fondamentali,  si  rivela  invece  lesiva
dell'autonomia regionale quando si sostituisca a scelte che  spettano
alla Regione, o che in subordine debbono essere affidate a  procedure
amministrative di collaborazione. 
4. Illegittimita' costituzionale dell'art. 30, commi 1 e 3. 
    L'articolo 30 del decreto n. 98, dedicato al Finanziamento  della
banda larga, stabilisce che «il Ministero dello  sviluppo  economico,
con il concorso delle imprese e gli enti titolari di reti e  impianti
di comunicazione elettronica fissa o mobile, predispone  un  progetto
strategico nel quale, sulla  base  del  principio  di  sussidiarieta'
orizzontale e di partenariato pubblico-privato, sono individuati  gli
interventi  finalizzati  alla  realizzazione  dell'infrastruttura  di
telecomunicazione a banda  larga  e  ultralarga,  anche  mediante  la
valorizzazione,   l'ammodernamento   e   il    coordinamento    delle
infrastrutture esistenti» (comma 1). 
    Il comma  2  (non  impugnato)  dispone  che  l'Autorita'  per  le
garanzie nelle  comunicazioni  e'  competente  alla  definizione  del
sistema tariffario. 
    Il comma 3 affida ad un decreto  del  Ministro  per  lo  sviluppo
economico,di concerto con il Ministro dell'economia e delle  finanze,
l'adozione  dei  «provvedimenti  necessari  per  l'attuazione   delle
disposizioni dei commi precedenti». 
    L'articolo prevede dunque la predisposizione e  la  realizzazione
di  interventi  infrastrutturali,  ricadenti  prevalentemente   nelle
materie ordinamento delle comunicazioni  e  governo  del  territorio,
attribuite alla potesta'  legislativa  concorrente,  in  ordine  alla
quale, a termini dell'art. 117, terzo comma,  Cost.,  lo  Stato  puo'
soltanto determinare i principi fondamentali  della  materia,  salva,
come subito si dira', l'applicazione del principio di  sussidiarieta'
ove ne ricorrano i presupposti. 
    Nel caso, e' da escludere che si  sia  in  presenza  di  principi
fondamentali.  Non  solo  l'articolo  non  lascia  alcuno  spazio  di
svolgimento alla Regione, ma - a ben considerare - esso non norma  un
settore della materia, con disciplina che sia  destinata  a  ricevere
successive  e  ripetute  applicazioni,  ma   prevede   piuttosto   un
intervento concreto, per la cui  compiuta  ed  ulteriore  regolazione
rinvia ad un successivo decreto  interministeriale.  Naturalmente  la
Regione  non  nega  che  il  potenziamento  della  infrastruttura  di
telecomunicazione a  banda  larga  ed  ultralarga  sia  di  interesse
generale, e sia compito che puo' essere perseguito con  strumenti  di
rilievo   nazionale.    Allo    scopo,    l'articolo    118    Cost.,
nell'interpretazione datane dalla Corte,  consente  la  «chiamata  in
sussidiarieta'»  a  favore  dello  Stato  di  funzioni  normative  ed
amministrative in via di regola spettanti alla Regione,  quando  cio'
sia necessario per un piu' adeguato svolgimento. Nel caso, pero', non
sussistono i presupposti per la chiamata  in  sussidiarieta',  ne'  -
comunque  -  sono  previsti  gli  strumenti  collaborativi   che   la
attrazione allo Stato avrebbe richiesto (sent. n. 6/2004). 
    Non sussistono i presupposti perche'  l'intervento  dell'articolo
30, nei termini in cui esso e' previsto ed organizzato,  non  e'  ne'
pertinente rispetto alla finalita' perseguita, ne' proporzionato. 
    La chiamata in sussidiarieta' implica  che  lo  Stato  assuma  in
proprio un determinato  compito,  o  comunque  abbia  il  governo  di
strumenti  che  ragionevolmente  assicurino  il  raggiungimento   del
risultato stabilito. Secondo la disposizione  impugnata,  invece,  il
«progetto strategico» poggia, testualmente, «sulla base del principio
di sussidiarieta' orizzontale e  di  partenariato  pubblico-privato»:
esso  dunque  implica  necessariamente  l'intervento   del   capitale
privato, la cui disponibilita' - sia nella dimensione, sia nei  tempi
- e' del tutto incerta. La aleatorieta' degli interventi trova  altre
due conferme testuali. La prima, nel secondo periodo del comma 2, per
il  quale  «l'Autorita'  per  le  garanzie  nelle  comunicazioni   e'
competente  alla  definizione  del  sistema  tariffario  in  modo  da
incentivare  gli  investimenti  necessari  alla  realizzazione  della
predetta  infrastruttura  nazionale  e  da  assicurare  comunque  una
adeguata remunerazione dei capitali investiti». L'assoluta assenza di
un vero impegno statale e' espressa poi  nel  modo  piu'  chiaro  dal
comma 5, secondo  cui  «dall'attuazione  del  presente  articolo  non
devono derivare nuovi o maggiori oneri per il bilancio dello Stato». 
    Oltre a cio', la misura non  e'  affatto  proporzionata  rispetto
allo scopo: non  vi  sono  motivi  per  escludere  la  Regione  dalla
attuazione del progetto, anche ammesso che  la  sua  definizione  sia
legittimamente spostata al livello centrale. Giova ricordare  che  la
Corte costituzionale, con la recente sent. n. 215/2010, ha  annullato
una norma statale in larga parte simile a quella ora  impugnata,  che
prevedeva  interventi   nella   materia   della   produzione,   della
trasmissione e della distribuzione di energia, proprio per il mancato
rispetto  delle  condizioni  cui  deve  sottostare  la  chiamata   in
sussidiarieta'. 
    In  ogni   caso,   la   costante   giurisprudenza   della   Corte
costituzionale ha stabilito che  in  forza  dell'art.  118  Cost.  la
legislazione regionale possa  si'  «venire  spogliata  della  propria
capacita' di disciplinare  la  funzione  amministrativa  attratta  in
sussidiarieta'», ma soltanto «a condizione  che  cio'  si  accompagni
alla previsione di un'intesa in sede di esercizio della funzione, con
cui poter recuperare un'adeguata autonomia, che l'ordinamento riserva
non  gia'  al  sistema  regionale  complessivamente  inteso,   quanto
piuttosto alla specifica Regione che sia stata privata di un  proprio
potere»: cosi' la sent. n. 278/2010 (ma v.  anche,  a  partire  dalla
sent. n. 303/2003, le sentt. nn. 6/2004, 62/2005, 383/2005). 
    In altre parole, alla assunzione del compito da parte dello Stato
-  non  essendo  da  sola  la  Regione  in   grado   di   realizzarlo
efficacemente  -   deve   accompagnarsi   la   procedura   di   leale
collaborazione nella sua attuazione amministrativa. 
    Ora, e' stupefacente, nel caso in questione, che lo Stato con  il
comma 3 intervenga in  una  materia  della  Regione,  prevedendo  «il
concorso delle imprese e gli enti titolari  di  reti  e  impianti  di
comunicazione elettronica fissa o  mobile»,  e  non  riconosca  alcun
ruolo ne' alla Regione direttamente interessata, ne' al sistema delle
Regioni. 
    In via subordinata, per il  caso  che  -  nonostante  il  mancato
impegno  dello  Stato  -  si  potesse  riconoscere   come   legittima
l'attrazione  in  sussidiarieta',  rimane  ad  avviso  della  Regione
evidente la incostituzionalita' - per violazione  dell'articolo  118,
comma  1,  Cost.,  e  del  principio  di   leale   collaborazione   -
dell'articolo 30, commi l e 3, nella parte in cui non  prevedono  che
la predisposizione del progetto strategico avvenga  d'intesa  con  la
Conferenza  Stato-Regioni,  e  la  sua  realizzazione  concreta   sul
territorio avvenga sulla base di progetto concordato con  la  Regione
interessata. 
5. Illegittimita' costituzionale dell'art. 35, commi 6 e 7. 
    L'articolo 35, comma 6, novellando l'articolo 3, comma 2, d.l. n.
223/2006 (conv. dalla legge n.  248/2006),  stabilisce  che  «in  via
sperimentale», quando l'esercizio sia  «ubicato  nei  comuni  inclusi
negli elenchi regionali delle localita' turistiche o citta'  d'arte»,
le attivita'  commerciali  e  le  attivita'  di  somministrazione  di
alimenti e bevande, sono svolte «senza il  rispetto  degli  orari  di
apertura  e  di  chiusura,  l'obbligo  della  chiusura  domenicale  e
festiva,  nonche'   quello   della   mezza   giornata   di   chiusura
infrasettimanale dell'esercizio». 
    Sembra evidente che, per quanto riguarda le localita'  turistiche
e le citta' d'arte, la norma non lascia alla  Regione  alcuno  spazio
per una qualunque disciplina degli orari del commercio, dato  che  la
legge statale impone... che non ve ne sia alcuna. 
    Sicche' neppure risulta chiaro che cosa poi  possa  intendere  la
disposizione quando al comma 7 dell'art. 35 enuncia che «le regioni e
gli enti  locali  adeguano  le  proprie  disposizioni  legislative  e
regolamentari alla disposizione introdotta dal comma 6 entro la  data
del l ° gennaio 2012».  La  «liberalizzazione»  del  comma  6  appare
invece autosufficiente ed autoapplicativa, e non necessitare di alcun
adeguamento (che non sia - per mere esigenze di «pulizia»  dei  testi
normativi - la abrogazione espressa di precedenti norme difformi). Il
comma 7 e' conseguentemente impugnato nella parte in cui conferma  la
regola del comma precedente, e per i medesimi motivi. 
    I due  commi  pongono  dunque,  semplicemente,  un  divieto  alle
Regioni di disciplinare il commercio  nelle  localita'  turistiche  e
nelle citta' d'arte. Tuttavia, la materia  del  commercio,  come  del
resto quella del turismo, spettano alla  competenza  residuale  della
Regione, ai sensi dell'art. 117, comma 4, Cost. 
    In termini generali, che spetti alla Regione la disciplina  degli
orari non e' controverso: nella sentenza n. 150 del 2011 si da'  atto
che «di recente, in piu' occasioni, questa Corte ha affermato che  la
disciplina degli  orari  degli  esercizi  commerciali  rientra  nella
materia "commercio" (sentenze n. 288 del 2010 e n. 350 del 2008),  di
competenza esclusiva residuale delle Regioni,  ai  sensi  del  quarto
comma dell'art. 117 Cost., e che "il  decreto  legislativo  31  marzo
1998, n. 114  (Riforma  della  disciplina  relativa  al  settore  del
commercio, a norma dell'art. 4, comma 4, della legge 15  marzo  1997,
n. 59), [...], si applica, ai sensi dell'art. 1, comma 2, della legge
5   giugno   2003,   n.   131   (Disposizioni    per    l'adeguamento
dell'ordinamento  della  Repubblica  alla  legge  costituzionale   18
ottobre 2001, n. 3), soltanto alle Regioni che  non  abbiano  emanato
una propria legislazione nella suddetta materia" (sentenze n.  288  e
n. 247 del 2010, ordinanza n. 199 del 2006)». 
    Nel caso specifico, e' poi implicata anche la materia  «turismo»,
di natura residuale, trattandosi degli orari di esercizi  commerciali
siti «nei comuni inclusi  negli  elenchi  regionali  delle  localita'
turistiche o citta' d'arte». 
    Posta tale premessa, la Regione ritiene che non vi sia un  titolo
di competenza statale in grado di giustificare una cosi'  consistente
restrizione della potesta' legislativa regionale,  che  ne  pone  nel
nulla una parte sostanziale. 
    Quanto alla qualificazione che lo stesso legislatore statale  da'
al proprio intervento, si puo' osservare che  il  decreto  n.  98  ha
inserito (con la tecnica  della  novella)  la  c.d.  liberalizzazione
nell'articolo 3,  comma  1,  d.l.  n.  223/2006:  e  la  disposizione
novellata inizia invocando la necessita' «di garantire la liberta' di
concorrenza secondo condizioni di pari opportunita' ed il corretto ed
uniforme  funzionamento  del  mercato,  nonche'  di   assicurare   ai
consumatori finali un livello minimo ed  uniforme  di  condizioni  di
accessibilita' all'acquisto di  prodotti  e  servizi  sul  territorio
nazionale». Attraverso tale inserimento, sembrano evocate le  materie
esclusive statali «tutela della concorrenza»  e  «determinazione  dei
livelli essenziali delle prestazioni», di cui alle lettere e)  ed  m)
dell'articolo 117, comma 2, Cost. 
    A giudizio della Regione ricorrente, i due titoli non sono  pero'
pertinenti, ne' utilmente invocabili, nel caso di cui  alla  presente
controversia. 
    Quanto alla tutela della concorrenza, non si  vede  anzitutto  in
che modo essa possa essere favorita dalla  possibilita'  di  apertura
totale dei negozi, ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni  su
sette. 
    In nessun modo nuovi  operatori  economici  sono  incentivati  ad
entrare nel mercato;  in  nessun  modo  si  impediscono  accordi  tra
esercenti; in nessun modo  si  assicura  una  parita'  tra  operatori
diversa e maggiore rispetto a quella che si ha con la  sottoposizione
di tutti alle medesime regole (anche limitative) circa gli orari e  i
giorni di apertura e chiusura. 
    Al contrario.  Sulla  base  di  dati  di  comune  esperienza,  e'
ragionevolmente  ipotizzabile  che  gia'   nel   medio   periodo   la
disposizione  censurata  provochi  una  diminuzione  degli  operatori
economici  sul  mercato.  La  apertura  continuativa   dell'esercizio
richiede evidentemente una organizzazione del personale che solo  gli
operatori maggiori sono in grado di assicurarsi, con  la  conseguenza
che saranno espulsi dal mercato gli esercizi di minore dimensione,  e
particolarmente quelli a conduzione familiare. Le reazioni  pubbliche
delle categorie interessate dei piccoli e medi operatori e delle loro
associazioni confermano questo dato, del resto evidente (la posizione
contraria di Confcommercio, ad esempio,  puo'  essere  consultata  al
sito
http://www.confcommercio.it/home/SALA-STAMP/Comunicati/124---01.07.20
11-Confcommercio-su-liberalizzazione-orari.doc_cvt.htm ). 
    La norma censurata confonde la «tutela della concorrenza» con  la
«assenza di regole». Nel suo  carattere  estremo  e  semplificatorio,
essa perviene all'effetto opposto a quello voluto - offrire  maggiori
opportunita' di lavoro - e non supera quindi il test della congruita'
rispetto al fine costituzionale perseguibile, con conseguente lesione
delle attribuzioni regionali. 
    La incongruenza rispetto al fine dichiarato si  rivela  anche  in
altri aspetti della disciplina. 
    Posto che, come ora illustrato, la totale assenza di  regole,  ed
il conseguente divieto di una regolamentazione regionale,  appare  in
se stessa  controproducente  ed  illegittima,  un  ulteriore  effetto
distorsivo e' prodotto dalla limitazione della «liberalizzazione»  ai
soli comuni turistici e alle citta' d'arte: la  norma  finisce  cosi'
con il recare vantaggio a taluni operatori rispetto ad altri,  attivi
su territori finitimi. Con cio', non si vuole certo sostenere che non
si possano  avere  ragionevoli  differenziazioni  negli  orari  degli
esercizi, anche  su  base  territoriale,  finalizzate  alla  cura  di
interessi pubblici meritevoli;  ma  simili  differenziazioni  non  si
possono giustificare - da parte dello  Stato  -  con  l'appello  alla
tutela della concorrenza e all'«uniforme funzionamento del  mercato»,
ma vanno invece attentamente calibrate nelle sedi regionali e locali,
tenendo presenti tutti i numerosi interessi  pubblici  e  privati  in
gioco. 
    Tra  l'altro,  la  norma   impugnata   consente   agli   esercizi
commerciali e di somministrazione di alimenti e  bevande  di  operare
senza «il rispetto degli orari di apertura e di chiusura». Ora, tutte
le discipline  del  commercio  hanno  sempre  previsto  l'obbligo  di
aperture minime, nell'interesse pubblico e a tutela dei  consumatori.
A seguito della novella, anche questo obbligo viene meno, e cio'  non
giova affatto alla  «tutela  della  concorrenza»  dato  che  consente
all'esercizio di limitarsi ad aprire nelle fasce orarie ritenute piu'
redditizie, lasciando i consumatori privi di reali alternative  nelle
rimanenti fasce, durante le  quali  altri  operatori  potrebbero  non
avere concorrenti effettivi. Inoltre, e' evidente che l'assenza di un
orario certo e' un ostacolo al commercio, privando gli utenti di ogni
ragionevole certezza di trovare aperto il  negozio  del  quale  hanno
bisogno. 
    In  definitiva,  il  richiamo  alla  concorrenza  e   alle   pari
opportunita' altro non sono  che  clausole  di  stile,  prive  di  un
contenuto sostanziale. 
    Giova ricordare, a tale proposito, la sentenza n. 278  del  2010,
con cui codesta ecc.ma Corte costituzionale  ha  annullato  come  «di
dettaglio» la disposizione statale per  cui  «al  fine  di  garantire
migliori condizioni di competitivita' sul  mercato  internazionale  e
dell'offerta    di     servizi     turistici,     nelle     strutture
turistico-ricettive all'aperto, le installazioni e i  rimessaggi  dei
mezzi mobili di pernottamento, anche  se  collocati  permanentemente,
per l'esercizio dell'attivita', entro il  perimetro  delle  strutture
turistico-ricettive  regolarmente  autorizzate,  purche'  ottemperino
alle specifiche condizioni strutturali e di mobilita' stabilite dagli
ordinamenti regionali, non  costituiscono  in  alcun  caso  attivita'
rilevanti ai fini urbanistici, edilizi e paesaggistici». 
    Ricondotta la norma, in via prevalente, alla materia «governo del
territorio», il richiamo di stile alla competitivita' e alla  offerta
di  servizi  non  e'  servito  a  salvarla  dalla  dichiarazione   di
incostituzionalita',  per  invasione  della  competenza   legislativa
regionale. 
    Altrettanto incongruo appare il  richiamo  alla  lettera  m)  del
secondo comma dell'articolo 117 Cost. Anche ammettendo che  la  norma
costituzionale possa valere a tutelare i  consumatori  nei  confronti
degli imprenditori privati (e la Regione ritiene che cosi' non  sia),
si deve rilevare  che  la  norma  impugnata  non  garantisce  affatto
livelli minimi ed uniformi di prestazioni. 
    Per quanto riguarda i giorni di apertura degli esercizi, il comma
6 non impone la apertura domenicale  e  festiva  (o  in  qualsivoglia
altra giornata), ma semplicemente la  consente:  tutto  il  contrario
della fissazione di un livello minimo ed uniforme  di  condizioni  di
accessibilita'  al  mercato.  Per  quanto  poi  riguarda  gli   orari
giornalieri di apertura e  di  chiusura,  la  contraddizione  con  la
dichiarata finalita' e' ancora piu' evidente: come si e' appena sopra
rilevato, per effetto della nuova disposizione gli esercizi non  sono
piu' tenuti ad alcuna apertura minima. 
    L'uniformita' nell'accesso alle strutture del commercio  e  della
somministrazione   e'   poi   comunque    esclusa    dal    carattere
territorialmente limitato della «liberalizzazione». Inoltre,  proprio
la liberalizzazione e' in se  stessa  un  ostacolo  alla  uniformita'
dell'accesso, dato che il  suo  risultato  e'  la  creazione  di  una
situazioni in cui non vi  e'  piu'  garanzia  di  trovare  ugualmente
aperti i diversi esercizi. 
    Del resto, e conclusivamente, che il comma 6 dell'articolo 35 non
sia di per se' idoneo a conseguire gli  obiettivi  dichiarati  e'  in
qualche modo confessato dal  medesimo  legislatore  statale,  che  ha
introdotto  la  misura  «in   via   sperimentale».   Si   noti:   non
«transitoria», ma «sperimentale». Non sembra  un  titolo  sufficiente
per  procedere  all'esproprio  delle  competenze  regionali.  Se  una
sperimentazione e' opportuna, essa non puo' essere decisa altro che a
livello locale, tenendo conto delle particolarita'  dei  territori  e
delle reti commerciali e distributive. Il legislatore statale avrebbe
eventualmente potuto favorire la sperimentazione, suggerendola  e  ad
esempio istituendo un meccanismo nazionale per valutarne gli effetti:
imporre la «sperimentazione» a tutte le Regioni, privandole  di  ogni
capacita' di disciplina, sembra invece costituire  semplicemente  una
plateale invasione di cio' che la Costituzione  riserva  ad  esse  ed
alle comunita' locali.