Ricorso della Regione Liguria, in persona del Presidente pro tempore, autorizzato con deliberazione della Giunta Regionale n. 1056 del 9 settembre 2011 (doc. 1), rappresentata e difesa, come da procura speciale n. rep. 14438 del 12 settembre 2011 (doc. 2), rogata dal dott. Margherita Poli, Notaio alla residenza in Genova, dall'avv. prof. Giandomenico Falcon di Padova e dall'avv. Luigi Manzi di Roma, con domicilio eletto in Roma presso lo studio dell'Avv. Manzi, in Roma, via Confalonieri, n.5 Contro il Presidente del Consiglio dei ministri per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale del decreto-legge 6 luglio 2011 , n. 98, convertito con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111, recante Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 164 del 16 luglio 2011, con riferimento alle seguenti disposizioni: articolo 2, commi 1, 3 e 4; art. 16, comma 1, lettere: b); c); d); e); f); art. 19, comma 4; art. 30, commi 1 e 3; art. 35, commi 6, e 7; per violazione: della Costituzione, e segnatamente degli articoli: 3; 97; 114; 117, commi 2, 3, 4, 6; 118; dei principi costituzionali di leale collaborazione, ragionevolezza e proporzionalita'; nei modi e per i profili illustrati nel presente ricorso. Fatto Nella Gazzetta Ufficiale n. 164 del 16 luglio 2011 e' stata pubblicata la legge 15 luglio 2011, n. 111, recante Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria, la quale ha convertito in legge, con modificazioni, il decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98. Pur comprendendo le cogenti ragioni finanziarie che hanno determinato il ricorso al predetto decreto, la ricorrente Regione ritiene che talune delle sue disposizioni - e precisamente gli articoli: 2, commi 1, 3 e 4; 16, comma 1, lettere b), c), d), e), 0; 19, comma 4; 30; 35, commi 6 e 7 - siano lesivi delle proprie competenze e costituzionalmente illegittimi, per violazione dei parametri indicati in epigrafe, secondo quanto di seguito illustrato nella parte in Diritto. Sia consentito di osservare soltanto in termini ancora introduttivi - e pur se le considerazioni di ordine puramente economico non possono costituire di per se' ne' oggetto ne' parametro del presente giudizio - che le illegittimita' da cui ad avviso della ricorrente Regione sono affette le disposizioni impugnate possono trovare rimedio attraverso la pronuncia di codesta ecc.ma Corte costituzionale senza che il risultato economico della predetta manovra ne risulti compromesso. Diritto 1. Illegittimita' costituzionale dell'articolo 2, commi 1, 3 e 4. L'articolo 2 del d.l. n. 98/2011 («Auto blu») dispone che «la cilindrata delle auto di servizio non puo' superare i 1600 cc.» (comma 1), che «le auto ad oggi in servizio possono essere utilizzate solo fino alla loro dismissione o rottamazione» - norma di cui non e' per vero facile ipotizzare la violazione - e che esse «non possono essere sostituite» (comma 3) ed infine che «con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione, sono disposti modalita' e limiti di utilizzo delle autovetture di servizio al fine di ridurne numero e costo» (comma 4). Il contesto nel quale l'articolo e' inserito, e la mancanza di una norma che ne disciplini estensione e limiti di un effetto di vincolo a carico della Regione (come invece accade per altri limiti valevoli in via diretta per lo Stato: v. ad es. l'articolo 1, comma 4, sul trattamento economico di titolari di cariche pubbliche), possono far ritenere che l'articolo 2 valga esclusivamente per lo Stato e per gli enti nazionali. Tale conclusione, tuttavia, non puo' dirsi sicura, in quanto il comma 2 dell'articolo 2 - che pur prevede eccezioni alla applicabilita' delle restrizioni alle c.d. «auto blu» - non vi comprende le Regioni e gli enti del «sistema regionale»: e l'eccezione alla regola generale si presta ad una interpretazione restrittiva. Se intesi come riferiti anche alla Regione e agli enti da essa dipendenti, i commi 1, 3 e 4 dell'articolo 2 sono costituzionalmente illegittimi, sotto diversi profili. I commi 1 e 3 sono illegittimi in primo luogo per violazione dell'articolo 117, commi 4 e 3, Cost. Da un lato, infatti, essi incidono nella materia residuale della organizzazione regionale; d'altro lato, non si puo' riconoscere ad essi il carattere di principi fondamentali nella materia concorrente del coordinamento della finanza pubblica, in quanto pongono limiti puntuali ad una singola e minuta voce di spesa, senza lasciare alla Regione alcuno spazio di adeguamento. E che simili limiti non siano principi fondamentali della materia e' stato piu' volte affermato dalla Corte (v. le sentt. nn. 155/2011, 297/2009, 237/2009, 159/2008, 157/2007, 95/2007, 89/2007, 88/2006, 449/2005, 417/2005 e 390/2004). Inoltre, gli stessi commi 1 e 3 dell'articolo 3 sono altresi' illegittimi per violazione del principio di ragionevolezza di cui all'articolo 3 Cost., nonche' del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, di cui all'articolo 97 Cost. Per valutare l'irrazionalita' intrinseca delle disposizioni occorre valutarne l'ambito di applicazione. Ora, mentre nella rubrica dell'articolo 2 si utilizza la non definita espressione «auto blu», i commi dell'articolo precisano che si tratta in generale delle «auto» e delle «autovetture» di sevizio. In altre parole, non si tratta solo dei mezzi a disposizione dei titolari degli organi politici, ma di tutti i mezzi di servizio: come risulta ancora dal comma 3, che eccettua dalla nuova disciplina, oltre alle vetture degli organi costituzionali espressamente indicati, solo «le auto blindate adibite ai servizi istituzionali di pubblica sicurezza». Ebbene, e' un dato evidente e di comune esperienza che, anche al di fuori della pubblica sicurezza, lo svolgimento adeguato di taluni compiti pubblici puo' richiedere mezzi di potenza superiore: si pensi, per quanto riguarda settori di competenza regionale, alla protezione civile, alla guardia forestale, alla polizia amministrativa. La limitazione generalizzata della cilindrata, impedendo di tenere conto della diversita' delle situazioni operative, viola sia il principio di ragionevolezza, sia quello di buona amministrazione. Una ulteriore irrazionalita' nell'irrazionalita' consiste poi nel riferimento alla cilindrata del motore. Il dato della cilindrata, infatti, non significa alcunche', ne' di prezzo, ne' di grandezza, ne' in termini di funzionalita' e prestazioni. Il dato significativo - almeno entro certi limiti - e' semmai quello della potenza, la quale in effetti determina le prestazioni e corrisponde in generale ad una scala di prezzo. Una ulteriore e specifica violazione del principio di cui all'articolo 97 Cost. toccherebbe poi il divieto di sostituzione posto dal comma 3, ove esso dovesse essere inteso nel senso che esso vale per tutte «le auto oggi in servizio», e non solo per quelle di cilindrata superiore a 1600 c.c. Non si vede, infatti, come possa essere vietato in generale di sostituire le auto di servizio, senza che alla lunga divenga impossibile svolgere qualunque servizio, a prescindere dalla sua necessita'. Secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, la Regione e' abilitata a denunciare in via principale violazioni anche di norme costituzionali di per se' estranee al riparto di competenze, quando tali violazioni si traducano comunque in lesione di proprie attribuzioni. E' cio' che si verifica con le incostituzionalita' evidenziate: le disposizioni dei commi 1 e 2, a causa e in conseguenza diretta della loro irragionevolezza e contrarieta' al principio di buon andamento, impediscono od ostacolano lo svolgimento di taluni compiti, regolati dalla Regione nell'ambito della propria autonomia legislativa, e ad essa spettanti sulla base dei principi dell'art. 118 Cost. Anche il comma 4 risulta costituzionalmente illegittimo. Esso e' illegittimo, in primo luogo, nella parte in cui prevede che sia un organo statale a dettare «modalita' e limiti di utilizzo» delle vetture che operano al servizio della Regione, degli enti locali e degli enti collegati. La stranezza anzi appare tale da costituire indizio che l'effettiva intenzione del legislatore fosse di limitare il vincolo alle sole amministrazioni statali. Sembra infatti chiaro che - nei limiti delle risorse di cui le Regioni (e gli enti locali) legittimamente dispongono - sono gli organi responsabili a dover prescrivere tali modalita' e limiti, in modo da rientrare nel budget. Inoltre, ove la disposizione dovesse riferirsi anche alle vetture delle Regioni ed enti locali, essa sarebbe illegittima anche per violazione dell'articolo 117, comma 6, Cost., in quanto prevede in materia regionale un atto amministrativo di natura sostanzialmente regolamentare, dal quale si dovrebbero dedurre vincoli a carico della Regione stessa. Anche ammessa la finalita' di coordinamento della finanza pubblica, essa non potrebbe essere perseguita attraverso regolamenti vincolanti l'autonomia regionale. Ancora di recente, codesta ecc.ma Corte ha ribadito che «la sussistenza di un ambito materiale di competenza concorrente comporta che non e' consentita, ai sensi del sesto comma dell'art. 117 della Costituzione che attua il principio di separazione delle competenze, l'emanazione di atti regolamentari» (sent. n. 200/2009), e che prescrizioni contenute in un regolamento «non possono essere considerate espressione di principi fondamentali della materia concorrente [...], per la inidoneita' della fonte regolamentare a fissare detti principi» (sent. n. 92/2011). In subordine, qualora in denegata ipotesi si dovesse ammettere la possibilita' che tali vincoli derivino da un atto secondario, la disposizione rimarrebbe comunque illegittima in quanto l'articolo 2, comma 4, non prevede alcun coinvolgimento delle Regioni, con violazione del principio costituzionale di leale collaborazione. 2. Illegittimita' costituzionale dell'art. 16, comma 1, lettere b), c), d), e) ed f). L'art. 16, comma 1, del d.l. n. 98/2001, affida ad uno o piu' regolamenti di delegificazione ex articolo 17, comma 2, legge n. 400/1988 il compito di dettare misure di «razionalizzazione e contenimento della spesa in materia di pubblico impiego.». Tra l'altro, queste misure prevedono la possibilita' di: lett. b): prorogare fino al 31 dicembre 2014 le vigenti disposizioni che limitano la crescita dei trattamenti economici anche accessori del personale delle pubbliche amministrazioni; lett. c): fissare le modalita' di calcolo relative all'erogazione dell'indennita' di vacanza contrattuale per gli anni 2015-2017; lett. d): semplificare, rafforzare e rendere obbligatorie le procedure di mobilita' del personale tra le pubbliche amministrazioni; lett. e): differenziare l'ambito applicativo delle disposizioni di cui alle lettere a) e b), in ragione dell'esigenza di valorizzare ed incentivare l'efficienza di determinati settori; lett. f): includere tutti i soggetti pubblici - escluse unicamente le regioni e le province autonome e gli enti del servizio sanitario nazionale - fra gli enti destinatari in via diretta delle misure di razionalizzazione della spesa, in particolare quelle previste dall'articolo 6 d.l. n. 78/2010, n. 78 (convertito in legge n. 122/2010). E' agevole constatare che tali misure, pur non essendo rivolte specificamente alle Regioni, le riguardano direttamente: la lett. b) e d) in quanto il trattamento economico del personale incide sull'organizzazione e sulla finanza regionale; la lett. d), specificamente, in quanto la disciplina della mobilita' incide sulla possibilita' e sulle modalita' del reclutamento del personale regionale, e dunque sulla autonomia organizzativa della Regione (si pensi ad esempio ai delicati problemi del settore sanitario, in relazione all'urgenza ed alla specificita' delle professionalita' richiesta); la lett. e) perche' la sua applicazione puo' portare i settori di competenza regionale ad essere discriminati rispetto agli altri, con conseguenze sulla funzionalita' dei servizi. Non le riguarda direttamente la lett. f), e tuttavia la norma rimane comunque lesiva, in quanto contempla la possibilita' che le misure restrittive possano essere applicate direttamente agli enti dipendenti dalla Regione. Inoltre, la stessa lettera, nella sua genericita', rende possibile estendere agli enti locali misure restrittive delle quali esse non fossero sinora destinatari: sotto questo profilo la Regione impugna a difesa della autonomia costituzionale ad essi riconosciuta. D'altronde, le misure restrittive incidono sulla possibilita' di tali enti di svolgere le attivita' ed i servizi di interesse regionale. Ad avviso della ricorrente Regione tale disposizione risulta costituzionalmente illegittima, sotto i profili di seguito illustrati. Nella individuazione della «materia» costituzionale di riferimento delle disposizioni ora indicate e' necessario fare riferimento all'insegnamento di codesta Corte, la quale anche di recente ha ribadito come «per la identificazione della materia in cui si colloca la disposizione impugnata, questa va individuata avendo riguardo all'oggetto o alla disciplina da essa stabilita, sulla base della sua ratio, senza tenere conto degli aspetti marginali e riflessi» (sentenza n. 235/2010). Sulla base di tale criterio, e' la stessa disposizione impugnata a rendere palese la propria finalita' di «assicurare il consolidamento delle misure di razionalizzazione e contenimento della spesa» (art. 16, comma 1, cit.): ne consegue che le misure in questione risultano chiaramente riconducibili alla materia del coordinamento della finanza pubblica di cui all'art. 117 comma 3, Cost.. Tuttavia, esse risultano violare i principi costituzionali di tale materia, sia sotto il profilo formale che quello sostanziale. Per quanto riguarda innanzitutto l'aspetto formale (in particolare, del tipo di fonte normativa impiegata), e' evidente che i principi statali di tale materia dovrebbero essere fissati con atto avente rango legislativo (in accordo con la regola recata dal medesimo comma 3, secondo cui nelle materie di legislazione concorrente la determinazione dei principi fondamentali e' «riservata alla legislazione dello Stato»). Tanto piu' ove si rammenti che - nelle materie di legislazione concorrente - la potesta' regolamentare e' inutilizzabile da parte statale, essendo a priori riservata alle Regioni ex art. 117, comma 6, Cost. In violazione di tali regole, al contrario, la norma impugnata rimette invece la definizione delle misure di contenimento della spesa pubblica alla fonte regolamentare. Di qui, una prima ragione di illegittimita' costituzionale. Ma le disposizioni impugnate risultano altresi' illegittime per un secondo ordine di ragioni. Come noto, infatti, codesta Corte ha chiaramente stabilito che il legislatore statale, con «disciplina di principio», puo' legittimamente «imporre agli enti autonomi, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all'autonomia di spesa degli enti» (sentenze n. 417 del 2005 e n. 36 del 2004). Tuttavia, il rispetto dell'autonomia delle Regioni e degli enti locali richiede che tali vincoli riguardino unicamente l'entita' del disavanzo di parte corrente oppure - ma solo «in via transitoria» - la crescita della spesa corrente degli enti autonomi. In definitiva, alla legge statale e' consentito di stabilire solo un «limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia liberta' di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa» (sentenze n. 88 del 2006, n. 449 e n. 417 del 2005, n. 36 del 2004). Su tali basi, codesta Corte ha riconosciuto legittime disposizioni statali che intervenivano sulla spesa del personale delle autonomie regionali (in considerazione della sua natura di «rilevante aggregato della spesa di parte corrente»), ma limitandosi a prevedere l'ammontare complessivo del risparmio (in quel caso, in particolare, si prevedeva che le Regioni - e non certo un regolamento governativo! - adottassero «misure necessarie a garantire che le spese di personale [...] non superino per ciascuno degli anni 2006, 2007 e 2008 il corrispondente ammontare dell'anno 2004 diminuito dell'1 per cento»: art. 1, comma 198, legge n. 266/2005). Tale disposizione statale e' stata fatta salva da codesta Corte in considerazione del fatto che essa «non prescrive ai suoi destinatari alcuna modalita' per il conseguimento dell'obiettivo di contenimento della spesa per il personale, ma lascia libere le Regioni di individuare le misure a tal fine necessarie», differenziandosi cosi' da precedenti disposizioni dichiarate incostituzionali, in quanto recanti «limiti puntuali a specifiche voci di spesa» (sentenza n. 169 del 2007). Nel presente caso, pare alla ricorrente Regione che le disposizioni statali contestate - all'opposto di quanto ora ricordato - riservino alla fonte statale (regolamentare) la specificazione delle modalita' per il conseguimento degli obiettivi di contenimento della spesa pubblica, al contempo privando le Regioni di qualunque possibilita' di individuare le misure allo scopo necessarie. E' infatti lo Stato a disporre direttamente la limitazione alla crescita dei trattamenti economici (lett. b)) (addirittura riservandosi discrezionalmente di determinare i settori specifici ai quali applicare tale limitazione: lett. e)), la definizione dell'ammontare dell'indennita' di vacanza contrattuale (lett. c), il ricorso obbligatorio a procedure di mobilita' tra pubblica amministrazione (lett. d): in tal modo, dunque, non si enunciano principi della materia, ma si stabiliscono concrete regole di dettaglio. Su tale base, le disposizioni indicate risultano incostituzionali per violazione dell'articolo 117, comma 3, Cost. in materia di coordinamento della finanza pubblica e dell'articolo 114 Cost. per lesione dell'autonomia regionale. In subordine, ove si dovesse ritenere legittima la competenza statale relativa alla estensione in via amministrativa delle specifiche e dettagliate misure di contenimento della spesa per il personale contenute nelle disposizioni impugnate - ugualmente risulta evidente che sia la competenza regionale concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica che l'evidente e rilevante impatto delle disposizioni statali sull'organizzazione amministrativa regionale avrebbero richiesto che la decisione in relazione alle misure di contenimento della spesa per il personale fosse subordinata all'intesa con la Conferenza Stato-Regioni, secondo i ben noti principi codificati in materia da codesta ecc.ma Corte costituzionale. La mancata previsione dell'intesa, all'opposto, determina la lesione del principio di leale collaborazione, in connessione con l'articolo 118 Cost. 3. Illegittimita' costituzionale dell'articolo 19, comma 4. L'art. 19, comma 4, del decreto n. 98 stabilisce che «al fine di garantire un processo di continuita' didattica nell'ambito dello stesso ciclo di istruzione, a decorrere dall'anno scolastico 2011-2012, la scuola dell'infanzia, la scuola primaria e quella secondaria di primo grado sono aggregate in istituti comprensivi, con la conseguente soppressione delle istituzioni scolastiche autonome costituite separatamente da direzioni didattiche e scuole secondarie di primo grado»; dispone altresi' che «gli istituti comprensivi per acquisire l'autonomia devono essere costituiti con almeno 1.000 alunni, ridotti a 500 per le istituzioni site nelle piccole isole, nei comuni montani, nelle aree geografiche caratterizzate da specificita' linguistiche». Tali regole (la necessita' che le istituzioni scolastiche abbiano un assetto organizzativo di carattere «comprensivo», il numero minimo di alunni per scuola, la riduzione, in certi casi, del numero minimo) riguardano l'offerta formativa, la programmazione e il dimensionamento della rete scolastica: tutti aspetti della organizzazione scolastica, ricadente nella materia «istruzione», oggetto di potesta' regionale concorrente, ai sensi dell'articolo 117, comma 3, Cost. Sul punto la giurisprudenza costituzionale appare assolutamente costante (da ultimo v. la sent. 92/2011, punto 7.1; tra le precedenti v. le sentt. nn. 200/2009, 34/2005, punto 7, 13/2004). E' invece escluso che esse siano riconducibili alle «norme generali sull'istruzione» riservate allo Stato. Esse non toccano i «cicli» dell'istruzione, non regolano in alcun modo le «articolazioni cicliche» e le «finalita' ultime» del sistema dell'istruzione. Non riguardano «la previsione generale del contenuto dei programmi delle varie fasi e dei vari cicli del sistema», ne' «la regolamentazione delle prove che consentono il passaggio ai diversi cicli», ne' «la valutazione periodica degli apprendimenti e del comportamento degli studenti del sistema educativo di istruzione e formazione» (per riprendere taluni contenuti delle «norme generali», come puntualizzati dalla sent. n. 200/2009). Cosi' individuata la materia di riferimento, e' da escludere che il censurato comma 4 esprima principi fondamentali nella materia dell'istruzione. Occorre in proposito ricordare che - con considerazione delle peculiarita' di tale materia (anche alla luce «norme generali sull'istruzione», attribuite alla competenza esclusiva dello Stato) - la Corte ha avuto modo di individuare lo spazio specifico della legislazione regionale nelle «valutazioni coinvolgenti le specifiche realta' territoriali delle Regioni, anche sotto il profilo socioeconomico»; cio' si traduce - sul piano della struttura dei principi -nella necessita' che essi lascino spazio per una attuazione regionale, e non per una pura attivita' di esecuzione (sent. n. 200/2009). In altri termini, in ordine al dimensionamento della rete scolastica sussiste costituzionalmente uno «spazio» non occupabile dallo Stato. Si potrebbe dire che - come in certi casi taluni contenuti normativi non possono non essere «di principio» (con radicale esclusione della legislazione regionale: sent. n. 438/2008) - cosi', simmetricamente, taluni contenuti normativi non possono che essere «di dettaglio» (con esclusione - in relazione a quei contenuti - della potesta' statale). Poste tali premesse, ad avviso della ricorrente Regione le disposizioni impugnate non superano il test di legittimita'. Cio' vale in primo luogo per la prima norma ricavabile dalla disposizione impugnata, la norma secondo la quale non possono esservi istituzioni scolastiche autonome che non riguardino insieme la scuola dell'infanzia, la scuola primaria e quella secondaria di primo grado, escludendo radicalmente e in via assoluta qualunque possibilita' di apprezzamento delle particolarita' locali, imponendo una attivita' regionale di mera esecuzione. Al contrario, tale imposizione non puo' giustificarsi - come fa la disposizione impugnata - sulla base di un criterio di «continuita' didattica», la quale non e' ne' favorita ne' ostacolata dalla autonomia dell'organizzazione scolastica (del resto tale arbitraria giustificazione e' contraddetta dalla stessa rubrica dell'art. 19, che fa piu' sincero riferimento alla «razionalizzazione della spesa relativa all'organizzazione scolastica»). Invece, la norma in questione rende mere appendici organizzative scuole che hanno una identita' ed una tradizione, che costituiscono esse stesse una risorsa. Ne' puo' essere giustificata sulla base di un vincolo finanziario, dal momento che le decisioni regionali si svolgono sempre all'interno di un quadro di risorse organizzative deciso insieme allo Stato o direttamente dallo Stato. Le norme sul numero minimo di alunni, per parte loro, vincolano anch'esse in modo rigido, senza una ragione razionale, le possibili scelte regionali, da effettuare sulla base da un lato della valutazione delle risorse disponibili - a partire dalla risorsa del personale, determinata dallo Stato (vincolo che qui non si contesta) - dall'altro delle caratteristiche locali. Anche in questo caso, dunque, non si tratta di un principio, ma della definizione dei dettagli che precludono l'esercizio di scelte che sono la ragione stessa dell'autonomia che la Costituzione riserva alle Regioni. La censura non viene certo meno per il fatto che il vincolo posto alle Regioni e' differenziato per le piccole isole, per i comuni montani e per le aree geografiche caratterizzate da particolarita' linguistiche: la logica, infatti, e' sempre quella del limite rigido, fissato in generale per tutte le «piccole» isole, per tutti i Comuni montani, per tutte le aree linguisticamente particolari. Ed e' inoltre escluso che altre ragioni possano giustificare un bacino di studenti piu' ridotto per l'istituzione scolastica, mentre peculiarita' locali meritevoli di apprezzamento sussistono (possono sussistere) in tutto il territorio (si pensi alla diversita' nella densita' demografica, nella rete dei trasporti e dei servizi in genere, nella provenienza sociale degli alunni, ecc.). Sembra chiaro che se si tolgono alle Regioni queste scelte, si compromette la ragione stessa della loro competenza costituzionale. Del resto, conferma dello spessore della competenza regionale in materia di istruzione, e della impossibilita' di riconoscere alle regole sul dimensionamento degli istituti natura di principi fondamentali, si ha nella normativa precedente all'intervento del decreto-legge n. 98, come letta dalla giurisprudenza costituzionale. Gia' anteriormente alla riforma del titolo V, il regolamento del d.P.R. 18 giugno 1998, n. 233 riconosceva che i «piani di dimensionamento delle istituzioni scolastiche ... sono definiti in conferenze provinciali di organizzazione della rete scolastica, nel rispetto degli indirizzi di programmazione e dei criteri generali, riferiti anche agli ambiti territoriali, preventivamente adottati dalle regioni (art. 3, comma 1: norma valorizzata dalla Corte costituzionale con la sent. n. 34/2005, che ha ritenuto non in contrasto con la Costituzione la disposizione della Regione Emilia-Romagna, per la quale spetta al Consiglio regionale, su proposta della Giunta, approvare i "criteri per la definizione dell'organizzazione della rete scolastica, ivi compresi i parametri dimensionali delle istituzioni scolastiche"); d'altro canto, la "popolazione, consolidata e prevedibilmente stabile almeno per un quinquennio, compresa tra 500 e 900 alunni" - che l'art. 2, comma 2, dello stesso regolamento indicava come parametro per riconoscere autonomia all'istituzione, valeva - testualmente - solo "di norma": lasciando quindi ampio spazio di adattamento normativo alla realta' locale. Successivamente alla riforma costituzionale del 2001, il regolamento 20 marzo 2009, n. 81 (art. 1, comma 1) ha stabilito che «alla definizione dei criteri e dei parametri per il dimensionamento della rete scolastica e per la riorganizzazione dei punti di erogazione del servizio scolastico» si provvedera' con regolamento, adottato «previa intesa in sede di Conferenza unificata», sulla base dell'articolo 64, comma 4-quinquies, d.l. n. 112/2008, conv. in legge n. 133/2008. Sennonche', la base legislativa costituita dal citato comma 4-quinquies si limita a rinviare al precedente comma 4, lettera f-ter), dichiarato incostituzionale con la sent. n. 200/2009. Ancora: il decreto-legge n. 112/2008 (articolo 64, comma 4, lett. f-bis) rimetteva ad un regolamento la «definizione di criteri, tempi e modalita' per la determinazione e articolazione dell'azione di ridimensionamento della rete scolastica ...»: ma anche tale disposizione e' caduta sotto la censura della sent. n. 200/2009. Ora, al di la' della incostituzionalita' di tali previsioni, esse dimostrano che per lo Stato stesso il dimensionamento della rete scolastica era «questione» regolamentare, questione che come tale e' stata assunta nel riparto delle competenze attuato con il nuovo Titolo V, e come tale e' stata considerata fino all'odierno intervento legislativo. Ancora, le disposizioni impugnate non possono giustificarsi neppure come espressione di coordinamento della finanza pubblica, come pure la rubrica sopra ricordata dell'art. 19 potrebbe indurre a credere. Anzitutto, esse non pongono limiti alla complessiva spesa regionale, o ad aggregati significativi della stessa, tali da consentire alla Regione adeguati spazi per un autonomo adeguamento (come vuole la giurisprudenza richiamata al punto 1). In secondo luogo, occorre tenere conto del fatto che la autonomia regionale sulla organizzazione della rete scolastica si esplica nel rispetto del contingente di personale complessivamente attribuito dallo Stato alla rete della Regione: come risulta confermato, tra l'altro, dal comma 7 dell'articolo 19 (non impugnato dalla Regione), secondo il quale «a decorrere dall'anno scolastico 2012/2013 le dotazioni organiche del personale docente, educativo ed ATA della scuola non devono superare la consistenza delle relative dotazioni organiche dello stesso personale determinata nell'anno scolastico 2011/2012 in applicazione dell'articolo 64 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, assicurando in ogni caso, in ragione di anno, la quota delle economie lorde di spesa che devono derivare per il bilancio dello Stato, a decorrere dall'anno 2012, ai sensi del combinato disposto di cui ai commi 6 e 9 dell'articolo 64 citato». Dunque, il coordinamento finanziario esiste, e' assicurato da altri strumenti, e nulla ad esso aggiungono le disposizioni impugnate. Una ulteriore censura, aggiuntiva rispetto a quelle sin qui illustrate, riguarda la dimensione temporale dell'applicazione delle norme qui censurate. Il comma 4 pretende che le proprie norme trovino concreta applicazione, con la aggregazione-soppressione di istituzioni scolastiche, a decorrere dall'anno scolastico 2011- 2012. Esse dunque intervengono a meno di due mesi dall'inizio dell'armo scolastico a sconvolgere una programmazione e un assetto della organizzazione scolastica gia' definite all'inizio dell'anno, anche in funzione di scelte consapevoli da parte degli alunni e delle loro famiglie, scelte che su tali basi sono state effettuate. Esse risultano quindi irragionevoli, in violazione del principio ricavabile dall'articolo 3; tale irragionevolezza, incidendo immediatamente e traducendosi nella vanificazione delle scelte organizzative legittimamente operate dalla Regione, si traduce in una lesione delle sue competenze. Infine, l'impropria assunzione a livello legislativo, come se si trattasse di principi fondamentali anziche' di scelte operative e concrete, destinate ad incidere in modo dettagliato e diretto sulle realta' particolari, risulta illegittima anche perche' preclude che vi sia, in applicazione di veri principi stabiliti dalla legge, una sede di confronto e di concertazione tra lo Stato e le Regioni, per gli eventuali aspetti che ne richiedano la collaborazione, in una situazione in cui malgrado l'art. 117, terzo comma, della Costituzione, la materia dell'istruzione non ha ancora trovato compiuta regionalizzazione: s'intende ferma l'unicita' delle norme generali e dei principi comuni nella materia. In altre parole, la forma legislativa, costituzionalmente necessaria per i principi fondamentali, si rivela invece lesiva dell'autonomia regionale quando si sostituisca a scelte che spettano alla Regione, o che in subordine debbono essere affidate a procedure amministrative di collaborazione. 4. Illegittimita' costituzionale dell'art. 30, commi 1 e 3. L'articolo 30 del decreto n. 98, dedicato al Finanziamento della banda larga, stabilisce che «il Ministero dello sviluppo economico, con il concorso delle imprese e gli enti titolari di reti e impianti di comunicazione elettronica fissa o mobile, predispone un progetto strategico nel quale, sulla base del principio di sussidiarieta' orizzontale e di partenariato pubblico-privato, sono individuati gli interventi finalizzati alla realizzazione dell'infrastruttura di telecomunicazione a banda larga e ultralarga, anche mediante la valorizzazione, l'ammodernamento e il coordinamento delle infrastrutture esistenti» (comma 1). Il comma 2 (non impugnato) dispone che l'Autorita' per le garanzie nelle comunicazioni e' competente alla definizione del sistema tariffario. Il comma 3 affida ad un decreto del Ministro per lo sviluppo economico,di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, l'adozione dei «provvedimenti necessari per l'attuazione delle disposizioni dei commi precedenti». L'articolo prevede dunque la predisposizione e la realizzazione di interventi infrastrutturali, ricadenti prevalentemente nelle materie ordinamento delle comunicazioni e governo del territorio, attribuite alla potesta' legislativa concorrente, in ordine alla quale, a termini dell'art. 117, terzo comma, Cost., lo Stato puo' soltanto determinare i principi fondamentali della materia, salva, come subito si dira', l'applicazione del principio di sussidiarieta' ove ne ricorrano i presupposti. Nel caso, e' da escludere che si sia in presenza di principi fondamentali. Non solo l'articolo non lascia alcuno spazio di svolgimento alla Regione, ma - a ben considerare - esso non norma un settore della materia, con disciplina che sia destinata a ricevere successive e ripetute applicazioni, ma prevede piuttosto un intervento concreto, per la cui compiuta ed ulteriore regolazione rinvia ad un successivo decreto interministeriale. Naturalmente la Regione non nega che il potenziamento della infrastruttura di telecomunicazione a banda larga ed ultralarga sia di interesse generale, e sia compito che puo' essere perseguito con strumenti di rilievo nazionale. Allo scopo, l'articolo 118 Cost., nell'interpretazione datane dalla Corte, consente la «chiamata in sussidiarieta'» a favore dello Stato di funzioni normative ed amministrative in via di regola spettanti alla Regione, quando cio' sia necessario per un piu' adeguato svolgimento. Nel caso, pero', non sussistono i presupposti per la chiamata in sussidiarieta', ne' - comunque - sono previsti gli strumenti collaborativi che la attrazione allo Stato avrebbe richiesto (sent. n. 6/2004). Non sussistono i presupposti perche' l'intervento dell'articolo 30, nei termini in cui esso e' previsto ed organizzato, non e' ne' pertinente rispetto alla finalita' perseguita, ne' proporzionato. La chiamata in sussidiarieta' implica che lo Stato assuma in proprio un determinato compito, o comunque abbia il governo di strumenti che ragionevolmente assicurino il raggiungimento del risultato stabilito. Secondo la disposizione impugnata, invece, il «progetto strategico» poggia, testualmente, «sulla base del principio di sussidiarieta' orizzontale e di partenariato pubblico-privato»: esso dunque implica necessariamente l'intervento del capitale privato, la cui disponibilita' - sia nella dimensione, sia nei tempi - e' del tutto incerta. La aleatorieta' degli interventi trova altre due conferme testuali. La prima, nel secondo periodo del comma 2, per il quale «l'Autorita' per le garanzie nelle comunicazioni e' competente alla definizione del sistema tariffario in modo da incentivare gli investimenti necessari alla realizzazione della predetta infrastruttura nazionale e da assicurare comunque una adeguata remunerazione dei capitali investiti». L'assoluta assenza di un vero impegno statale e' espressa poi nel modo piu' chiaro dal comma 5, secondo cui «dall'attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri per il bilancio dello Stato». Oltre a cio', la misura non e' affatto proporzionata rispetto allo scopo: non vi sono motivi per escludere la Regione dalla attuazione del progetto, anche ammesso che la sua definizione sia legittimamente spostata al livello centrale. Giova ricordare che la Corte costituzionale, con la recente sent. n. 215/2010, ha annullato una norma statale in larga parte simile a quella ora impugnata, che prevedeva interventi nella materia della produzione, della trasmissione e della distribuzione di energia, proprio per il mancato rispetto delle condizioni cui deve sottostare la chiamata in sussidiarieta'. In ogni caso, la costante giurisprudenza della Corte costituzionale ha stabilito che in forza dell'art. 118 Cost. la legislazione regionale possa si' «venire spogliata della propria capacita' di disciplinare la funzione amministrativa attratta in sussidiarieta'», ma soltanto «a condizione che cio' si accompagni alla previsione di un'intesa in sede di esercizio della funzione, con cui poter recuperare un'adeguata autonomia, che l'ordinamento riserva non gia' al sistema regionale complessivamente inteso, quanto piuttosto alla specifica Regione che sia stata privata di un proprio potere»: cosi' la sent. n. 278/2010 (ma v. anche, a partire dalla sent. n. 303/2003, le sentt. nn. 6/2004, 62/2005, 383/2005). In altre parole, alla assunzione del compito da parte dello Stato - non essendo da sola la Regione in grado di realizzarlo efficacemente - deve accompagnarsi la procedura di leale collaborazione nella sua attuazione amministrativa. Ora, e' stupefacente, nel caso in questione, che lo Stato con il comma 3 intervenga in una materia della Regione, prevedendo «il concorso delle imprese e gli enti titolari di reti e impianti di comunicazione elettronica fissa o mobile», e non riconosca alcun ruolo ne' alla Regione direttamente interessata, ne' al sistema delle Regioni. In via subordinata, per il caso che - nonostante il mancato impegno dello Stato - si potesse riconoscere come legittima l'attrazione in sussidiarieta', rimane ad avviso della Regione evidente la incostituzionalita' - per violazione dell'articolo 118, comma 1, Cost., e del principio di leale collaborazione - dell'articolo 30, commi l e 3, nella parte in cui non prevedono che la predisposizione del progetto strategico avvenga d'intesa con la Conferenza Stato-Regioni, e la sua realizzazione concreta sul territorio avvenga sulla base di progetto concordato con la Regione interessata. 5. Illegittimita' costituzionale dell'art. 35, commi 6 e 7. L'articolo 35, comma 6, novellando l'articolo 3, comma 2, d.l. n. 223/2006 (conv. dalla legge n. 248/2006), stabilisce che «in via sperimentale», quando l'esercizio sia «ubicato nei comuni inclusi negli elenchi regionali delle localita' turistiche o citta' d'arte», le attivita' commerciali e le attivita' di somministrazione di alimenti e bevande, sono svolte «senza il rispetto degli orari di apertura e di chiusura, l'obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonche' quello della mezza giornata di chiusura infrasettimanale dell'esercizio». Sembra evidente che, per quanto riguarda le localita' turistiche e le citta' d'arte, la norma non lascia alla Regione alcuno spazio per una qualunque disciplina degli orari del commercio, dato che la legge statale impone... che non ve ne sia alcuna. Sicche' neppure risulta chiaro che cosa poi possa intendere la disposizione quando al comma 7 dell'art. 35 enuncia che «le regioni e gli enti locali adeguano le proprie disposizioni legislative e regolamentari alla disposizione introdotta dal comma 6 entro la data del l ° gennaio 2012». La «liberalizzazione» del comma 6 appare invece autosufficiente ed autoapplicativa, e non necessitare di alcun adeguamento (che non sia - per mere esigenze di «pulizia» dei testi normativi - la abrogazione espressa di precedenti norme difformi). Il comma 7 e' conseguentemente impugnato nella parte in cui conferma la regola del comma precedente, e per i medesimi motivi. I due commi pongono dunque, semplicemente, un divieto alle Regioni di disciplinare il commercio nelle localita' turistiche e nelle citta' d'arte. Tuttavia, la materia del commercio, come del resto quella del turismo, spettano alla competenza residuale della Regione, ai sensi dell'art. 117, comma 4, Cost. In termini generali, che spetti alla Regione la disciplina degli orari non e' controverso: nella sentenza n. 150 del 2011 si da' atto che «di recente, in piu' occasioni, questa Corte ha affermato che la disciplina degli orari degli esercizi commerciali rientra nella materia "commercio" (sentenze n. 288 del 2010 e n. 350 del 2008), di competenza esclusiva residuale delle Regioni, ai sensi del quarto comma dell'art. 117 Cost., e che "il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell'art. 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), [...], si applica, ai sensi dell'art. 1, comma 2, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), soltanto alle Regioni che non abbiano emanato una propria legislazione nella suddetta materia" (sentenze n. 288 e n. 247 del 2010, ordinanza n. 199 del 2006)». Nel caso specifico, e' poi implicata anche la materia «turismo», di natura residuale, trattandosi degli orari di esercizi commerciali siti «nei comuni inclusi negli elenchi regionali delle localita' turistiche o citta' d'arte». Posta tale premessa, la Regione ritiene che non vi sia un titolo di competenza statale in grado di giustificare una cosi' consistente restrizione della potesta' legislativa regionale, che ne pone nel nulla una parte sostanziale. Quanto alla qualificazione che lo stesso legislatore statale da' al proprio intervento, si puo' osservare che il decreto n. 98 ha inserito (con la tecnica della novella) la c.d. liberalizzazione nell'articolo 3, comma 1, d.l. n. 223/2006: e la disposizione novellata inizia invocando la necessita' «di garantire la liberta' di concorrenza secondo condizioni di pari opportunita' ed il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonche' di assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilita' all'acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale». Attraverso tale inserimento, sembrano evocate le materie esclusive statali «tutela della concorrenza» e «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni», di cui alle lettere e) ed m) dell'articolo 117, comma 2, Cost. A giudizio della Regione ricorrente, i due titoli non sono pero' pertinenti, ne' utilmente invocabili, nel caso di cui alla presente controversia. Quanto alla tutela della concorrenza, non si vede anzitutto in che modo essa possa essere favorita dalla possibilita' di apertura totale dei negozi, ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette. In nessun modo nuovi operatori economici sono incentivati ad entrare nel mercato; in nessun modo si impediscono accordi tra esercenti; in nessun modo si assicura una parita' tra operatori diversa e maggiore rispetto a quella che si ha con la sottoposizione di tutti alle medesime regole (anche limitative) circa gli orari e i giorni di apertura e chiusura. Al contrario. Sulla base di dati di comune esperienza, e' ragionevolmente ipotizzabile che gia' nel medio periodo la disposizione censurata provochi una diminuzione degli operatori economici sul mercato. La apertura continuativa dell'esercizio richiede evidentemente una organizzazione del personale che solo gli operatori maggiori sono in grado di assicurarsi, con la conseguenza che saranno espulsi dal mercato gli esercizi di minore dimensione, e particolarmente quelli a conduzione familiare. Le reazioni pubbliche delle categorie interessate dei piccoli e medi operatori e delle loro associazioni confermano questo dato, del resto evidente (la posizione contraria di Confcommercio, ad esempio, puo' essere consultata al sito http://www.confcommercio.it/home/SALA-STAMP/Comunicati/124---01.07.20 11-Confcommercio-su-liberalizzazione-orari.doc_cvt.htm ). La norma censurata confonde la «tutela della concorrenza» con la «assenza di regole». Nel suo carattere estremo e semplificatorio, essa perviene all'effetto opposto a quello voluto - offrire maggiori opportunita' di lavoro - e non supera quindi il test della congruita' rispetto al fine costituzionale perseguibile, con conseguente lesione delle attribuzioni regionali. La incongruenza rispetto al fine dichiarato si rivela anche in altri aspetti della disciplina. Posto che, come ora illustrato, la totale assenza di regole, ed il conseguente divieto di una regolamentazione regionale, appare in se stessa controproducente ed illegittima, un ulteriore effetto distorsivo e' prodotto dalla limitazione della «liberalizzazione» ai soli comuni turistici e alle citta' d'arte: la norma finisce cosi' con il recare vantaggio a taluni operatori rispetto ad altri, attivi su territori finitimi. Con cio', non si vuole certo sostenere che non si possano avere ragionevoli differenziazioni negli orari degli esercizi, anche su base territoriale, finalizzate alla cura di interessi pubblici meritevoli; ma simili differenziazioni non si possono giustificare - da parte dello Stato - con l'appello alla tutela della concorrenza e all'«uniforme funzionamento del mercato», ma vanno invece attentamente calibrate nelle sedi regionali e locali, tenendo presenti tutti i numerosi interessi pubblici e privati in gioco. Tra l'altro, la norma impugnata consente agli esercizi commerciali e di somministrazione di alimenti e bevande di operare senza «il rispetto degli orari di apertura e di chiusura». Ora, tutte le discipline del commercio hanno sempre previsto l'obbligo di aperture minime, nell'interesse pubblico e a tutela dei consumatori. A seguito della novella, anche questo obbligo viene meno, e cio' non giova affatto alla «tutela della concorrenza» dato che consente all'esercizio di limitarsi ad aprire nelle fasce orarie ritenute piu' redditizie, lasciando i consumatori privi di reali alternative nelle rimanenti fasce, durante le quali altri operatori potrebbero non avere concorrenti effettivi. Inoltre, e' evidente che l'assenza di un orario certo e' un ostacolo al commercio, privando gli utenti di ogni ragionevole certezza di trovare aperto il negozio del quale hanno bisogno. In definitiva, il richiamo alla concorrenza e alle pari opportunita' altro non sono che clausole di stile, prive di un contenuto sostanziale. Giova ricordare, a tale proposito, la sentenza n. 278 del 2010, con cui codesta ecc.ma Corte costituzionale ha annullato come «di dettaglio» la disposizione statale per cui «al fine di garantire migliori condizioni di competitivita' sul mercato internazionale e dell'offerta di servizi turistici, nelle strutture turistico-ricettive all'aperto, le installazioni e i rimessaggi dei mezzi mobili di pernottamento, anche se collocati permanentemente, per l'esercizio dell'attivita', entro il perimetro delle strutture turistico-ricettive regolarmente autorizzate, purche' ottemperino alle specifiche condizioni strutturali e di mobilita' stabilite dagli ordinamenti regionali, non costituiscono in alcun caso attivita' rilevanti ai fini urbanistici, edilizi e paesaggistici». Ricondotta la norma, in via prevalente, alla materia «governo del territorio», il richiamo di stile alla competitivita' e alla offerta di servizi non e' servito a salvarla dalla dichiarazione di incostituzionalita', per invasione della competenza legislativa regionale. Altrettanto incongruo appare il richiamo alla lettera m) del secondo comma dell'articolo 117 Cost. Anche ammettendo che la norma costituzionale possa valere a tutelare i consumatori nei confronti degli imprenditori privati (e la Regione ritiene che cosi' non sia), si deve rilevare che la norma impugnata non garantisce affatto livelli minimi ed uniformi di prestazioni. Per quanto riguarda i giorni di apertura degli esercizi, il comma 6 non impone la apertura domenicale e festiva (o in qualsivoglia altra giornata), ma semplicemente la consente: tutto il contrario della fissazione di un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilita' al mercato. Per quanto poi riguarda gli orari giornalieri di apertura e di chiusura, la contraddizione con la dichiarata finalita' e' ancora piu' evidente: come si e' appena sopra rilevato, per effetto della nuova disposizione gli esercizi non sono piu' tenuti ad alcuna apertura minima. L'uniformita' nell'accesso alle strutture del commercio e della somministrazione e' poi comunque esclusa dal carattere territorialmente limitato della «liberalizzazione». Inoltre, proprio la liberalizzazione e' in se stessa un ostacolo alla uniformita' dell'accesso, dato che il suo risultato e' la creazione di una situazioni in cui non vi e' piu' garanzia di trovare ugualmente aperti i diversi esercizi. Del resto, e conclusivamente, che il comma 6 dell'articolo 35 non sia di per se' idoneo a conseguire gli obiettivi dichiarati e' in qualche modo confessato dal medesimo legislatore statale, che ha introdotto la misura «in via sperimentale». Si noti: non «transitoria», ma «sperimentale». Non sembra un titolo sufficiente per procedere all'esproprio delle competenze regionali. Se una sperimentazione e' opportuna, essa non puo' essere decisa altro che a livello locale, tenendo conto delle particolarita' dei territori e delle reti commerciali e distributive. Il legislatore statale avrebbe eventualmente potuto favorire la sperimentazione, suggerendola e ad esempio istituendo un meccanismo nazionale per valutarne gli effetti: imporre la «sperimentazione» a tutte le Regioni, privandole di ogni capacita' di disciplina, sembra invece costituire semplicemente una plateale invasione di cio' che la Costituzione riserva ad esse ed alle comunita' locali.