LA CORTE DI APPELLO 
 
    Ha emesso la seguente ordinanza 
    Vista l'ordinanza n. 22357 emessa  alla  udienza  del  27  maggio
2010, depositata in data 11 giugno 2010, e ordinanza del  17  gennaio
2011, depositata il 27 gennaio 2011 con le quali la Suprema Corte  di
Cassazione, ha ritenuto non manifestamente infondata, in  riferimento
all'art.  117  della  Costituzione,  la  questione  di   legittimita'
costituzionale dell'art. 10, comma terzo,  della  legge  n.  251  del
2005, nella parte in cui esclude l'applicazione dei nuovi termini  di
prescrizione, se piu' brevi, ai processi gia' pendenti  in  grado  di
appello o avanti alla Corte di Cassazione; 
 
                               Osserva 
 
    La questione di  legittimita'  costituzionale  sollevata  con  la
citata ordinanza dalla S.C., e' rilevante nel presente  giudizio,  in
quanto, ove dovesse venir meno,  a  seguito  dell'accoglimento  della
stessa,  la  richiamata  disposizione   normativa   e,   quindi,   la
doverosita' della  applicazione  dei  termini  di  prescrizione  piu'
lunghi (ovverosia di quindici anni), per i procedimenti gia' pendenti
in grado di appello o avanti  alla  Corte  di  Cassazione,  il  reato
ascritto all'imputato  nel  presente  procedimento  si  sarebbe  gia'
prescritto in data  6  gennaio  2007,  tenuto  conto  dell'epoca  del
commesso reato (21 marzo 2005), e pur  aggiungendosi  al  termine  di
anni sette e mesi sei ulteriori  anni  quattro,  mesi  tre  e  giorni
sedici conseguenti ai periodi di sospensione del decorso del  termine
prescrizionale a causa  dei  rinvii  del  dibattimento  disposti,  su
istanza o per impedimento del difensore o  dell'imputato  (Cassazione
penale, sez. un., 28 novembre 2001, n. 1021 Cremonese  -  Cass.  pen.
2002, 1308, 2798 - Riv. pen. 2002, 358 - Giur. ir. 2002, 1678 - Giur.
it. 2002, 2131) in primo grado (per anni tre e giorni diciassette)  e
secondo grado (per anni uno, mesi due e giorni ventinove). 
    Ritiene, altresi', questa Corte che la questione di  legittimita'
costituzionale  sollevata  dalla  Corte  di   Cassazione,   non   sia
manifestamente   infondata,   sulla    base    delle    condivisibili
argomentazioni  svolte,  autorevolmente,  dal  Supremo  Collegio,   a
proposito del contrasto tra l'art. 10, comma 3 della legge n. 251 del
2005 e l'art. 117 Cost. 2.1. e che qui  si  riportano:  «...  Con  la
sentenza n. 393 del 2006 la  Corte  Costituzionale  ha  premesso  che
l'art. 2  c.p.,  comma  4  deve  essere  interpretato,  ed  e'  stato
costantemente interpretato dalla giurisprudenza sia del giudice delle
leggi che di quello di  legittimita',  nel  senso  che  la  locuzione
"disposizioni piu' favorevole al reato" si riferisce a  tutte  quelle
norme che apportino  modifiche  in  melius  alla  disciplina  di  una
fattispecie  criminosa,  ivi  comprese  quelle  che  incidono   sulla
prescrizione del reato, in coerenza con la sua natura  sostanziale  e
con l'effetto che produce, perche'  "il  decorso  del  tempo  non  si
limita ad estinguere l'azione penale, ma elimina  la  punibilita'  in
se' e per se', in quanto costituisce una  causa  di  rinuncia  totale
dello Stato alla potesta' punitiva" (Cass. Sez. 1, 8 maggio 1998,  n.
7442). Ha quindi precisato che "il regime  giuridico  riservato  alla
lex  mitior,  e  segnatamente  la  sua  retroattivita',  non   riceve
nell'ordinamento la tutela privilegiata di  cui  all'art.  25  Cost.,
comma 2, in quanto la garanzia, costituzionale, prevista dalla citata
disposizione,  concerne   soltanto   il   divieto   di   applicazione
retroattiva della norma  incriminatrice,  nonche'  quella  altrimenti
piu' sfavorevole per  il  reo".  Ne  ha  tratto  la  conclusione  che
"eventuali deroghe al principio di retroattivita' della  lex  mitior,
ai sensi dell'art. 3  Cost.,  possono  essere  disposte  dalla  legge
ordinaria quando ricorra una sufficiente ragione  giustificativa"  ed
in questa ottica ha rammentato che  il  principio  di  retroattivita'
della lex mitior e' stato sancito sia a livello internazionale sia  a
livello comunitario. In primo luogo l'art. 15,  comma  1,  del  Patto
internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato  a  New
York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo  con  legge  25
ottobre 1977, n. 881, il quale  stabilisce  che  "se,  posteriormente
alla commissione di un reato, la legge prevede l'applicazione di  una
pena piu' lieve, il colpevole deve beneficiarne", "disposizione  alla
quale si collega la riserva dell'Italia nel  senso  dell'applicazione
limitata ai procedimenti in corso, e non anche a quelli nei quali sia
intervenuta una decisione definitiva». Il ricorrente ha correttamente
osservato che gia'  questa  norma  di  carattere  internazionale,  se
parametrata non all'art. 3 Cost. ma  all'art.  117  Cost.,  comma  1,
rende non  manifestamente  infondata  la  questione  di  legittimita'
costituzionale della disciplina transitoria in esame,  perche'  priva
l'imputato, il cui  processo  sia  gia'  pendente  in  appello  o  in
Cassazione, dell'ottemperanza  alla  regola  cogente,  imposta  dalla
norma pattizia («deve beneficiarne») per la quale la lex mitior  deve
essere di immediata applicazione, senza che le deroghe disposte dalla
legge  ordinaria  possano  essere  giustificate   per   effetto   del
bilanciamento con interessi di analogo rilievo. Tale bilanciamento e'
stato operato dalla sentenza n. 393/2006 sol perche'  come  parametro
e' stato assunto quello dell'art. 3 Cost.  Osserva  il  Collegio  che
successive pronunce della Corte Costituzionale, da ultimo la sentenza
n. 93 dell'8-12 marzo 2010, hanno affermato in maniera  costante  che
«le norme della CEDU - nel significato loro  attribuito  dalla  Corte
europea dei diritti dell'uomo, specificamente istituita per  dare  ad
esse interpretazione ed applicazione (art.  32,  paragrafo  1,  della
Convenzione) - integrano,  quali  "norme  interposte",  il  parametro
costituzionale espresso dall'art. 117 Cost., comma 1, nella parte  in
cui impone la conformazione della  legislazione  interna  ai  vincoli
derivanti dagli "obblighi internazionali" (sentenze n. 317 e  n.  311
del 2009, n. 39 del 2008)». Ne consegue  che  «nel  caso  in  cui  si
profili un eventuale contrasto tra una  norma  interna  e  una  norma
CEDU, il giudice  nazionale  comune,  deve,  quindi,  preventivamente
verificare la  praticabilita'  di  una  interpretazione  della  prima
conforme alla norma  convenzionale,  ricorrendo  a  tutti  i  normali
strumenti di ermeneutica giuridica (sentenza n. 239 del 2009) e,  ove
tale soluzione risulti impercorribile (non potendo egli  disapplicare
la  norma  interna  contrastante),  deve:  denunciare   la   rilevata
incompatibilita' proponendo questione di legittimita'  costituzionale
in riferimento al parametro dianzi indicato». La Grande Camera  della
Corte europea  dei  diritti  dell'uomo,  in  seguito  al  ricorso  n.
10249/2003  presentato  da  Scoppola  Franco,  con  sentenza  del  17
settembre 2009 ha imposto alla Stato  italiano  di  porre  fine  alla
violazione degli articoli 6 e 7 della Convenzione e di assicurare che
la pena dell'ergastolo inflitta al ricorrente venisse sostituita  con
pena non superiore a quella della reclusione di anni trenta. La  CEDU
e' pervenuta alla citata decisione  avendo  affermato  che  l'art.  7
della  Convenzione,  che  stabilisce  il  principio  del  divieto  di
applicazione retroattiva  della  legge  penale,  incorpora  anche  il
corollario del diritto dell'accusato al trattamento  piu'  lieve.  In
particolare, per quel che rileva nel presente procedimento, dopo aver
rammentata  le  proprie  precedenti   pronunce   sull'interpretazione
dell'art. 7  della  Convenzione  (par.  103),  la  Corte  europea  ha
stabilito che la sopravvenienza di norme di carattere  internazionale
e di pronunce  applicative  e  interpretative  di  esse  imponeva  un
«approccio dinamico ed evolutivo nell'interpretazione  dell'art.  7».
Allo scopo richiamava (par. 104) l'art. 491 della Carta  dei  diritti
fondamentali della Unione europea (c.d. Carta di Nizza), la  sentenza
3 maggio 2005  della  Corte  di  giustizia  delle  Comunita'  europee
(sentenza Berlusconi) e lo stesso art. 2 c.p. italiano. Affermava  in
conseguenza il principio (par. 109) secondo il quale «l'art. 7  della
Convenzione non sancisce solo  il  principio  della  irretroattivita'
della  legge  penale  piu'  severa,  ma  anche,  implicitamente,   il
principio della retroattivita' della legge penale  meno  severa»  per
cui «... se la legge penale in vigore al momento della  perpetrazione
del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia
di una sentenza definitiva sono diverse, il  giudice  deve  applicare
quella  le  cui  disposizioni  sono  piu'  favorevoli  all'imputato».
Risulta evidente il «nuovo» significato attribuito all'art.  7  della
Convenzione, integrante «norma interposta», in relazione al parametro
costituzionale di cui all'art. 117 Cost. Il Giudice delle  leggi  con
la citata sentenza n. 93 del  2010,  richiamando  le  sue  precedenti
sentenze n. 311 del 2009, n. 349 e n. 348 del 2007, ha  spiegato  che
la  Corte  Costituzionale,  nel  procedere  allo  scrutinio  di   sua
competenza,  «resta  legittimata  a  verificare  se  la  norma  della
Convenzione  -  norma  che  si  colloca  pur  sempre  ad  un  livello
sub-costituzionale - si ponga eventualmente in  conflitto  con  altre
norme della Costituzione:  ipotesi  eccezionale  nella  quale  dovra'
essere esclusa la idoneita' della norma convenzionale a integrare  il
parametro considerato». Lo scrutinio relativo e' sottratto al giudice
ordinario. Ne' esso risulta effettuato con la gia' citata sentenza n.
393 del 2006, laddove il Giudice delle leggi  ha  osservato  che  «il
livello di  rilevanza  dell'interesse  preservato  dal  principio  di
retroattivita' della lex mitior ... impone di ritenere che il  valore
da esso tutelato puo' essere sacrificato da una legge ordinaria  solo
in  favore  di  interessi  di  analogo  rilievo  (quali  -  a  titolo
esemplificativo  -  quelli  dell'efficienza   del   processo,   della
salvaguardia dei diritti  dei  soggetti  che,  in  vario  modo,  sono
destinatari della funzione giurisdizionale, e quelli che  coinvolgono
interessi o esigenze dell'intera collettivita' nazionale  connessi  a
valore di primario rilievo; cfr. sentenze n. 24 del 2004; n.  10  del
1997, n. 353 e n. 171 del 1996; n. 218 e n. 54 del 1993)».  Cio'  non
tanto perche' il parametro di riferimento e'  stato  l'art.  3  Cost.
quanto  piuttosto  perche'  gli   elementi   assunti   come   tertium
comparationis sono costituiti da «interessi di analogo valore», senza
indicazione  specifica  di  «conflitto»   con   altre   norme   della
Costituzione (ipotesi che la  Corte  Costituzionale  nelle  ricordate
sentenze definisce «eccezionale» e riserva alla  sua  competenza,  di
guisa che non sembra  corretta  una  valutazione  interpretativa,  da
parte dei giudice ordinario, di motivazione non  esplicita  di  altra
sentenza della Corte Costituzionale). 
    Sulla  scorta  delle  superiori  considerazioni,   autorevolmente
sostenute dal Supremo Collegio, accoglie l'eccezione di  legittimita'
costituzionale,  in  riferimento  all'art.  117  della  Costituzione,
dell'art. 10, comma terzo, della legge n. 251 del 2005,  nella  parte
in cui esclude l'applicazione dei nuovi termini di  prescrizione,  se
piu' brevi, ai processi gia' pendenti in grado di  appello  o  avanti
alla Corte di Cassazione, ricorrendone i presupposti della  rilevanza
nel presente procedimento e della non manifesta infondatezza.