Sentenza 
 
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'articolo 2, comma 5,
della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la  formazione
del bilancio annuale e pluriennale dello Stato  -  Legge  finanziaria
2010), promosso dal Tribunale di Rossano  nel  procedimento  vertente
tra P. R. ed altra e  l'INPS,  con  ordinanza  del  12  aprile  2010,
iscritta al n. 379 del registro ordinanze  2010  e  pubblicata  nella
Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  50, 1ª  serie   speciale,
dell'anno 2010. 
    Visto l'atto di costituzione dell'INPS; 
    udito nell'udienza pubblica del 5 luglio 2011 il Giudice relatore
Alessandro Criscuolo; 
    udito l'avvocato Luigi Caliulo per l'INPS. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. - Il Tribunale di  Rossano  in  composizione  monocratica,  in
funzione  di  giudice  del  lavoro,   ha   sollevato   questioni   di
legittimita' costituzionale dell'articolo 2, comma 5, della legge  23
dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la  formazione  del  bilancio
annuale e pluriennale dello  Stato  -  Legge  finanziaria  2010),  in
riferimento agli articoli 3, 38, secondo  comma,  53,  111,  primo  e
secondo comma, 117, primo comma, della Costituzione. 
    2.  -  Il  rimettente  premette  che,  con  ricorsi  di   analogo
contenuto, poi riuniti per ragioni di connessione, le signore R. P. e
A.  Z.  hanno  convenuto  in  giudizio  l'Istituto  Nazionale   della
Previdenza Sociale, in persona del presidente pro tempore, esponendo:
1) che erano titolari di pensioni, categoria VO, dopo  aver  lavorato
come operaie  agricole  a  tempo  determinato;  2)  che  l'INPS,  nel
determinare le  pensioni,  aveva  applicato  erroneamente  l'art.  28
decreto del Presidente  della  Repubblica  27  aprile  1968,  n.  488
(Aumento  e  nuovo  sistema  di  calcolo  delle  pensioni  a   carico
dell'assicurazione generale obbligatoria), perche', nel calcolare  la
pensione dovuta alle istanti,  aveva  fatto  riferimento  al  salario
medio convenzionale, non gia' dell'anno in cui il  lavoro  era  stato
prestato, ma dell'anno antecedente. 
    Cio' posto, le attrici hanno chiesto che sia dichiarato  il  loro
diritto ad ottenere la riliquidazione della pensione di vecchiaia  in
godimento sulla base del  salario  medio  convenzionale  vigente  per
l'anno in cui il lavoro era stato prestato,  con  condanna  dell'INPS
alla ricostruzione della pensione ed al  pagamento  delle  differenze
mensili. 
    Instauratosi  il  contraddittorio,  l'ente  previdenziale  si  e'
costituito nei giudizi  principali,  sostenendo  la  correttezza  del
proprio operato, in applicazione dell'art. 4 del decreto  legislativo
16 aprile 1997, n. 146 (Attuazione della delega  conferita  dall'art.
2, comma 24, legge 8 agosto 1995, n. 335, in  materia  di  previdenza
agricola), e concludendo per il rigetto delle domande. 
    Nelle more delle cause e' stato introdotto  l'art.  2,  comma  5,
della legge n. 191 del 2009, avente il  seguente  tenore:  «Il  terzo
comma  dell'articolo  3  della  legge  8  agosto  1972,  n.  457,  si
interpreta nel senso che il termine ivi previsto del 30  ottobre  per
la rilevazione  della  media  tra  le  retribuzioni  per  le  diverse
qualifiche previste dai contratti collettivi provinciali di lavoro ai
fini della determinazione della retribuzione media  convenzionale  da
porre a base per le prestazioni pensionistiche e per il calcolo della
contribuzione  degli  operai  agricoli  a  tempo  determinato  e'  il
medesimo di quello previsto al secondo comma dell'art. 3 della citata
legge n.  457  del  1972  per  gli  operai  a  tempo  indeterminato».
Quest'ultima norma, a sua volta, dispone che «Per i  salariati  fissi
l'ammontare della retribuzione comprensiva del  salario  base,  della
contingenza, delle indennita' in natura e fisse, e' costituito  dalla
media  della  retribuzione  prevista  per  ciascuna   qualifica   dai
contratti collettivi provinciali  vigenti  al  30  ottobre  dell'anno
precedente». 
    3. - Il giudice a quo dubita  della  legittimita'  costituzionale
dell'art. 2, comma 5, della legge n. 191 del 2009, ora citato. 
    Il rimettente, in primo luogo, ritiene  la  questione  rilevante,
perche' la norma censurata disciplina,  con  chiara  efficacia  sulle
controversie al suo esame, il sistema di accredito contributivo e  il
calcolo consequenziale della pensione. 
    Osserva, poi,  che  la  Corte  di  cassazione,  con  orientamento
costante (e dal  medesimo  rimettente  condiviso),  ha  affermato  il
principio secondo cui «La pensione di vecchiaia degli operai agricoli
a tempo determinato deve essere determinata, ex art. 28 d.P.R. n. 488
del 1968 ("Aumento e nuovo sistema di calcolo delle pensioni a carico
dell'assicurazione  generale   obbligatoria"),   sulla   base   delle
retribuzioni medie vigenti  per  ciascun  anno,  ("in  rapporto  alle
retribuzioni medie da determinarsi annualmente per provincia"),  come
peraltro confermato dall'art. 3, terzo comma, della legge n. 457  del
1972 che espressamente statuisce che "per i giornalieri  di  campagna
l'ammontare della retribuzione  e'  costituito  dalla  media  tra  le
retribuzioni vigenti al 30 ottobre di  ogni  anno"  e  non  dell'anno
precedente». 
    Il Tribunale prosegue rilevando che  i  decreti  ministeriali  di
determinazione  delle   retribuzioni   medie   giornaliere,   emanati
annualmente e vincolanti per gli istituti previdenziali, hanno sempre
fatto riferimento ai dati salariali relativi all'anno precedente alla
loro  emanazione  per  entrambe  le  categorie  (dipendenti  a  tempo
indeterminato  e  dipendenti  a  tempo  determinato),  adottando   in
sostanza come criterio unico di rilevazione quello previsto  per  gli
operai a tempo indeterminato, verosimilmente allo scopo di assicurare
un trattamento omogeneo a soggetti operanti nell'ambito dello  stesso
settore lavorativo  e  di  realizzare  una  piu'  semplice  e  rapida
procedura di liquidazione,  in  via  definitiva,  dell'indennita'  di
malattia. Tuttavia, tale prassi e' stata sempre giudicata illegittima
dalla Corte di  cassazione,  se  non  seguita  da  conguaglio  per  i
salariati a tempo determinato. 
    Il giudicante ricorda che, di recente, la Corte di cassazione  si
e'  di  nuovo  pronunciata  in  subiecta  materia   (l'ordinanza   di
rimessione richiama la sentenza  n.  2531  del  2009),  ponendosi  in
consapevole  contrasto  col  precedente  orientamento  e  pervenendo,
quindi, alla conclusione che, in tema di pensione di vecchiaia  degli
operai agricoli a tempo determinato, la retribuzione pensionabile per
gli ultimi anni di lavoro  va  calcolata  applicando  l'art.  28  del
d.P.R. n. 488 del 1968  e,  dunque,  in  forza  della  determinazione
operata anno per anno  da  decreti  ministeriali  sulla  media  delle
retribuzioni  fissate  dalla  contrattazione  provinciale   nell'anno
precedente. 
    Il Tribunale di Rossano espone, quindi, le  ragioni  che,  a  suo
avviso, non consentono di condividere il  piu'  recente  orientamento
della Corte di legittimita', ed  osserva  che  la  cosiddetta  "legge
interpretativa", in questa  sede  censurata,  avrebbe  modificato  la
norma di riferimento con efficacia retroattiva,  percio'  applicabile
alle controversie in esame, imponendo di far capo non all'art. 28 del
d.P.R. n. 488 del 1968, bensi' all'art. 3, terzo comma,  della  legge
n. 457 del 1972, come interpretato, il che comporterebbe  il  rigetto
delle domande. 
    Secondo il rimettente, non vi sarebbe stato contrasto ermeneutico
sul fatto che la norma interpretata (art. 3, terzo comma, della legge
n. 457 del 1972) disciplinasse soltanto le prestazioni temporanee  in
agricoltura e non l'accredito contributivo  e,  per  conseguenza,  la
misura della pensione. Tale lettura sarebbe stata comune ad  entrambi
gli orientamenti sopra richiamati. Pertanto, il  legislatore  avrebbe
interpretato autenticamente una norma in  relazione  alla  quale  non
sussisteva alcun contrasto ermeneutico circa la sua  inapplicabilita'
al regime pensionistico contributivo. 
    In questo  quadro,  ad  avviso  del  Tribunale,  la  disposizione
censurata violerebbe, in  primo  luogo,  l'art.  3  Cost.,  apparendo
«irragionevole e in evidente contrasto con lo scopo manifestato». 
    Invero,   il   legislatore,   con   disposizione    asseritamente
interpretativa, avrebbe esteso la portata di una norma  inapplicabile
alla fattispecie, «al fine di non adeguare le pensioni  degli  operai
agricoli a tempo  determinato,  cosi'  evitando  la  condanna  in  un
contenzioso seriale». Lo scopo  dell'intervento  legislativo  sarebbe
ancora piu' evidente, qualora si consideri che  esso  avrebbe  dovuto
operare  sull'unica  disposizione  disciplinante  la  materia,  cioe'
sull'art. 28 del d.P.R. n. 488 del  1968.  In  tal  modo,  pero',  il
legislatore si sarebbe esposto a censura per violazione dell'art.  76
Cost., visti i limiti della delega sulla base della quale  il  citato
d.P.R. e' stato adottato (art. 39 legge 21 luglio 1965, n. 903). 
    L'art. 2, comma 5, della legge n. 191 del 2009,  quindi,  secondo
il rimettente  doveva  necessariamente  operare  sull'art.  3,  terzo
comma, della legge n. 457 del 1972, al fine di raggiungere  lo  scopo
di evitare possibili  condanne.  Risulterebbe  evidente,  dunque,  il
sospetto d'irragionevolezza, ancor piu' grave ove si osservi che,  in
realta', la disposizione de qua  determinerebbe  una  discriminazione
basata sulle  condizioni  sociali  degli  istanti.  Sarebbe  notorio,
infatti,  che  i  braccianti  agricoli  di  solito  provengono  dalle
categorie piu' deboli sotto il profilo sociale ed economico. 
    La norma censurata, inoltre, si porrebbe in contrasto con  l'art.
117 Cost. per violazione degli obblighi internazionali dello Stato e,
in  particolare,  dell'art.  6  della  Convenzione  europea  per   la
salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,
ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848
(Ratifica ed esecuzione della Convenzione  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali firmata a Roma  il  4
novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla  Convenzione  stessa,
firmato a Parigi il 20 marzo 1952),  come  interpretato  dalla  Corte
europea  dei  diritti  dell'uomo,  che  ha  escluso  la  possibilita'
d'ingerenza  del  potere   legislativo   nell'amministrazione   della
giustizia, allo scopo d'influire sulla conclusione giudiziaria  della
causa, eccetto il caso  di  motivi  imperativi  d'interesse  generale
(nella specie insussistenti). 
    Inoltre, la norma censurata sarebbe in contrasto anche con l'art.
111, primo e secondo comma, Cost., interpretato alla luce dell'art. 6
CEDU, perche' la previsione della sua applicabilita'  ai  giudizi  in
corso violerebbe il principio del  giusto  processo,  in  particolare
sotto il profilo della posizione di parita' delle parti, da  ritenere
leso  da  un  intervento  del  legislatore  diretto  ad  imporre  una
determinata soluzione ad una circoscritta e  specifica  categoria  di
controversie. 
    Il rimettente si dichiara consapevole dell'orientamento di questa
Corte in ordine ai limiti dell'ingerenza del potere legislativo,  con
riguardo all'art. 24 Cost., «ma ritiene che non siano conferenti alla
ratio della presente remissione», in quanto fondata  anche  sull'art.
117 Cost. in relazione  alla  portata  precettiva  della  CEDU,  come
interpretata dalla Corte di Strasburgo. 
    Ancora, sussisterebbe contrasto  con  l'art.  117,  primo  comma,
Cost., per violazione dell'art. 14 CEDU, «che  vieta  discriminazioni
per l'origine sociale e per la ricchezza nell'ambito di  applicazione
della Convenzione». 
    Nel   caso   di   specie   sarebbe   ravvisabile    una    doppia
discriminazione: da un lato, i precari dell'agricoltura  rispetto  al
resto del precariato, il  quale  vedrebbe  la  propria  contribuzione
correlata alla retribuzione reale, e, dall'altro, gli operai agricoli
rispetto agli altri lavoratori  dipendenti,  che  vedono  le  proprie
contribuzioni correlate  alla  retribuzione  reale  e  non  a  quella
dell'anno antecedente. 
    Infine,   sarebbero    ravvisabili    dubbi    di    legittimita'
costituzionale della norma censurata in riferimento agli artt. 3, 38,
secondo comma, e 53 Cost. 
    Invero, la sentenza conclusiva dei procedimenti per cui e'  causa
sarebbe di condanna in quanto diretta ad accertare  un  credito  gia'
nel patrimonio giuridico degli istanti. La norma  impugnata,  dunque,
verrebbe ad incidere su un rapporto di credito/debito, con  l'effetto
di determinare l'estinzione del credito del pensionato, relativo alle
differenze dei ratei di pensione nel frattempo maturati. La norma  de
qua,  quindi,  priverebbe  il  pensionato/assistito  di  parte  della
pensione gia' maturata, con violazione degli artt. 3  e  38,  secondo
comma, Cost., poiche' il legislatore avrebbe previsto  l'elisione  di
un diritto gia' presente nel patrimonio degli istanti, in assenza  di
ogni apprezzabile giustificazione. 
    La Costituzione avrebbe previsto «poche e circoscritte ipotesi in
cui una persona possa essere privata di diritti, ovvero  obbligata  a
prestazioni e cio' sempre in favore dello Stato (art. 53, obbligo  di
concorrere alle spese pubbliche), ovvero anche di privati (artt. 42 e
43), ma sempre a fronte di specifici motivi d'interesse generale. Nel
caso di specie invece, la  disposizione  in  esame,  per  determinati
soggetti,  in  condizioni  deboli  (pensionati  con  redditi  minimi,
trattandosi di  pensioni  agricole)  ha  previsto  che  questi  siano
privati di diritti gia' entrati nel loro patrimonio». 
    Si  tratterebbe,  dunque,  di  una  norma   priva   di   adeguata
giustificazione sul piano della  ragionevolezza  e  contrastante  con
altri  valori  e  interessi  costituzionalmente  protetti,  volta  ad
incidere in modo arbitrario su situazioni sostanziali poste in essere
da leggi precedenti. 
    4. - L'INPS si e' costituito in giudizio con  memoria  depositata
il 26 dicembre 2010, chiedendo che la questione  sia  dichiarata  non
fondata. 
    L'Istituto prende le mosse dal rilievo che  il  legislatore,  nel
rispetto della riserva prevista per la materia  penale  dall'art.  25
Cost., puo' emanare  norme  con  efficacia  retroattiva,  purche'  la
retroattivita'  trovi  adeguata  giustificazione  sul   piano   della
ragionevolezza  e  non  contrasti  con  altri  diritti  e   interessi
costituzionalmente protetti. Tale assunto trova applicazione  sia  in
presenza di una norma interpretativa, sia di una norma innovativa. 
    Osserva, poi, che, in relazione alla  portata  retroattiva  della
norma d'interpretazione autentica e ai suoi limiti, questa  Corte  ha
piu' volte affermato che  il  legislatore  non  soltanto  avrebbe  la
facolta' di adottare disposizioni dirette a chiarire  il  significato
di altri precetti legislativi,  quando  sussista  una  situazione  di
oggettiva  incertezza  nell'applicazione  del  diritto  o  vi   siano
contrasti  giurisprudenziali,  ma  che  tale   possibilita'   sarebbe
configurabile anche a  fronte  di  un  orientamento  della  Corte  di
cassazione, quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le varie
opzioni  ermeneutiche  cui  il  testo  originario  si  presta   (sono
richiamate le sentenze n. 274 del 2006, n. 374 e n. 29 del  2002,  n.
525 del 2000). 
    Nel  caso  in  esame,  la  norma  censurata  contemplerebbe   uno
specifico parametro per il calcolo della  retribuzione  pensionabile,
da  sempre  applicato  dall'Istituto,   «conferendo   tale   dinamica
concretezza al dubbio  ermeneutico  che  la  citata  disposizione  ha
definitivamente risolto». 
    Infatti, sul relativo contenzioso, si sarebbe  formato  un  primo
indirizzo del giudice di legittimita', in senso sfavorevole a  quello
seguito in sede amministrativa dall'INPS, all'atto della liquidazione
delle pensioni. 
    Piu'  recentemente,  ma  prima  dell'entrata  in   vigore   della
disposizione denunciata, «la stessa Corte regolatrice aveva mutato il
proprio orientamento addivenendo  alla  declaratoria  di  correttezza
dell'operato dell'INPS». 
    Pertanto, si dovrebbe ritenere che la  norma  de  qua  «abbia  di
fatto avvalorato sul piano legislativo quanto gia' adottato  in  sede
amministrativa  ed  avallato,  in  epoca  piu'   recente,   in   sede
giurisdizionale». 
    Del resto, non si potrebbe negare l'oggettiva incertezza  causata
dal contrasto tra una prassi  amministrativa  costante  ed  un  primo
orientamento   della   giurisprudenza   in   ordine   alla   corretta
individuazione dei criteri di calcolo per i trattamenti in questione.
Tale incertezza, al di la' del mutamento  in  senso  favorevole  alla
tesi dell'Istituto operato dalla Corte di  cassazione,  avrebbe  reso
non  soltanto  ragionevole,  ma  molto  opportuno  l'intervento   del
legislatore. 
    Andrebbe, poi, ricordato che il  vigente  sistema  previdenziale,
fondato sul rapporto sinallagmatico tra il versamento dei  contributi
e l'erogazione delle prestazioni, anche  nell'ambito  del  cosiddetto
sistema retributivo, non terrebbe conto soltanto  della  retribuzione
effettivamente riscossa, ma anche della relativa  contribuzione.  Non
sarebbe  configurabile,  dunque,  la  discriminazione  paventata  dal
rimettente, perche', da un lato, la norma interpretativa risulterebbe
ragionevole,  e  percio'  corretta  sul   piano   costituzionale   e,
dall'altro,  essa  non  comporterebbe  una  perdita  economica  cosi'
rilevante da tradursi nella suddetta discriminazione. 
    Al contrario,  la  norma  avrebbe  il  merito  di  ricondurre  ad
uniformita' il sistema previdenziale dei lavoratori agricoli a  tempo
determinato, individuando un unico  parametro  di  riferimento  -  il
salario medio convenzionale dell'anno precedente - da utilizzare  per
la liquidazione di ogni prestazione  previdenziale,  pensionistica  e
non, oltre che per il calcolo della  contribuzione  da  versare,  nel
quadro di un percorso legislativo  diretto  a  disegnare  un  sistema
previdenziale nel complesso piu' coerente e funzionale per  la  detta
categoria di  lavoratori,  sistema  gia'  anticipato  dall'intervento
attuato con il decreto legislativo 16 aprile 1997, n. 146 (Attuazione
della delega conferita dall'art. 2, comma 24, della  legge  8  agosto
1995, n. 335, in materia di previdenza agricola). 
    Ad avviso  del  deducente,  la  censura  formulata  con  richiamo
all'art. 38 Cost. sarebbe generica  e,  comunque,  non  fondata,  non
risultando in alcun modo vulnerato il principio dell'adeguatezza  del
trattamento pensionistico, comunque da bilanciare con  l'esigenza  di
rispettare il limite delle risorse disponibili, anche con riferimento
all'art. 81 Cost., fermo restando che «in sede di manovra finanziaria
di fine anno spetta al Governo e al Parlamento  introdurre  modifiche
alla legislazione di spesa, ove cio' sia necessario  a  salvaguardare
l'equilibrio del bilancio dello  Stato  e  perseguire  gli  obiettivi
della programmazione finanziaria». 
    Sarebbe innegabile, del resto, che al  legislatore  debba  essere
riconosciuto un margine di  discrezionalita'  nella  concretizzazione
del   precetto   costituzionale   relativo   all'adeguatezza    della
prestazione previdenziale,  tenendo  conto  della  consistenza  delle
risorse economiche  disponibili  e  considerando  che,  nel  caso  di
specie, non sarebbe neppure  in  gioco  la  garanzia  delle  esigenze
minime di protezione della persona (e' richiamata la  sentenza  della
Corte costituzionale n. 180 del 2001). 
    Quanto al dubbio sulla legittimita'  costituzionale  della  norma
censurata, sollevato con riferimento agli artt. 111, primo e  secondo
comma, e 117, primo comma, Cost., in relazione  agli  artt.  6  e  14
CEDU, la detta norma  interpretativa  sarebbe  del  tutto  legittima,
essendosi limitata a rendere esplicito un contenuto gia' insito nella
disposizione di riferimento. 
    Invero, non sussisterebbero profili di contrasto con  l'art.  111
Cost. sul giusto processo, perche' scopo della norma in questione non
sarebbe  quello  d'imporre  una  determinata  soluzione  ai   giudizi
pendenti,  bensi'  quello  di  precisare  l'opzione  ermeneutica   da
adottare, indicando in modo espresso la volonta' del legislatore  sul
punto. 
    Ne', in linea generale,  si  potrebbe  affermare  che  una  norma
d'interpretazione autentica sia di per se' contraria al principio del
giusto processo, in quanto un intervento legislativo  di  tal  genere
dovrebbe ritenersi legittimo in presenza  di  obiettivi  di  pubblica
utilita',  nel  cui  novero  certamente  rientrerebbe  l'esigenza  di
salvaguardare  i  principi  informativi  del  sistema   previdenziale
pubblico e, in particolare, l'esigenza di garantire l'integrita'  del
rapporto  tra  retribuzione  pensionabile  e  provvista  contributiva
disponibile, calcolandole entrambe su un unico ed omogeneo parametro. 
    Del  pari  infondata  sarebbe  la  censura  mossa   per   pretesa
violazione degli artt. 6 e 14 CEDU. Il rispetto  dei  principi  della
Convenzione non comporterebbe affatto che  debbano  essere  disattese
esigenze nazionali nascenti  da  inderogabili  necessita'  pubbliche,
quali sarebbero le esigenze di salvaguardare i principi che governano
il sistema previdenziale pubblico. 
    Infine, non sarebbe ravvisabile violazione del canone di  parita'
delle parti nel processo, perche' esso  «non  consente  di  ingerirsi
nell'esercizio del potere discrezionale e politico  del  legislatore,
tanto  piu'  che  il  suddetto  esercizio  non  rientra  certo  nelle
prerogative di una delle due parti in causa - l'INPS  -  che  non  e'
depositario del detto potere». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. - Il Tribunale di Rossano,  in  composizione  monocratica,  in
funzione di giudice del lavoro, dubita - in riferimento agli articoli
3, 38, secondo comma, 53, 111, primo e secondo comma,  e  117,  primo
comma,  della  Costituzione  -  della   legittimita'   costituzionale
dell'art.  2,  comma  5,  della  legge  23  dicembre  2009,  n.   191
(Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale  e  pluriennale
dello Stato - Legge finanziaria 2010). 
    Il rimettente premette di essere chiamato a pronunziarsi  su  due
ricorsi (poi riuniti per ragioni di  connessione),  proposti  da  due
operaie agricole a tempo determinato, titolari di pensioni  categoria
VO, nei confronti dell'Istituto nazionale della previdenza sociale. 
    Le attrici hanno sostenuto che il detto Istituto, nel determinare
la pensione, avrebbe erroneamente applicato l'art. 28 del decreto del
Presidente della Repubblica 27 aprile 1968, n. 488 (Aumento  e  nuovo
sistema  di  calcolo  delle  pensioni  a  carico   dell'assicurazione
generale  obbligatoria),  in  quanto,  nel  calcolare   la   pensione
spettante alle lavoratrici, avrebbe assunto come  base  non  gia'  il
salario medio convenzionale dell'anno  in  cui  il  lavoro  e'  stato
prestato, bensi' quello dell'anno precedente. Pertanto, hanno chiesto
che sia dichiarato il loro  diritto  ad  ottenere  la  riliquidazione
della pensione di vecchiaia in godimento sulla base del salario medio
convenzionale  in  vigore  nell'anno  in  cui  il  lavoro  era  stato
prestato, con condanna dell'INPS alla ricostruzione della pensione  e
al pagamento delle differenze mensili. 
    Il Tribunale giudica la questione  rilevante,  perche'  la  norma
censurata  «viene  a  disciplinare,  con   chiara   efficacia   sulla
controversia in esame, il sistema di  accredito  contributivo  ed  il
calcolo consequenziale della  pensione».  Osserva  che  la  Corte  di
cassazione, con orientamento  costante,  si  era  espressa  in  senso
favorevole alla tesi propugnata dalle attrici. 
    Rileva che, recentemente, la stessa Corte, con sentenza  n.  2531
del 2009, e' pervenuta a risolvere la questione in senso opposto,  ma
considera tale nuovo orientamento  non  condivisibile,  alla  stregua
delle  precedenti  conclusioni  raggiunte  dalla  giurisprudenza.   E
afferma che la norma, della cui legittimita' costituzionale dubita  -
stabilendo che il terzo comma dell'art. 3 della legge 8 agosto  1972,
n. 457 (Miglioramenti ai trattamenti previdenziali  ed  assistenziali
nonche' disposizioni per la integrazione del salario  in  favore  dei
lavoratori agricoli), si interpreta nel senso che il termine  per  la
rilevazione della media tra le retribuzioni per le diverse qualifiche
previste dai contratti collettivi  provinciali  di  lavoro,  ai  fini
della determinazione della retribuzione media convenzionale da  porre
a base per le prestazioni  pensionistiche  e  per  il  calcolo  della
contribuzione degli operai agricoli a tempo  determinato,  e'  quello
previsto dal secondo comma dell'art. 3 della medesima legge  per  gli
operai a tempo indeterminato - imporrebbe di ritenere applicabile non
l'art. 28 del d.P.R. n. 488  del  1968,  ma  il  citato  terzo  comma
dell'art. 3 della legge n. 457  del  1972,  come  interpretato,  alla
stregua del quale si dovrebbe pervenire al rigetto delle domande. 
    In  questo  quadro,  il  rimettente  ritiene  le   questioni   di
legittimita'  costituzionale  non   manifestamente   infondate,   con
riferimento ai parametri invocati. 
    In particolare, la norma denunziata si porrebbe in contrasto:  a)
con  l'art.  3   Cost.,   «apparendo   la   disposizione   sospettata
irragionevole ed in evidente contrasto con lo scopo manifestato»,  in
quanto il legislatore avrebbe esteso la portata di  una  disposizione
normativa, in precedenza inapplicabile alla fattispecie, mediante una
norma autoqualificata  come  interpretativa,  con  lo  scopo  di  non
adeguare le pensioni  degli  operai  agricoli  a  tempo  determinato,
evitando in tal modo la condanna in un contenzioso seriale.  Inoltre,
essa  determinerebbe  una  discriminazione  basata  sulle  condizioni
sociali delle istanti, essendo  notorio  che  i  braccianti  agricoli
provengono da una categoria della societa' meno  favorita  sul  piano
sociale ed economico e soltanto per tale categoria si valuterebbe, al
fine della determinazione della  base  pensionabile,  il  piu'  basso
salario dell'anno precedente. Infine, sarebbe  violato  il  principio
generale che consente al legislatore  di  emanare  norme  retroattive
soltanto qualora esse  trovino  adeguata  giustificazione  sul  piano
della ragionevolezza e non si pongano in contrasto con altri valori e
interessi  costituzionalmente  protetti,  finendo  in  tal  modo  per
incidere arbitrariamente su situazioni  sostanziali  disciplinate  da
leggi precedenti; b) con l'art. 111, primo e  secondo  comma,  Cost.,
interpretato alla luce dell'art. 6 CEDU, perche' la previsione  della
sua applicabilita' ai giudizi in corso violerebbe  il  principio  del
giusto processo, in particolare sotto il profilo della parita'  delle
parti, da ritenere leso a causa  di  un  intervento  del  legislatore
diretto ad imporre una determinata soluzione ad  una  circoscritta  e
specifica categoria di controversie; c) con l'art. 117, primo  comma,
Cost., in riferimento agli obblighi internazionali dello Stato e,  in
particolare, all'art. 6 CEDU, in  relazione  al  quale  la  Corte  di
Strasburgo ha sempre affermato  che  «se,  in  principio,  al  potere
legislativo non e' impedito  regolamentare  in  materia  civile,  con
nuove disposizioni a portata  retroattiva,  i  diritti  derivanti  da
leggi in vigore, il principio  della  prevalenza  del  diritto  e  la
nozione del processo equo sanciti dall'articolo 6 si oppongono, salvo
che nel caso di motivi imperativi d'interesse generale, all'ingerenza
del potere  legislativo  nell'amministrazione  della  giustizia  allo
scopo di influire sulla conclusione  giudiziaria  della  causa»  (nel
caso  di  specie  non  sarebbero   ravvisabili   "motivi   imperativi
d'interesse generale"); d) ancora con l'art. 117, primo comma, Cost.,
in  relazione  all'art.  14  CEDU,  «che  vieta  discriminazioni  per
l'origine sociale e per  la  ricchezza  nell'ambito  di  applicazione
della Convenzione» (la norma censurata interverrebbe contro una  sola
categoria di soggetti, appartenenti a settori deboli della  societa',
trattandosi di lavoratori precari con contratti stagionali);  e)  con
gli artt. 38, secondo comma, e 53 Cost., perche' la  norma  censurata
andrebbe ad incidere su un  rapporto  di  credito-debito  in  via  di
accertamento, provocando l'estinzione  del  diritto  di  credito  del
pensionato per i ratei gia' maturati e, quindi, privando quest'ultimo
di parte della pensione gia'  maturata,  con  violazione  dei  citati
parametri costituzionali, avendo il legislatore  previsto  l'elisione
del menzionato diritto, «gia' presente nel patrimonio delle posizioni
giuridiche degli istanti, in assenza di apprezzabile giustificazione,
essendo  quella  esplicitata  dalla  disposizione  in  esame,  ovvero
l'interpretazione  di  disposizione   normativa,   inesistente».   Si
tratterebbe, quindi, di una disposizione  in  senso  lato  ablatoria,
impositiva di un sacrificio ad una sola categoria di soggetti  deboli
in  favore  dell'INPS,  adottata   al   di   fuori   delle   ipotesi,
tassativamente previste in Costituzione, nelle quali una persona puo'
essere privata di diritti, ovvero obbligata a prestazioni,  sempre  a
fronte di specifici motivi d'interesse generale. 
    2. - La questione di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  2,
comma 5, della legge n.  191  del  2009,  sollevata  con  riferimento
all'art. 38, secondo  comma,  Cost.,  e'  inammissibile  per  il  suo
carattere generico. 
    Il parametro evocato stabilisce che «I lavoratori  hanno  diritto
che siano preveduti ed assicurati mezzi, adeguati alle loro  esigenze
di vita in caso di infortunio,  malattia,  invalidita'  e  vecchiaia,
disoccupazione involontaria». Il rimettente si  limita  a  richiamare
questo precetto, ma non  chiarisce  le  ragioni  per  le  quali  esso
sarebbe violato dalla norma censurata. In particolare, sarebbe  stato
quanto meno necessario esporre gli argomenti idonei  a  far  ritenere
che il sistema stabilito dalla norma  de  qua  andrebbe  ad  incidere
sull'adeguatezza della prestazione pensionistica, in  guisa  tale  da
vulnerare il dettato costituzionale. 
    In difetto di tale profilo, la questione risulta  prospettata  in
termini generici, il che non consente di darle ingresso. 
    3. - Del pari  inammissibile  e'  la  questione  di  legittimita'
costituzionale sollevata con riferimento all'art. 53 Cost. 
    Infatti, detta norma riguarda l'imposizione tributaria  in  senso
proprio e non la materia previdenziale (sentenze n. 47 del  2008,  n.
311 del 1995; ordinanze n. 202 del  2006,  n.  22  del  2003),  e  il
rimettente si limita ad una mera  enunciazione  del  parametro  senza
spiegare le ragioni della sua pertinenza alla fattispecie. 
    4. - La questione di legittimita' costituzionale,  sollevata  con
riferimento all'art. 3 Cost., non e' fondata. 
    L'art. 3, secondo comma, della legge n. 457 del 1972, in  materia
di lavoro agricolo, stabilisce che «Per i salariati fissi l'ammontare
della retribuzione comprensiva del salario base,  della  contingenza,
delle indennita' in natura e fisse, e' costituito dalla  media  della
retribuzione prevista per ciascuna qualifica dai contratti collettivi
provinciali vigenti al 30 ottobre dell'anno precedente». 
    L'art. 3, terzo comma, della legge  citata  prevede  che  «Per  i
giornalieri di campagna l'ammontare della  retribuzione,  comprensiva
del salario base, contingenza, terzo  elemento  ed  altre  indennita'
fisse, e' costituito dalla media tra le retribuzioni per  le  diverse
qualifiche previste dai contratti collettivi  provinciali  di  lavoro
vigenti al 30 ottobre di ogni anno.  La  media  tra  le  retribuzioni
delle diverse qualifiche e' determinata dividendo per sei  il  totale
costituito dalla somma del salario previsto per il lavoratore comune,
del doppio  del  salario  previsto  per  il  lavoratore  qualificato,
nonche'  del  triplo  del  salario   previsto   per   il   lavoratore
specializzato». 
    Il detto comma formo' gia' oggetto d'interpretazione autentica da
parte dell'art. 45, comma 21, della legge  17  maggio  1999,  n.  144
(Misure in materia d'investimenti, delega al Governo per il  riordino
degli incentivi all'occupazione  e  della  normativa  che  disciplina
l'INAIL,  nonche'   disposizioni   per   il   riordino   degli   enti
previdenziali), alla stregua del quale «Il terzo  comma  dell'art.  3
della legge 8 agosto 1972, n. 457, si interpreta  nel  senso  che  il
termine ivi previsto del 30 ottobre per la  rilevazione  della  media
tra le retribuzioni per le diverse qualifiche previste dai  contratti
collettivi provinciali di lavoro ai fini della  determinazione  della
retribuzione  media  da  porre  a  base  per  la  liquidazione  delle
prestazioni temporanee per gli operai agricoli a tempo determinato e'
il medesimo di quello previsto al secondo comma dell'articolo 3 della
citata legge n. 457 del 1972 per gli operai a tempo indeterminato». 
    Sia  pur  limitatamente  alla  liquidazione   delle   prestazioni
temporanee per gli operai agricoli a tempo  determinato,  dunque,  il
legislatore gia' si era espresso equiparando, ai  fini  di  cui  alla
norma  medesima,  la  posizione  degli  operai   agricoli   a   tempo
determinato a quella degli operai a tempo indeterminato. 
    La norma in questa sede censurata (art. 2, comma 5,  della  legge
n. 191 del 2009), trascritta in narrativa, ha, in sostanza, reiterato
in via ermeneutica la norma gia' dettata per  la  liquidazione  delle
prestazioni temporanee per gli operai agricoli a  tempo  determinato,
estendendola alla retribuzione delle prestazioni pensionistiche e  al
calcolo della  contribuzione  relative  alla  medesima  categoria  di
lavoratori. 
    In questo quadro (nel quale, per completezza, va  iscritto  anche
l'art. 28 del d.P.R. n. 488 del 1968), la giurisprudenza della  Corte
di cassazione in un primo momento aveva affermato  che  «In  tema  di
pensione di vecchiaia degli operai agricoli a tempo  determinato,  la
retribuzione pensionabile per gli ultimi anni di lavoro va calcolata,
sia applicando l'art. 28 d.P.R.  n.  488  del  1968,  sia  applicando
l'art. 3, terzo comma,  della  legge  n.  457  del  1972,  nel  testo
risultante dalla norma d'interpretazione autentica del 1999 (art. 45,
comma 21, della legge n. 144 del 1999), sulla base delle retribuzioni
medie annualmente vigenti, mentre nessuna disposizione appare  idonea
a giustificare il diverso sistema di calcolo improntato  sulla  media
vigente nell'anno precedente, atteso che l'art. 28 del d.P.R. n.  488
citato rimette al d.m. la determinazione delle retribuzioni medie  su
cui calcolare la pensione, prescrivendo, pero', senza  alcun  margine
di discrezionalita', che la media sia quella vigente per ciascun anno
e l'ente previdenziale e' gia'  tempestivamente  a  conoscenza  della
media  delle  retribuzioni  su  cui   determinare   la   retribuzione
pensionabile di ciascun anno. Detta interpretazione e'  coerente  con
il  principio,  proprio   del   sistema   retributivo   del   calcolo
pensionistico, secondo  il  quale  la  retribuzione  pensionabile  e'
ancorata per  quanto  possibile  all'ultimo  trattamento  retributivo
percepito, al fine di non alterare negativamente il  regime  di  vita
acquisito prestando attivita' lavorativa» (ex plurimis:  sentenza  n.
3212 del 14 febbraio 2007). 
    Successivamente la Corte  di  cassazione,  avendo  rimeditato  il
precedente orientamento, ha affermato che «In  tema  di  pensione  di
vecchiaia degli operai agricoli a tempo determinato, la  retribuzione
pensionabile per gli ultimi anni di lavoro  va  calcolata  applicando
l'art. 28 del d.P.R. 27 aprile 1968, n. 488 e, dunque, in forza della
determinazione operata anno per anno  da  d.  m.  sulla  media  delle
retribuzioni  fissate  dalla  contrattazione  provinciale   nell'anno
precedente, cio' trovando conferma - oltre che  nella  impossibilita'
di rinvenire un diverso e piu' funzionale sistema di calcolo che  non
pregiudichi  l'equilibrio  stesso  della  gestione  previdenziale  di
settore - anche nella disposizione di  cui  all'art.  45,  comma  21,
della  legge  17  maggio  1999,   n.   144   che,   nell'interpretare
autenticamente  l'art.  3  della  legge  8  agosto  1972,   n.   457,
concernente  le  prestazioni  temporanee  in  favore  dei  lavoratori
agricoli,  ha  inteso  estendere  ai  lavoratori  agricoli  a   tempo
determinato l'applicazione della media  della  retribuzione  prevista
dai contratti collettivi provinciali vigenti al 30 ottobre  dell'anno
precedente prevista  per  i  salariati  fissi,  cosi'  da  ricondurre
l'intero sistema ad uniformita', facendo operare, ai fini del calcolo
di tutte le prestazioni, le retribuzioni  dell'anno  precedente»  (ex
plurimis: sentenza n. 2531 del 20 gennaio 2009). 
    Cio' posto, si deve premettere  che,  con  riferimento  ad  altre
leggi d'interpretazione autentica, questa Corte ha gia' affermato che
non e' decisivo verificare se  la  norma  censurata  abbia  carattere
effettivamente interpretativo (e sia percio' retroattiva), ovvero sia
innovativa  con  efficacia  retroattiva.  Infatti,  il   divieto   di
retroattivita' della legge, pur costituendo  fondamentale  valore  di
civilta' giuridica, non e' stato elevato a  dignita'  costituzionale,
salva, per la  materia  penale,  la  previsione  dell'art.  25  Cost.
Pertanto, il legislatore,  nel  rispetto  di  tale  previsione,  puo'
emanare  sia   disposizioni   di   interpretazione   autentica,   che
determinano  la  portata   precettiva   della   norma   interpretata,
fissandola in un contenuto plausibilmente gia' espresso dalla stessa,
sia  norme  innovative  con   efficacia   retroattiva,   purche'   la
retroattivita'  trovi  adeguata  giustificazione  sul   piano   della
ragionevolezza  e  non  contrasti  con  altri  valori  ed   interessi
costituzionalmente  protetti.  Sotto  l'aspetto  del   controllo   di
ragionevolezza, dunque,  rilevano  la  funzione  di  "interpretazione
autentica", che una disposizione sia in ipotesi chiamata a  svolgere,
ovvero l'idoneita' di una disposizione innovativa a disciplinare  con
efficacia  retroattiva  anche  situazioni  pregresse  in  deroga   al
principio per cui  la  legge  dispone  soltanto  per  l'avvenire.  In
particolare, la norma  che  deriva  dalla  legge  di  interpretazione
autentica non puo' dirsi irragionevole qualora si limiti ad assegnare
alla disposizione interpretata un significato gia' in essa contenuto,
riconoscibile come una delle possibili letture del  testo  originario
(ex plurimis: sentenze n. 162 e n. 74 del 2008). 
    Inoltre, questa Corte  ha  anche  chiarito,  con  riferimento  ai
rapporti di durata, che il legislatore, in materia di successione  di
leggi, dispone di ampia discrezionalita' e puo' anche  modificare  in
senso sfavorevole la disciplina di quei rapporti, ancorche' l'oggetto
sia costituito da diritti soggettivi  perfetti,  salvo,  come  si  e'
innanzi precisato, in caso di norme retroattive, il limite imposto in
materia penale dall'art. 25,  secondo  comma,  Cost.,  e  comunque  a
condizione che la retroattivita' trovi adeguata  giustificazione  sul
piano della ragionevolezza e non si  ponga  in  contrasto  con  altri
valori e interessi costituzionalmente protetti (ex plurimis: sentenza
n. 236 del 2009 e giurisprudenza in essa richiamata). 
    Con riguardo ai principi qui richiamati, si devono  escludere  le
violazioni dell'art. 3 Cost., ipotizzate dal rimettente. 
    Infatti,  la  norma  censurata  non  presenta   alcun   carattere
irragionevole, ma s'inserisce in un orientamento legislativo gia'  in
precedenza espresso che, sia pure con riferimento  alla  liquidazione
delle prestazioni temporanee, aveva previsto per gli operai  agricoli
a tempo determinato il medesimo  criterio  contemplato  dall'art.  3,
secondo comma, della legge n. 457 del 1972 per  gli  operai  a  tempo
indeterminato (art. 45, comma 21, della legge n. 144  del  1999).  E'
vero  che  le  prestazioni  temporanee   sono   diverse   da   quelle
pensionistico - contributive; non e'  esatto,  pero',  che,  come  il
rimettente sembra  postulare,  queste  ultime  riguardino  tutt'altra
materia rispetto alle prime, essendo palese che le  une  e  le  altre
attengono al complessivo trattamento  previdenziale  della  categoria
dei  lavoratori  agricoli,  sicche'  appare  non   irragionevole   la
finalita' perseguita dal legislatore, diretta a ricondurre il sistema
ad una disciplina uniforme, utilizzando, ai fini del calcolo di tutte
le prestazioni, le retribuzioni dell'anno precedente. 
    Del resto, la presunta irragionevolezza della norma censurata  va
esclusa anche sotto  altro  profilo.  Invero,  l'opzione  ermeneutica
prescelta  dal  legislatore   non   ha   affatto   introdotto   nella
disposizione interpretata un elemento ad essa del tutto estraneo,  ma
si e' limitata ad assegnarle un significato  riconoscibile  come  una
delle possibili letture del testo originario. Il che e' reso evidente
dai contrastanti orientamenti della giurisprudenza  di  legittimita',
di cui la medesima ordinanza di  rimessione  da'  conto  e  che  sono
anteriori  alla  norma  censurata.  Tali  orientamenti  rivelano  una
situazione di  oggettiva  incertezza  del  dato  normativo  e  dunque
rendono  non  irragionevole   il   ricorso   del   legislatore   alla
interpretazione autentica (ordinanza n. 400 del 2007). 
    Pertanto  l'assunto  del  rimettente,  secondo  cui  l'intervento
legislativo sarebbe stato ispirato  dal  «fine  di  non  adeguare  le
pensioni degli operai agricoli a tempo determinato, cosi' evitando la
condanna in un  contenzioso  seriale»,  non  puo'  essere  condiviso,
perche' non e' sorretto da adeguata motivazione,  idonea  a  superare
gli argomenti ora esposti,  ed  anzi  e'  smentito  dai  dati  dianzi
richiamati. 
    Ne' e' ravvisabile «una discriminazione in sfavore  di  categorie
deboli». A  parte  il  carattere  generico  della  censura,  si  deve
osservare che la  norma  si  limita  ad  equiparare,  ai  fini  della
individuazione del termine in essa contemplato,  la  categoria  degli
operai agricoli a tempo determinato a quella degli operai agricoli  a
tempo indeterminato, cosi' uniformando il  sistema  ed  adottando  un
criterio gia' presente nell'ordinamento. 
    Infine, l'argomento secondo cui la disposizione  de  qua  avrebbe
carattere in senso lato ablatorio, diretto ad imporre  un  sacrificio
ad una sola categoria di soggetti deboli in favore dell'INPS, non  e'
fondato. Esso muove dal presupposto che la  norma  censurata  avrebbe
l'effetto di «determinare l'estinzione del  diritto  di  credito  del
pensionato   anche   alle   differenze   dei   ratei   di    pensione
infratemporalmente  maturati».  Si  tratterebbe,   dunque,   di   una
«estinzione del debito in forza  di  disposizione  legislativa»,  che
andrebbe a colpire un diritto «gia'  presente  nel  patrimonio  delle
posizioni  giuridiche  degli  istanti».  Il  presupposto,  pero',  e'
errato, perche' la situazione giuridica vantata dalle  parti  private
non  poteva  considerarsi  acquisita  o  consolidata,  proprio  avuto
riguardo alle oggettive incertezze del dato normativo, desumibili dai
contrastanti orientamenti della giurisprudenza e superati dalla norma
interpretativa. 
    5. - La questione di legittimita' costituzionale,  sollevata  con
riferimento agli artt. 111 e 117, primo comma, Cost., non e' fondata. 
    Il rimettente ravvisa anche un contrasto con  l'art.  117  (primo
comma) Cost., per  violazione  degli  obblighi  internazionali  dello
Stato e,  in  particolare,  dell'art.  6  della  Convenzione  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. 
    Infatti, con riferimento al citato art. 6, la Corte  europea  dei
diritti dell'uomo avrebbe sempre affermato che «se, in principio,  al
potere legislativo non e' impedito regolamentare in  materia  civile,
con nuove disposizioni a portata retroattiva, i diritti derivanti  da
leggi in vigore, il principio  della  prevalenza  del  diritto  e  la
nozione del processo equo si oppongono, salvo che nel caso di  motivi
imperativi d'interesse generale, all'ingerenza del potere legislativo
nell'amministrazione della  giustizia  allo  scopo  d'influire  sulla
conclusione giudiziaria della  causa»  (e'  richiamata,  insieme  con
altre pronunzie, la sentenza della citata  Corte  18  dicembre  2008,
relativa al ricorso n. 20153 del 2004, UNEDIC c/ Francia). 
    Nel  caso   di   specie,   a   giudizio   del   rimettente,   non
sussisterebbero motivi imperativi d'interesse generale. 
    Inoltre, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto anche
con l'art. 111, primo e secondo comma, Cost., interpretato alla  luce
dell'art. 6 CEDU, in quanto la previsione della sua applicabilita' ai
giudizi in corso violerebbe il  principio  del  giusto  processo,  in
particolare sotto il profilo della parita' delle parti,  da  ritenere
leso a causa di un intervento del legislatore diretto ad imporre  una
determinata soluzione ad una circoscritta e  specifica  categoria  di
controversie. 
    Ancora, sussisterebbe  violazione  dell'art.  117,  primo  comma,
Cost., in relazione all'art. 14 CEDU, che vieta  discriminazioni  per
l'origine sociale e per  la  ricchezza  nell'ambito  di  applicazione
della Convenzione. La norma censurata interverrebbe contro  una  sola
categoria  di  soggetti,  appartenenti  a  settori   della   societa'
socialmente  ed  economicamente  deboli.  Nel  caso  di  specie,   la
possibile discriminazione sarebbe duplice:  «da  un  lato  i  precari
della agricoltura rispetto al  resto  del  precariato,  che  vede  la
propria  contribuzione   correlata   alla   retribuzione   reale   e,
dall'altro,  gli  operai  agricoli  rispetto  agli  altri  lavoratori
dipendenti,  che  vedono  le  loro   contribuzioni   correlate   alla
retribuzione reale». 
    5.1. - In premessa, si deve ricordare che questa  Corte,  con  le
sentenze nn. 348 e 349 del 2007, ha chiarito i rapporti tra il citato
art. 117, primo comma, Cost. e le norme della CEDU, come interpretate
dalla Corte europea dei  diritti  dell'uomo.  I  principi  illustrati
nelle menzionate sentenze devono ritenersi in questa sede richiamati.
Alla luce  di  essi  si  deve,  dunque,  verificare:  a)  se  vi  sia
contrasto, non suscettibile di essere risolto in via  interpretativa,
tra la disciplina censurata e le norme della CEDU, come  interpretate
dalla  Corte  di  Strasburgo  ed  assunte  quali  fonti  integratrici
dell'indicato parametro costituzionale; b) se le  norme  della  CEDU,
invocate  come   integrazione   del   parametro   (cosiddette   norme
interposte), nell'interpretazione ad esse data dalla medesima  Corte,
siano compatibili con l'ordinamento costituzionale italiano (sentenza
n. 348 del 2007, citata). 
    Orbene, con riguardo all'art. 6 della CEDU, si deve osservare che
la Corte di Strasburgo, pur censurando in numerose occasioni indebite
ingerenze del potere  legislativo  degli  Stati  sull'amministrazione
della giustizia (per una ricognizione dei casi trattati, sentenza  di
questa Corte n. 311 del 2009), non ha  inteso  enunciare  un  divieto
assoluto d'ingerenza  del  legislatore,  dal  momento  che  in  varie
occasioni ha ritenuto non contrari al menzionato art.  6  particolari
interventi retroattivi dei legislatori nazionali (sentenza da  ultimo
citata, punto 8 del Considerato in diritto). La  regola  di  diritto,
affermata anche di recente con sentenza della seconda sezione in data
7 giugno 2011, in causa Agrati ed altri c/ Italia,  e'  che  «Se,  in
linea di principio, il  legislatore  puo'  regolamentare  in  materia
civile, mediante nuove disposizioni retroattive, i diritti  derivanti
da leggi gia' vigenti, il principio della preminenza del diritto e la
nozione di equo processo sancito dall'articolo 6  ostano,  salvo  che
per  ragioni  imperative  d'interesse  generale,  all'ingerenza   del
legislatore  nell'amministrazione  della  giustizia  allo  scopo   di
influenzare la risoluzione  di  una  controversia.  L'esigenza  della
parita' delle armi comporta l'obbligo di offrire ad  ogni  parte  una
ragionevole possibilita' di presentare il suo caso, in condizioni che
non comportino un sostanziale svantaggio rispetto alla controparte». 
    Anche secondo la detta regola, dunque, sussiste lo spazio per  un
intervento del legislatore con efficacia retroattiva (fermi i  limiti
di cui all'art. 25  Cost.).  Diversamente,  se  ogni  intervento  del
genere  fosse  considerato  come  indebita   ingerenza   allo   scopo
d'influenzare la risoluzione di una controversia,  la  regola  stessa
sarebbe  destinata  a  rimanere  una  mera  enunciazione,  priva   di
significato concreto. 
    Nel caso in esame, la norma censurata non  e'  illegittima  sulla
base dei rilievi in precedenza svolti. In particolare,  si  deve  qui
ribadire che  essa:  a)  ha  affermato  un  principio  gia'  presente
nell'ordinamento per gli operai agricoli  a  tempo  determinato,  sia
pure limitatamente alla  liquidazione  delle  prestazioni  temporanee
(art. 45, comma 21, della legge n. 144 del 1999); b) ha enucleato una
delle possibili opzioni ermeneutiche dell'originario testo normativo;
c) ha superato una situazione di oggettiva incertezza di tale  testo,
evidenziata dai diversi indirizzi interpretativi (di cui sopra si  e'
dato  conto);   d)   non   ha   inciso   su   situazioni   giuridiche
definitivamente  acquisite,  non  ravvisabili  in  mancanza  di   una
consolidata giurisprudenza dei giudici nazionali. 
    Non e' sostenibile, dunque, che  la  disposizione  de  qua  abbia
inteso   realizzare   una   illecita   ingerenza   del    legislatore
nell'amministrazione della giustizia,  allo  scopo  d'influenzare  la
risoluzione di controversie. Essa, in realta', ha fatto  propria  una
soluzione gia'  individuata  dalla  piu'  recente  giurisprudenza  di
legittimita', nell'esercizio di un potere  discrezionale  in  via  di
principio spettante al legislatore e nel quale non e' dato  ravvisare
profili di irragionevolezza. La finalita' di superare  un  conclamato
contrasto  di  giurisprudenza,  essendo  diretta  a   perseguire   un
obiettivo d'indubbio interesse  generale  qual  e'  la  certezza  del
diritto,  e'  configurabile  come  ragione  idonea   a   giustificare
l'intervento interpretativo del legislatore. 
    Pertanto, il denunciato contrasto tra la norma censurata e l'art.
6 CEDU, con violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., deve essere
escluso. 
    Del pari, va esclusa l'asserita violazione dell'art. 111, primo e
secondo comma, Cost. In particolare,  non  e'  violato  il  principio
della  parita'  delle  parti  nel  processo.  Infatti,  come  si   e'
osservato, il legislatore ha individuato una delle possibili  opzioni
interpretative della norma, per garantire la certezza applicativa del
sistema  evitando  ulteriori  contenziosi,  e  non   con   lo   scopo
d'interferire su quelli in corso, peraltro  gia'  soggetti  al  nuovo
orientamento  della  giurisprudenza  di  legittimita'  conforme  alla
disposizione interpretativa. 
    Infine,  il  rimettente  prospetta  una  «possibile   violazione»
dell'art. 117, primo comma, Cost., «per violazione dell'art. 14 della
CEDU che  vieta  discriminazioni  per  l'origine  sociale  e  per  la
ricchezza nell'ambito di applicazione della  convenzione».  La  norma
censurata sarebbe intervenuta contro una sola categoria  di  soggetti
appartenenti a settori deboli della societa'. 
    Tuttavia il Tribunale  non  chiarisce  i  motivi  di  una  simile
valutazione,   ravvisa   una   discriminazione    tra    i    precari
dell'agricoltura e «il resto del precariato», senza farsi  carico  di
individuare posizioni comparabili e almeno tendenzialmente omogenee e
non spiega le ragioni sulla cui base ha ritenuto che la contribuzione
degli  operai  agricoli  non  sia  correlata  al  salario  reale  per
l'equiparazione, operata dalla norma censurata, tra operai agricoli a
tempo determinato e a tempo indeterminato.  Questo  profilo,  dunque,
per il suo carattere generico non puo' trovare ingresso.