IL TRIBUNALE Il giudice designato Dott. Anna Maria Pizzi, all'esito dell'udienza del 3 marzo 2011 ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa civile cautelare iscritta al n. 1307/2010 R.G. promossa da: N. I. nata in Pakistan il 18 ottobre 1978, C.F.: , residente a Desio via Firenze n. 14, rappresentata e difesa dagli avv.ti Alberto Guariso e Livio Neri) del Foro di Milano ed elettivamente domiciliata presso lo studio degli stessi in Milano Viale Regina Margherita 30 ricorrente; Contro: INPS in persona del Direttore Provinciale pro-tempore, con sede a Monza, via Morandi angolo via Correggio rappresentata e difesa dall'Avv. C. Tommaselli; Comune di Desio, in persona del sindaco pro-tempore, con sede a Desio, p.zza Giovanni Paolo H convenuto contumace resistenti; Sciogliendo al riserva assunta all'udienza del 3 marzo 2011 rileva che: con ricorso depositato in data 13 dicembre 2010 la sig.ra N. I. ha presentato domanda giudiziale per ottenere la condanna del Comune di Desio e dell'INPS al pagamento dell'assegno per nucleo familiare con tre o piu' figli minori, oltre interessi e rivalutazione, previa eventuale disapplicazione dell'art. 65 L. n. 448/1998 e successive modificazioni, nella parte in cui subordina la concessione del suddetto assegno al requisito della cittadinanza italiana o comunitaria o, in subordine, nella parte in cui esclude dalla concessione del beneficio gli stranieri titolari di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo. La ricorrente ha chiesto altresi' accertarsi e dichiararsi il carattere discriminatorio della condotta tenuta dall'INPS e dal Comune di Desio ed ha, inoltre, richiesto che venga ordinato agli Enti convenuti di dare adeguata pubblicita' alla sentenza, ciascuno a proprie spese, su quotidiani a diffusione nazionale e sui rispettivi siti Internet formulando le seguenti conclusioni "Previa eventuale disapplicazione dell'art. 65 L. 448/ 98 e successive modifiche, nella parte in cui subordina la concessione dell' "assegno per nuclei familiari con almeno tre figli" al requisito della cittadinanza italiana o comunitaria o, in subordine, nella parte in cui esclude dalla concessione del beneficio gli stranieri titolari di permesso di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo periodo (per brevita' "carta di soggiorno"); Previa eventuale rimessione alla Corte Costituzionale per il giudizio di costituzionalita' sull'art. 65 nelle parti sopra indicate, per contrasto con gli artt. 3 e 117, 1ª comma Cost. a) accertare e dichiarare il carattere discriminatorio della condotta tenuta dal INPS e dal Comune di Desio consistente nell'aver negato ai cittadini di paesi extra UE titolari di carta di soggiorno l'assegno di cui all'art. 65 cit.; b) ordinare al Comune di Desio e/ o all' INPS, nelle rispettive qualita' e competenze, di cessare la condotta discriminatoria di cui sopra e pertanto di pagare l'assegno in questione agli stranieri titolari di carta di soggiorno che ne faranno o ne abbiano fatta richiesta; c) condannare in ogni caso detti enti a pagare alla ricorrente l'assegno richiesto per l'intero anno 2010 e per gli anni seguenti, oltre agli interessi legali e alla rivalutazione monetaria dalla domanda al saldo. d) ordinare al Comune di Desio e l'INPS a dare adeguata pubblicita' alla decisione del giudice pubblicandola sui rispettivi siti e su un quotidiano a diffusione nazionale ovvero in altro modo che garantisca adeguata informazione agli interessati. Si costituivano i resistenti contestando la pretesa avversaria di cui chiedevano il rigetto. La pretesa fatta valere in giudizio presuppone la definizione dell'ambito di operativita' della disposizione di cui all'art. 65, commi 1 e 2 della L. n. 448/1998 che testualmente recita:, Comma 1. "Con effetto dal l° gennaio 1999, in favore dei nuclei familiari composti da cittadini italiani residenti, con tre o piu' figli tutti con eta' inferiore ai 18 anni, che risultino in possesso di risorse economiche non superiori al valore dell'indicatore della situazione economica (ISE), di cui al decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109, tabella 1, pari a Lire36 milioni annui con riferimento a nuclei familiari con cinque componenti, e' concesso un assegno sulla base di quanto indicato al comma 3. Per nuclei familiari con diversa composizione detto requisito economico e' riparametrato sulla base della scale di equivalenza prevista dal predetto decreto legislativo n. 109 del 1998, tenendo anche conto delle maggiorazioni ivi previste». Comma 2. "L'assegno di cui al comma 1 e' concesso dai comuni, che ne rendono nota la disponibilita' attraverso pubbliche, ed e' corrisposto a domanda. L'assegno medesimo e' erogato dall'INPS sulla base dei dati forniti dai comuni, secondo modalita' da definire nell'ambito dei decreti di cui al comma 6. A tal fine, sono trasferite dal bilancio dello Stato all'INPS le somme indicate al comma 5, con conguaglio, alla fine di ogni esercizio, sulla base di specifica rendicontazione"). In base al Decreto del Ministro per la Solidarieta' Sociale del 21 dicembre 2000, n. 452 (in Gazz. Uff., 6 aprile, n. 81) - Regolamento recante disposizioni in materia di assegni di maternita' e per il nucleo familiare - in attuazione dell'articolo 49 della legge 22 dicembre 1999, n. 488, e degli articoli 65 e 66 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, a prevedere, all'art. 16, che la domanda di assegno per il nucleo familiare sia presentata al comune di residenza da uno dei genitori, cittadino o comunitario residente nel territorio dello Stato, nella cui famiglia anagrafica si trovino almeno tre suoi figli minori sui quali egli esercita la potesta' genitoria. E' evidente quindi che stando alla lettera della legge il beneficio di cui all'art. 65 della L. 448/98 si applica, ai cittadini italiani o comunitari. Controversa in causa e' la possibilita' mediante il recepimento della normativa sovranazionale segnatamente le direttive citate dal ricorrente, di disapplicazione ovvero di una un'interpretazione "conforme al di la' del dato testuale, interpretazione che il ricorrente invoca anche, in ipotesi attraverso il rinvio al giudice delle leggi 1. l'interpretazione conforme cio' premesso si tratta quindi di stabilire se ed in quale misura alla luce della disciplina sovranazionale ed in particolare delle direttive comunitarie vi siano margini per un' interpretazione conforme "della normativa interna anche tenendo presente che , ed e' questione preliminare, occorre distinguere i diversi piani su cui l'interprete e' chiamato a muoversi. In primo luogo in linea generale occorre tenere presente che ben diverse sono le conseguenze nelle ipotesi di contrasto tra la normativa nazionale e la disciplina sovranazionale e divergenti sono le soluzioni del conflitto rapporto ad una norma convenzionale ovvero da una direttiva, distinzione che va chiarita preliminarmente per le implicazioni in termini procedurali ad essa sottese. Le soluzioni divergono in quanto nel primo caso la conseguenza e' che il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in particolare della CEDU, si traduce in una violazione dell'art. 117, primo comma, Cost." (sent. n. 311 del 2009) che ha colmato la lacuna prima esistente quanto alle norme che a livello costituzionale garantendo l'osservanza cogente degli obblighi internazionali pattizi. In definitiva, la clausola del necessario rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, dettata dall'art. 117, primo comma, Cost., attraverso un meccanismo di rinvio mobile del diritto interno alle norme internazionali pattizie di volta in volta rilevanti, impone il controllo di costituzionalita' qualora il giudice comune ritenga lo strumento dell'interpretazione insufficiente ad eliminare il contrasto. Qualora poi la Corte Costituzionale accerti la presenza del contrasto, dichiara l'illegittimita' costituzionale della disposizione interna per violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla invocata norma della convenzione internazionale pertinente (c.d. parametro interposto). Questo meccanismo ovviamente opera (ed in effetti e' stato applicato soprattutto) con riferimento ai trattati internazionali in materia di diritti fondamentali, vincolanti l'Italia, in primis la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), la qualificazione dei trattati internazionali come parametro interposto di costituzionalita' ex art. 117 Cost. che non si limita ovviamente alla CEDU,in quanto qualsiasi altro trattato internazionale, come successivamente chiarito dalla legge c.d. "la Loggia" (n. 131 del 2003 (1) assume il medesimo rango, ed in particolare, lo assumono i vari accordi conclusi in materia di lavoro nell'ambito dell'Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) La Corte ha anche precisato quali siano gli effetti di questa ricostruzione per quel che concerne il ruolo del giudice nazionale, nonche' le conseguenze di un eventuale contrasto tra le disposizioni pattizie e le regole interne, incluse quelle costituzionali: "al giudice nazionale, in quanto giudice comune della Convenzione, spetta il compito di applicare le relative norme, nell'interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo, alla quale questa competenza e' stata espressamente attribuita dagli Stati contraenti. Nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma interna e una norma della Convenzione europea, il giudice nazionale comune deve, pertanto, procedere ad una interpretazione della prima conforme a quella convenzionale, fino a dove cio' sia consentito dal testo delle disposizioni a confronto e avvalendosi di tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica. Beninteso, l'apprezzamento della giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente va operato in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza, secondo un criterio gia' adottato dal giudice comune e dalla Corte europea». (2) Nelle sentenze in cui ha affrontato e risolto la questione del rango del diritto pattizio nell'ordinamento italiano, la Corte costituzionale ha inteso anche fissare alcuni punti fermi in tema di differenziazione tra i "comuni" trattati internazionali e quelli dell'Unione europea. In particolare, a fronte della tendenza crescente, nella giurisprudenza interna, di risolvere i conflitti tra le leggi e la Convenzione europea utilizzando i rimedi propri del diritto dell'Unione europea (in primis, quello della disapplicazione della legge interna incompatibile) (3) , e' apparso necessario chiarire che la limitazione della sovranita' ex art. 11 Cost. concerne, allo stato del fenomeno di integrazione, esclusivamente l'ordinamento giuridico dell'Unione. La Corte sostiene infatti che con la ratifica dei Trattati comunitari l'Italia e' entrata a far parte di un ordinamento giuridico, quello dell'Unione europea, «autonomo, integrato e coordinato con quelli interni», con contestuale trasferimento, in base all'art. 11 Cost., dell'esercizio di poteri anche normativi nei settori definiti dai Trattati La Corte precisa che solo la CEDU produce norme dotate di una posizione di supremazia rispetto a quelle interne e di efficacia diretta negli ordinamenti nazionali (pur non potendosi escludere che anche altri accordi internazionali, possano a loro volta contenere norme espressamente definite come "direttamente efficaci" o self-executing! (4) Nelle medesime sentenze la Corte chiarisce inoltre che il richiamo alla CEDU effettuato dall'art. 6 TUE, al par. 3 (5) , non comporta in alcun modo l'incorporazione della Convenzione in quanto tale nell'ordinamento dell'Unione europea (interpretazione, questa, confermata nella sentenza n. 306 del 2008) in quanto "fonte di ispirazione" esterna all'ordinamento dell'Unione per la ricostruzione della portata e del contenuto di principi generali del diritto e dunque per garantire tutela, nel contesto e nell'ambito di applicazione di quell'ordinamento, ai diritti fondamentali dell'uomo. Dunque, neppure la violazione della CEDU, in ipotesi realizzata con una legge interna, consentirebbe al giudice di non dare applicazione a quest'ultima, dovendo invece il conflitto essere risolto con la rimessione della questione alla Corte costituzionale affinche' dichiari la illegittimita' costituzionale della legge per violazione dell'art. 117, 1° comma, Cost. Per riassumere, dalla giurisprudenza costituzionale possono ricavarsi conferme di un dato: per quel che concerne i rapporti con l'ordinamento dell'Unione, il nuovo art..117 Cost. non introduce novita' di rilievo rispetto al sistema di composizione delle antinomie indicato in maniera compiuta dalla Corte costituzionale. Nell'ordinanza n. 406 del 2005 la Corte sostiene, correttamente, che «in base alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, fondata sull'art. 11 della Costituzione, il giudice nazionale deve dare piena ed immediata attuazione alle norme comunitarie provviste di efficacia diretta e non applicare in tutto o in parte le norme interne con esse ritenute inconciliabili, ove occorra previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ai sensi dell'art. 234 del Trattato CE». Questa conclusione emerge con ancora maggiore nettezza nella sentenza n. 227 del 2010, della quale appare utile citare i passi piu' significativi ai fini di cui si discute: "Questa Corte, fin dalle prime occasioni nelle quali e' stata chiamata a definire il rapporto tra ordinamento nazionale e diritto dell'Unione europea, ne ha individuato il "sicuro fondamento" nell'art. 11 Cost. (in particolare, sentenze n. 232 del 1975 e n. 183 del 1973; ma gia' in precedenza, le sentenze n. 98 del 1965 e n. 14 del 1964). E' in forza di tale parametro, collocato non senza significato e conseguenze tra i principi fondamentali della Carta, che si' e' demandato alle Comunita' europee, oggi Unione europea, di esercitare in luogo degli Stati membri competenze normative in determinate materie, nei limiti del principio di attribuzione. E' sempre in forza dell'art. 11 Cost. che questa Corte ha riconosciuto il potere-dovere del giudice comune, e prima ancora dell'amministrazione, di dare immediata applicazione alle norme comunitarie provviste di effetto diretto in luogo di norme nazionali che siano con esse in contrasto insanabile in via interpretativa; ovvero di sollevare questione di legittimita' costituzionale per violazione di quel parametro costituzionale quando il contrasto fosse con norme comunitarie prive di effetto diretto (sentenze n. 284 del 2007 e n. 170 del 1984). L'art. 117, primo comma, Cost. ha dunque confermato espressamente, in parte, cio' che era stato gia' collegato all'art. 11 Cost., e cioe' l'obbligo del legislatore, statale e regionale, di rispettare i vincoli derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea. Il limite costituito dall'art. 117 primo comma che va sottolineato e' tuttavia rivolto in prima battuta al legislatore ossia all'organo che esercita la funzione legislativa., e' tuttavia solo uno degli elementi rilevanti del rapporto tra diritto interno e diritto dell'Unione europea, rapporto che, complessivamente considerato e come disegnato nel corso degli ultimi decenni, trova ancora "sicuro fondamento" nell'art. 11 Cost. Restano, infatti, ben fermi, anche successivamente alla riforma, oltre al vincolo in capo al legislatore e alla relativa responsabilita' internazionale dello Stato, tutte le conseguenze che derivano dalle limitazioni di sovranita' che solo l'art. 11 Cost. consente, sul piano sostanziale e sul piano processuale, per l'amministrazione e i giudici. In particolare, quanto ad eventuali contrasti con la Costituzione, resta ferma la garanzia che, diversamente dalle norme internazionali convenzionali (compresa la CEDU: sentenze n. 348 e n. 349 del 2007), l'esercizio dei poteri normativi delegati all'Unione europea trova un limite esclusivamente nei principi fondamentali dell'assetto costituzionale e nella maggior tutela dei diritti inalienabili della persona (sentenze n. 102 del 2008, n. 284 del 2007, n. 169 del 2006)". In altre parole i rapporti tra le fonti dell'Unione europea e le fonti interne sono da tempo ordinati dalla giurisprudenza costituzionale grazie ad una lettura dell'art. 11 Cost. capace di dare un significato concreto alle "aperture" sovranazionali che la norma acconsente al legislatore ordinario. Sin dalla sentenza n. 170 del 1984 la Corte ha adottato la teoria della separazione/coordinamento di due ordinamenti che rimangono formalmente distinti, giungendo, sia pure sulla base di diversi fondamenti teorici, alle medesime conclusioni offerte dalla giurisprudenza della Corte di giustizia in merito alla supremazia del diritto dell'Unione europea sul diritto interno ed al suo corollario della efficacia diretta delle fonti UE direttamente applicabili. E' dunque del tutto incontroverso che, in presenza di disposizioni interne irrimediabilmente incompatibili con fonti dell'Unione dotate di diretta efficacia, che si tratti di diritto non scritto (disposizioni del Trattato, regolamenti, Carta dei diritti fondamentali) o di fonti non scritte (principi generali del diritto), e' compito del giudice (nonche', a monte, dell'amministrazione), procedere alla disapplicazione delle prime al fine di dare applicazione all'unica norma che regola la fattispecie, quella dell'Unione Tuttavia altro e il caso di rapporto tra la disposizione interna e la norma dell'unione non derivante da obblighi internazionali ma da norme che non siano dotate di efficacia direttamente precettiva quali le direttive Il criterio dell'interpretazione conforme, pur portato agli estremi, non e' infatti capace di comporre tutte le possibili antinomie, restando aperta la questione dell'applicabilita' dell'ordinamento interno delle norme che non siano dotate di diretta efficacia per cui qualora sorga contrasto che non sia risolvibile in via interpretativa Rimangono irrisolti alcuni nodi ancora non completamente esplorati: tra questi, il ruolo delle fonti non dotate di efficacia diretta, e dunque soprattutto delle direttive, nelle relazioni tra i due ordinamenti e dunque nei giudizi di fronte alla Corte costituzionale. E' noto che la direttiva e' l'atto dell'Unione europea che, a dispetto di una "apparente inoffensivita'", presenta un'alta criticita' ponendo sia questioni di inquadramento tra le fonti comunitarie, che di applicazione negli ordinamenti interni. Dette difficolta' derivano, innanzitutto, dalla mancata corrispondenza tra il modello di "normazione indiretta" che risulta dalla lettura del testo dell'art. 288 TFUE, da un lato, l'utilizzo delle stesse e' stato frequentemente fatto dal legislatore dell'Unione europea, a dispetto della frequente tardivita' o inesattezza dell'attivita' di recepimento delle direttive da parte dei legislatori nazionali. Infatti le direttive, pur concepite originariamente e strutturate come una sorta di "legge-quadro", in mancanza di un compiuto intervento di dettaglio da parte degli Stati membri, contengono in concreto una disciplina (quantomeno parzialmente) dettagliata di determinate materie. E' il caso di ricordare che nella giurisprudenza della Corte di giustizia la prassi delle direttive dettagliate, contestata in dottrina, e' stata ritenuta conforme alle regole del Trattato, ed in particolare alla nozione stessa di direttiva comunitaria come atto di normazione indiretta (6) Tale prassi e' dovuta all'esigenza di evitare che l'azione di armonizzazione delle discipline nazionali, sede elettiva per il ricorso alle direttive da parte del legislatore dell'Unione europea, possa essere resa inefficace a causa dell'eccessiva latitudine dell'intervento attuativo riconosciuto agli Stati membri: di conseguenza, pur se destinate formalmente agli Stati membri, le direttive includono disposizioni che nella sostanza disciplinano, anche in maniera esclusiva, rapporti interindividuali. Se il testo del Trattato non attribuisce alle direttive la qualifica di atti "direttamente applicabili", riservata dall'art. 288 TFUE ai regolamenti, e' un dato - consolidato che le prime siano in grado di produrre "effetti diretti", potendo essere invocate in giudizio dai privati "per opporsi a qualsiasi disposizione di diritto interno non conforme alla direttiva ovvero in quanto sono atte a definire diritti che i singoli possono far valere nei confronti di uno Stato" (7) (c.d. effetti verticali). Cio' avviene, come e' noto, nel rispetto di due condizioni: e' necessario, da un lato, che le disposizioni contenute in una direttiva risultino, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise; dall'altro, che lo Stato membro in questione non abbia adottato, entro il termine indicato dalla direttiva stessa, le necessarie disposizioni di attuazione, ovvero che detta attivita' si sia svolta in maniera non corretta (8) Nella sentenza Inter-Environnement Wallonie (9) , la Corte ha aggiunto che dal combinato disposto degli artt. 10, secondo comma, del Trattato CE (oggi art. 4, comma 3, TUE), che codifica il principio di leale collaborazione tra Stati membri e Comunita', e 249, terzo comma, CE (oggi art. 288 TFUE), che attribuisce forza vincolante alle direttive, risulta che, anche in pendenza del termine di trasposizione nel diritto nazionale, lo Stato membro destinatario deve astenersi dall'adottare disposizioni che possano compromettere gravemente il risultato prescritto da una direttiva. Le disposizioni di una direttiva hanno dunque, nella ricostruzione operata dalla Corte di giustizia, la capacita' di operare come precetto normativo che, in mancanza di (corrette) norme interne di attuazione, si pone come regola della singola fattispecie. La circostanza che detto rimedio sia inteso come "reazione» ad un inadempimento da parte dello Stato membro non esclude che la direttiva operi come fonte autonoma di diritto la quale - situandosi in un livello, nella gerarchia delle fonti, superiore alle norme interne - prevale, all'occorrenza, su norme interne incompatibili, anche di rango legislativo. Cio' avviene, e' il caso di precisarlo, anche qualora le direttive siano invocate in giudizio in rapporti di contenuto privatistico, ma nei confronti di un ente pur indirettamente riconducibile alla definizione di "Stato" accolta in questo contesto dalla Corte di giustizia (ad esempio, un'impresa pubblica (10) ). La Corte di giustizia ha invece ripetutamente escluso che le direttive siano capaci di produrre effetti diretti "orizzontali" (nei rapporti tra privati): il contenuto precettivo di una direttiva non puo' "di per se'" (cioe' autonomamente, in assenza della mediazione da parte di disposizioni interne di attuazione) creare obblighi a carico di un singolo e dunque non puo' essere fatta valere in quanto tale nei confronti dello stesso. (11) Nella ricostruzione della Corte di giustizia la direttiva e' un atto dell'Unione europea che vincola solo lo Stato cui e' diretta : non puo' quindi imporre obblighi a carico dei singoli che non sono tenuti a conoscere una norma UE che subordina la propria efficacia al recepimento da parte dello Stato ne' precedere ne' tantomeno disporre sanzioni a carico dei cittadini degli stati membri Di conseguenza, la direttiva non puo' essere invocata. dinanzi al giudice nazionale da soggetti privati contro altri soggetti privati ne' dal potere pubblico nei confronti del privato (c.d. "effetti verticali inversi"). La medesima ratio comporta che a un singolo non possa essere imposto alcun obbligo da parte dello Stato in base ad una direttiva non recepita (c.d. effetto verticale "inverso"), soprattutto se detto obbligo e' corredato da sanzioni penali. V. la sentenza 26 settembre 1996, causa C-168/95, Arcaro, in Racc. , 1996, p. I-4705. per un'applicazione poco cristallina di questo principio in una fattispecie di successione di norme penali nel tempo v. la sentenza 3 maggio 2005, cause riunite C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Berlusconi e a., in Racc. , 2005, p. I-3565 Una diversa soluzione "significherebbe riconoscere in capo alla Comunita' il potere di emanare norme che facciano sorgere con effetto immediato obblighi a carico (dei singoli), mentre tale competenza le spetta solo laddove le sia attribuito il potere di adottare dei regolamenti". (12) La Corte ha esteso questo principio anche ai casi di rapporti c.d."triangolari", in cui l'invocazione di una direttiva nei confronti dello Stato da parte di un privato comporta l'imposizione di obblighi a carico di un terzo, anch'esso privato affermando che : "il principio della certezza del diritto osta a che le direttive possano creare obblighi a carico dei singoli. Nei confronti di questi ultimi, le disposizioni di una direttiva possono generare solo diritti. Di conseguenza, un singolo non puo' far valere una direttiva nei confronti di uno Stato membro, qualora si tratti di un obbligo pubblico direttamente connesso all'attuazione di un altro obbligo che incombe ad un terzo, ai sensi di tale direttiva. Trattandosi di un principio di carattere generale che consegue alla natura stessa della fonte UE in questione, ne risulta che l'esclusione dell'effetto diretto orizzontale prescinde dal carattere di completezza o meno della disciplina sostanziale della direttiva: come precisato nella sentenza Pfeiffer, "anche una disposizione chiara, precisa ed incondizionata di una direttiva volta a conferire diritti o a imporre obblighi ai privati non puo' essere applicata come tale nell'ambito di una controversia che ha luogo esclusivamente tra privati". Non interessa, in questa sede, riproporre una critica sulla correttezza di una tale soluzione: e' in ogni caso incontestabile che la distinzione, operata dalla Corte, tra effetti "verticali" (ammessi) e "orizzontali" (negati), comporta inevitabilmente che una norma inclusa in una direttiva possa operare negli ordinamenti nazionali solo in maniera parziale, "intermittente", a seconda del soggetto nei confronti del quale e' invocata, nonostante l'atto in questione non operi, a monte, alcuna distinzione, (come e' il caso della direttiva 2000/78/CE in materia di tutela della parita' di trattamento per quanto concerne le condizioni di lavoro, si preoccupi di precisare, all'art. 3, n. 1, che il suo campo di applicazione riguarda "tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato). Un siffatto quadro di riferimento provoca disfunzioni ed anomalie negli ordinamenti interni, ed in ultima analisi un'applicazione incompleta del diritto dell'Unione europea negli Stati membri. Va da se' che margini di indeterminatezza quali quelli sopra ricordati comportano contraddizioni che, a volte, possono coincidere con vere e proprie discriminazioni nel godimento di determinati diritti Cio' premesso, va immediatamente aggiunto che la distinzione, operata dalla Corte, tra effetti diretti orizzontali e verticali non esclude che le direttive, in guanto fonte "obbligatoria" del diritto UE ai sensi dell'art. 288 TFUE, possano comunque incidere nel sistema "integrato" delle fonti in quanto in ogni caso contengono norme che godono di una posizione di "primaute'" rispetto a quelle nazionali. Si tratta, allora, sulla scorta delle giurisprudenza della Corte di giustizia, di individuare quali siano tali effetti. Viene in rilievo innanzi tutto il rimedio della c.d. "interpretazione conforme", la enunciazione risulta da una giurisprudenza costante fin dalla sentenza Von Colson e Kamann (13) , ma che si rinviene in forma piu' articolata nella sentenza Pfeiffer secondo cui "l'obbligo degli Stati membri, derivante da una direttiva, di conseguire il risultato da questa contemplato come pure il dovere loro imposto dall'art. 10 CE [oggi art. 4, terzo comma TUE] di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l'adempimento di tale obbligo valgono per tutti gli organi degli Stati membri, ivi compresi, nell'ambito di loro competenza, quelli giurisdizionali. Infatti, spetta in particolare ai giudici nazionali assicurare ai singoli la tutela giurisdizionale derivante dalle norme del diritto dell'Unione europea e garantirne la piena efficacia». Secondo la Corte, l'esigenza di un'interpretazione conforme del diritto nazionale e' inerente al sistema del Trattato, in quanto permette al giudice nazionale di assicurare, nel contesto delle sue competenze, la piena efficacia delle norme comunitarie quando risolve la controversia ad esso sottoposta. La Corte richiede dunque al giudice di' adottare la presunzione per cui lo Stato, essendosi avvalso del margine di discrezionalita' di cui gode in virtu' dell'art. 288 TFUE, abbia avuto l'intenzione di adempiere pienamente gli obblighi derivanti dalla direttiva considerata. Cosi', nell'applicare il diritto interno (non solo le disposizioni di una normativa appositamente adottata al fine di attuare quanto prescritto da una direttiva, ma "tutto il diritto nazionale") il giudice nazionale deve interpretarne le regole per quanto possibile alla luce del testo e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest'ultima e conformarsi pertanto all'art. 288, terzo comma, TFUE" (14) Un tale vincolo interpretativo tuttavia si impone al giudice nazionale solo a partire dal momento in cui spira il termine per la trasposizione della direttiva nell'ordinamento nazionale (15) e sempre che un'inerzia sia addebitabile al legislatore. Tuttavia, dalla recente sentenza Adelener risulta che a partire dalla data in cui la direttiva e' entrata in vigore nei confronti degli Stati (vale a dire, nella maggior parte dei casi, dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale UE, salva ovviamente la vacatio legis), i giudici degli Stati membri "devono astenersi Per quanto possibile dall'interpretare il diritto interno in un modo che rischierebbe di compromettere gravemente, dopo la scadenza del termine di attuazione, la realizzazione del risultato perseguito da questa direttiva. In siffatto contesto si pone come , residuale, il rimedio costituito dall'azione diretta a far valere la responsabilita' patrimoniale dello Stato inadempiente, subordinato alle condizioni individuate dalla stessa corte di giustizia ( sul punto valgono la pronuncia Francovich (16) e anche la sentenza Carbonari, avente ad oggetto la retribuzione dei medici specializzandi). Affinche', dunque, i singoli possano avanzare pretese risarcitone nei confronti di uno Stato membro, per il caso di mancata o tardiva e/o inesatta trasposizione di una direttiva, occorre: a) che la direttiva comporti l'attribuzione di' diritti ai privati e che il contenuto di simili diritti possa essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva stessa; b) che si sia realizzata una violazione grave e manifesta degli obblighi comunitari da parte dello Stato; c) che sussista un nesso di causalita' diretto tra l'illecito posto in essere nei confronti del diritto dell'Unione ed il danno lamentato dai privati; Siffatto condizione sono non solo necessarie, ma anche sufficienti, sicche' sarebbe illegittima ogni ulteriore limitazione all'azione posta dagli Stati, al fine di rendere piu' difficile l'esercizio delle azioni di responsabilita' patrimoniale per violazione del diritto dell'Unione. Va pure aggiunto, pero', che sussistono ipotesi che, pur in presenza di un inadempimento del legislatore nazionale rispetto agli obblighi derivanti da una direttiva, consentono allo Stato membro di sottrarsi alla responsabilita' patrimoniale. A tal proposito, basti osservare che la responsabilita' dello Stato nei confronti dei singoli viene meno quando, nonostante l'inadempimento del legislatore nazionale, i giudici interni riescano, in sede d'interpretazione, ad adeguare il diritto interno allo scopo ed all'oggetto della direttiva, considerata l'unitarieta' dello Stato sotto il profilo del diritto internazionale La Corte di giustizia ha quindi precisato che «l'applicazione retroattiva e completa delle misure di attuazione di una direttiva permette di rimediare alle conseguenze pregiudizievoli della tardiva attuazione di tale direttiva, a condizione che la direttiva stessa sia stata regolarmente recepita». (17) Com'e' evidente di per se' solo rimedio risarcitorio puo' risultare non soddisfacente, poiche' altro e' garantire al singolo la fruizione di un diritto attribuitogli dalla direttiva, altro e' accordargli una somma per i danni subiti in conseguenza del suo mancato recepimento, dato che questa soluzione, nella maggior parte dei casi, non sara' comunque in grado di assicurargli il pieno godimento del diritto o di reintegrarlo nella posizione giuridica soggettiva che poteva vantare in virtu' della direttiva. Cio' vale a maggior ragione in materia di rapporti di lavoro, ove il risarcimento del danno subito configura una misura accessoria, e non sostitutiva, della riparazione in via principale (ad esempio, la reintegrazione nel posto di lavoro); in altri termini, il principio della responsabilita' dello Stato per violazione del diritto dell'Unione non serve certo ad eliminare i problemi legati alla non uniforme applicazione della direttiva nell'intero territorio dell'Unione, ne' quelli conseguenti all'applicazione discriminatoria (solo nei rapporti verticali e non in quelli orizzontali) di una normativa che invece richiede un'applicazione generale. E' noto a questo giudice il recente dibattito seguito alla pronuncia della Corte di Giustizia (Grande Sezione) del 19 gennaio 2010 Seda Kücükdeveci che tra l'altro ha stabilito che "E' compito del giudice nazionale, investito di una controversia tra privati, garantire il rispetto del principio di non discriminazione in base all'eta', quale espresso concretamente dalla direttiva 2000/ 78, disapplicando, se necessario, qualsiasi disposizione contraria della normativa nazionale, indipendentemente dall'esercizio della facolta' di cui dispone, nei casi previsti dall'art. 267, secondo comma, TFUE, di sottoporre alla Corte una questione pregiudiziale sull'interpretazione di tale principio. Detta ultima pronuncia va letta alla luce della giurisprudenza della Corte Costituzionale che fornisce un quadro di riferimento non del tutto omogeneo nelle conclusioni alle affermazioni che si ricavano dalla giurisprudenza della Corte di giustizia sopra ricordate Infatti nelle pronunce del giudice delle leggi sin dalla sentenza n. 170 del 1984 si ribadisce come il rimedio della "non applicazione" delle leggi interne quale strumento di soluzione delle antinomie puo' essere utilizzato soltanto qualora le norme dell'Unione siano dotate dei caratteri propri della "efficacia diretta". In caso contrario, la norma interna deve essere sottoposta ad un giudizio di costituzionalita'." Piu' in generale tuttavia non puo' essere negato che la questione anche alla luce della giurisprudenza della Corte Costituzionale resta aperta e presenta margini di opinabilita' provocando non poche incertezze sul fronte dell'applicazione del diritto dell'Unione europea dinanzi al giudice nazionale ed all'amministrazione. In ultima analisi, le fonti inidonee ad attribuire direttamente posizioni giuridiche invocabili in giudizio, possono essere divise in due categorie: in una prima ipotesi, vengono in rilievo quelle disposizioni che, pur contenute in una fonte vincolante (ad esempio, il TFUE, ma anche un regolamento o una direttiva), non sono dotate dei requisiti (chiarezza, precisione ed assenza di condizioni) necessari per l'attribuzione ai soggetti interessati di un diritto azionabile in giudizio (18) ; in una seconda ipotesi, la norma UE contiene si' precetti chiari, precisi e incondizionati, ma la stessa si rinviene in un tipo di atto che, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia, non puo' di per se' e in assenza di una normativa nazionale di recepimento essere invocato in giudizio in maniera da procurare una posizione di svantaggio in capo ad un soggetto privato. Qualora invece la norma UE in questione non sia dotata di efficacia diretta, trattandosi comunque di una situazione normativa non conforme agli obblighi dell'Unione e dunque riconducibile nell'ambito di applicazione degli artt. 11 e 117 Cost., l'antinomia deve comunque essere risolta e non puo' che trovare compimento secondo le regole generali del nostro ordinamento, vale a dire con il necessario intervento della Corte costituzionale. Il giudice comune e' tenuto quindi a sollevare la questione di legittimita' costituzionale della norma interna per violazione degli artt. 11 e 117, in riferimento alla norma UE che opera, dunque, da parametro interposto di costituzionalita'. L'alternativa a questa ricostruzione sarebbe quella di tollerare nell'ordinamento interno, per tutte le fattispecie "orizzontali" o per i casi di disposizioni "incomplete" ma comunque dotate di un sufficiente grado di precettivita' per fungere da parametro per il comportamento del legislatore, la vigenza di norme interne incompatibili con una direttiva, e continuare ad applicarle in attesa di una loro espressa o implicita abrogazione: appare evidente che questa soluzione e' tutt'altro che soddisfacente, in quanto l'intervento statale potrebbe tardare o non arrivare mai, e nel frattempo il divario tra la disciplina interna e quella dell'Unione rimarrebbe attuale e continuerebbe a produrre sia gli effetti distorsivi sul corretto funzionamento del mercato interno, sia le discriminazioni, di certo non indifferenti dal punto di vista costituzionale, tra soggetti tutelati (ad esempio lavoratori nel settore pubblico) e non tutelati (lavoratori nel settore privato) conseguenti alla distinzione tra effetti diretti verticali ed orizzontali. L'eventuale accesso del singolo, pregiudicato dalla impossibilita' di invocare la direttiva nella sua portata sostanziale, al rimedio risarcitorio e' questione che concerne profili diversi dal rapporto tra le fonti e che dunque non risolve i problemi di disarmonia comunitaria provocati dalla vigenza della norma incompatibile. Dunque, spetta al giudice comune che indichi una norma UE a presupposto della censura di costituzionalita' prospettare alla Corte, nella sua ordinanza di rinvio, quella «interpretazione certa ed affidabile che assicuri l'effettiva (e non gia' ipotetica o comunque precaria) rilevanza e non manifesta infondatezza del dubbio di legittimita' costituzionale» (19) . Interpretazione che puo' derivare da una precedente pronuncia della Corte di giustizia ovvero, in mancanza di precedenti, da una sentenza pregiudiziale appositamente richiesta prima di sollevare la questione di legittimita' costituzionale. Si ritiene di poter affermare che ,alla stregua del quadro sopra descritto, fermi restando i margini di incertezza di qualsivoglia soluzione che si ritenga di adottare , il giudice che ritenga di non poter applicare una norma interna incompatibile con la direttiva , non potendo procedere alla disapplicazione della norma interna contrastante, rimedio consentito esclusivamente laddove il conflitto coinvolga una norma da dell'Unione europea, dotata di efficacia diretta non puo' che rimettere al giudice delle leggi la soluzione della questione Il ricorrente richiama a sostegno dei propri assunti i recenti interventi della Corte Costituzionale che nella pronuncia . 187/2010. dichiarando l'incostituzionalita' della norma che riservava l'istituto dell'assegno di invalidita' ai soli titolari di carta di soggiorno pur affermando una linea tendenziale l'estensione alle prestazioni assistenziali il principio gia' affermato nelle sentenze 306/08 e 11/09 di parita' di trattamento La corte nel suo intervenuto ha tuttavia ha tenuto ferma la legittimita' di limiti di applicabilita' della disciplina chiarendo che "soltanto considerazioni molto forti potranno indurre a far ritenere compatibile con la convenzione una differenza di trattamento fondata sulla nazionalita'" e ha. Pertanto si ritiene che soltanto un intervento del Giudice delle leggi possa risolvere la questione interpretativa alla luce del quadro sopra ricordato definendo i limiti di applicabilita' della disciplina. 2. la questione di legittimita' costituzionale Facendo applicazione delle linee guida sopra riportate va sottolineato che nel caso di specie e' vero che si controverte di rapporti che possono in linea di principio essere inquadrati come verticali laddove si individua nella parte resistente ente pubblico il destinatario della pretesa dal punto di vista sostanziale E vero tuttavia che il legislatore e' intervenuto nella disciplinato la materia sicche' non possono essere individuati vuoti normativi colmabile attraverso il ricorso alla norma di rango superiore Infatti la direttiva 2000/43/CE del Consiglio del 29 giugno 2000, che "attua il principio di parita' di trattamento fra le persone indipendentemente della razza e dell'origine etnica", e' stata attuata con Decreto legislativo n. 251/2003. Il legislatore nazionale e' intervenuto con il Decreto Legislativo n. 3/2007, di attuazione della suddetta direttiva, dispone, poi, all'art. 9, comma 12, lett. c), che "il titolare del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo puo' usufruire delle prestazioni di assistenza sociale, di quelle relative all'accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico, compreso l'accesso alla procedura per l'ottenimento di alloggi di edilizia residenziale pubblica, salvo che sia diversamente disposto e sempre che sia dimostrata l'effettiva residenza dello straniero sul territorio nazionale". Inoltre la questione in esame va inquadrata alla luce della Direttiva del Consiglio Europeo n. 109 del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, che stabilisce al punto 13, come "con riferimento all'assistenza sociale, la possibilita' di limitare le prestazioni per soggiornanti di lungo periodo a quelle essenziali deve intendersi nel senso che queste ultime comprendono almeno un sostegno di reddito minimo, 1'assistenza in caso di malattia, di gravidanza, l'assistenza parentale e l'assistenza a lungo termine. Le modalita' di concessione di queste prestazioni dovrebbero essere determinate dalla legislazione nazionale". Pertanto allo stato per le ragioni sopra ricordate non vi sono vuoti normativi che giustifichino il ruolo di supplenza invocato dal ricorrente E' appena il caso di rilevare come, nella fattispecie, si venga a porre la questione di un diverso trattamento ma non in ragione di diversita' di razza o di origine etnica, bensi' di uno status giuridico determinato da norme generali di ordine pubblico , alla stregua delle quali si pone anche una questione di gerarchia delle fonti. Va ribadito che nel caso di specie non sono configurabili ne' una condotta ne' tantomeno e' ravvisabile un atto discriminatorio in senso stretto sicche' la questione non si pone in termini di rimozione degli effetti di una condotta discriminatoria ma di mera interpretazione di norme. Detta interpretazione non puo' che essere rimessa al Giudice delle leggi. Va ricordato in premessa l'ambito di operativita' della disciplina di cui 286/98 (T.U. Immigrazione) 286/98 che stabilisce una clausola generale di non discriminazione laddove all'art 43 definisce il concetto stesso di discriminazione (20) all'art. 1 laddove stabilisce che . Ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza o l'origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parita', dei diritti umani e delle liberta' fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica. 2 . In ogni caso compie un atto di discriminazione: a) il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessita' che nell'esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalita', lo discriminino ingiustamente; b) chiunque imponga condizioni piu' svantaggiose o si rifiuti di fornire beni o servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalita'; c) chiunque illegittimamente imponga condizioni piu' svantaggiose o si rifiuti di fornire l'accesso all'occupazione, all'alloggio, all'istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio- assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalita'; d) chiunque impedisca, mediante azioni od omissioni, l'esercizio di un'attivita' economica legittimamente intrapresa da uno straniero regolarmente soggiornante in Italia, soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, confessione religiosa, etnia o nazionalita'; e) il datore di lavoro o i suoi preposti i quali, ai sensi dell'articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificata e integrata dalla legge 9 dicembre 1977, n. 903, e dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, compiano qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza. Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente all'adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell'attivita' lavorativa. Ai sensi dell'articolo 41 inoltre gli stranieri titolari della carta di soggiorno oltre di permesso di soggiorno di durata non inferiore a un anno nonche' i minori scritti nella loro carta di soggiorno nel loro permesso di soggiorno sono equiparati ai cittadini italiani ai fini della fruizione delle provvidenze delle prestazioni anche economiche di assistenza sociale L'art. 44, prevede la cd. azione di discriminazione statuendo che: "qualora il comportamento di un privato o di una pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, il giudice puo', su istanza di parte, ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole ed adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione". La citata Direttiva del Consiglio Europeo n. 109 del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, stabilisce inoltre , ai sensi dell'art. 2 che , sussiste una discriminazione diretta quando, a causa della sua razza od origine etnica, una persona e' trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in situazione analoga mentre sussiste una discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone, a meno che tale disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalita' legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati o necessari Il d.lgs. 215/2003, interviene sua volta incide.ndo sulla nozione di discriminazione nel suo articolo 2, a sua volta prevedendo che: "per principio di parita' di trattamento si intende l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell'origine etnica. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, cosi' come di seguito definite ...b) discriminazione indiretta: quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone". Ex art. 3, "il principio di parita' di' trattamento si applica sia nel settore pubblico che privato, ed e' suscettibile di tutela giurisdizionale, secondo le forme previste all'art. 4, con specifico riferimento alle seguenti aree: (...) prestazioni sociali». Il legislatore indica un criterio di selezione piu' restrittivo non ricomprendendo la discriminazione per nazionalita', criterio selettivo ribadito all'art. 3 comma 2 secondo cui: "Il presente decreto legislativo non riguarda le differenze di trattamento basate sulla nazionalita' e non pregiudica le disposizioni nazionali e le condizioni relative all'ingresso, al soggiorno, all'accesso all'occupazione, all'assistenza e alla previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato, ne' qualsiasi trattamento, adottato in base alla legge, derivante dalla condizione giuridica dei predetti soggetti. Detta scelta presenta profili di criticita' in rapporto al paragrafo 25 della direttiva 2000/43/CE da cui il decreto legislativo 215 /03 cit non puo' prescindere costituendone attuazione, che contiene una clausola di non regresso finalizzata espressamente ad impedire una modificazione peggiorativa della disciplina precedentemente in vigore stabilendo che "l'attuazione della presente normativa non puo' servire di giustificazione per un regresso rispetto alla situazione preesistente in ciascuno Stato membro". Del resto lo stesso articolo 3 pone ulteriori problemi di coordinamento in quanto, da un lato al comma 1 elenca gli ambiti nei quali si applica il principio di non discriminazione nell'accezione piu' ampia comprensiva della discriminazione per nazionalita' mentre ,per contro , al comma 2 stabilisce "il presente decreto legislativo non riguarda le differenze di trattamento basate sulla nazionalita' e le condizioni relative all'ingresso soggiorno all'accesso all'occupazione all'assistenza e alla previdenza dei cittadini dei paesi terzi degli apolidi nel territorio dello Stato ne' qualsiasi trattamento adottato in base alla legge derivante dalla condizione giuridica dei predetti soggetti e non pregiudica le disposizioni nazionali". E' evidente pertanto che la predetta normativa presta il fianco ad una interpretazione restrittiva della nozione di discriminazione con tutele le implicazioni che cio' comporta nel senso di una compressione del livello di tutela rispetto al testo unico immigrazione nonostante la normativa di recepimento della direttiva europee nel fissare le linee generali non avesse affatto stabilito alcuna finalita' ne' modificativa ne' tantomeno abrogativa. Le apparenti antinomie si inquadrano alle luce del riconoscimento, della legittimita' di limiti la cui determinazione e' rimessa al legislatore nazionale talvolta a fronte di esigenze di bilancio e di spesa. Da un lato la necessita' di ridurre le spese per ragioni di contenimento del deficit pubblico non legittima in alcun modo la limitazione alla fruizione di diritti fondamentali collegati alla cittadinanza europea ,in quanto qualora liberta' di circolazione e di soggiorno ed i principi di parita' di trattamento e di non - discriminazione dovessero essere condizionati dalle finanze degli Stati membri, esse finirebbero con il perdere di significato. E' altrettanto vero tuttavia che la Corte di Giustizia Europea, peraltro occupandosi di discriminazione di genere, ha affermato: "D'altronde, ammettere che considerazioni di bilancio possano giustificare una differenza di trattamento ... la quale, in loro mancanza, costituirebbe una discriminazione indiretta ... comporterebbe che l'applicazione e la portata di una norma tanto fondamentale del diritto comunitario... possano variare, nel tempo e nello spazio, a seconda dello stato delle finanze pubbliche degli Stati membri" (CGE, Helga Kutz-Bauer c. F.H. Hamburg, causa C- 187/ 00, sentenza 20.03.2003). Cio' premesso soltanto il giudice delle leggi puo' stabilire se le disposizioni in contestazione rispettino il requisito della proporzionalita' necessita' e adeguatezza in base a considerazioni oggettive, e se un criterio selettivo che richieda un collegamento con il territorio sia o meno conforme all'articolo 3 Cost. appare conforme ai principi citati. Peraltro ,parte ricorrente ha domandato, in via subordinata, sotto il profilo del fumus boni juris, che, ritenuta non manifestamente infondata la questione di costituzionalita' delle norme citate, per violazione degli artt. 3, e 117 della Costituzione, il procedimento in esame sia sospeso e gli atti siano rimessi alla Corte Costituzionale ai sensi dell'art. 23 della L. 87/1953. Detta domanda e' ammissibile anche in questa sede cautelare posto che il Giudice della cautela puo' ritenersi Giudice a quo svolgendosi il procedimento cautelare in contraddittorio pieno tra le parti, sussistendo contrapposizione di interessi (che nel caso di specie e' ravvisabile, per i ricorrenti, nell'interesse alla prestazione medica richiesta, per la resistente nell'interesse ad operare secondo le tecniche mediche piu' adeguate senza incorrere nelle sanzioni previste per la violazione della normativa) che solo l'intervento del Giudice, seppure in via cautelare, puo' risolvere. Anche il Giudice della cautela, inoltre, nel caso in cui ravvisi il contrasto della normativa da applicare con i principi della Costituzione e non ritenga che detto contrasto sia superabile con una lettura della stessa costituzionalmente orientata, e' tenuto a richiedere il controllo del Giudice Costituzionale (cfr. Corte Cost. n. 457/93 e n. 186/76) e cio' al fine di evitare che, riservando il rilievo di incostituzionalita' al giudizio di merito, si finisca per negare giustizia a chi versa in particolari condizioni, che impongono una decisione d'urgenza. Appare quindi rilevante non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 65 L. 448/98 , nella parte in cui subordina la concessione dell' "assegno per nuclei familiari con almeno tre figli» al requisito della cittadinanza italiana o comunitaria o, in subordine, nella parte in cui esclude dalla concessione del beneficio gli stranieri titolari di permesso di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo periodo (per brevita' "carta di soggiorno") sia conforme al principio di uguaglianza La affermata conformita' della disciplina al principio di ragionevolezza presenta punti di rilevanza sotto altro profilo vale a dire per la fiscalita' generale, sulla quale sostanzialmente si regge il bilancio dell'Istituto, e pone quindi altra questione ossia quella di tenuta rispetto al principio di cui all'art 3 Cost ,alla luce dei continui interventi da parte del legislatore volti sia al contenimento della spesa pubblica ,anche nel settore previdenziale , che ad una razionalizzazione delle risorse a fini redistributivi (cfr da ultimo Decreto Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 195 - ) La stessa Corte Costituzionale ha piu' volte riconosciuto che ", in un contesto di progressivo deterioramento della finanza pubblica, si pone la necessita' di una piu' adeguata ponderazione dell'interesse collettivo al contenimento della spesa pubblica e che" detto interesse non si pone in contrasto con Cost. che di per se' non esclude la possibilita'; di un intervento legislativo che, per una inderogabile esigenza di contenimento della spesa pubblica, riduca in maniera definitiva un trattamento pensionistico in precedenza spettante v., "ex plurimis", S. nn. 220/1988, 822/1988, 119/1991 e 240/1994. SENT. num. 0361 del 1996. Posto che soltanto la Corte Costituzionale , come in altre occasioni ha fatto (Sentenza n. 0316 del 2010 (G.U. 046 del 17/11/2010 ) puo' stabilire il punto di bilanciamento tra principi di uguale rango costituzionale, ossia quello di cui all' art. 38 Cost. e quello della solidarieta' sociale ex art 3 Cost sotteso alle esigenze di contenimento della spesa pubblica e di tenuta finanziaria del sistema previdenziale il presente procedimento va quindi sospeso. (1) Art. 1.(Attuazione dell'articolo 117, primo e terzo comma, della Costituzione, in materia di legislazione regionale): 1. Costituiscono vincoli alla potesta' legislativa dello Stato e delle Regioni, ai sensi dell'articolo 117, primo comma, della Costituzione, quelli derivanti dalle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, di cui all'articolo 10 della Costituzione, da accordi di reciproca limitazione della sovranita', di cui all'articolo 11 della Costituzione, dall'ordinamento dell'Unione europea e dai trattati internazionali. (2) Sentenza n. 348 del 2007, punto 3.3: «Con l'adesione ai Trattati comunitari, l'Italia e' entrata a far parte di un «ordinamento» piu' ampio, di natura sopranazionale, cedendo parte della sua sovranita', anche in riferimento al potere legislativo, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi, con il solo limite dell'intangibilita' dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. La Convenzione EDU, invece, non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa e' configurabile come un trattato internazionale multilaterale - pur con le caratteristiche peculiari che saranno esaminate piu' avanti - da cui derivano «obblighi» per gli Stati contraenti, ma non l'incorporazione dell'ordinamento giuridico italiano in un sistema piu' vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, omisso medio, per tutte le autorita' interne degli Stati membri». (3) V. ad esempio Cass., sez. I, sentenza n. 6672 del 1998; Cass., sezioni unite, sentenza n. 28507 del 2005; Corte app. di Roma, sez. lav., ord. 11 aprile 2002. V. (4) cfr. per uno svolgimento di questo principio cfr. la sentenza n. 39 del 2008. (5) che cita: «I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali.». (6) cfr. la sentenza del 223 novembre 1977, causa 38/77, Enka BV/Inspectur der invoerrechten en accijnzen, in racc., 1977, p. 2203 (7) Sentenza 19 gennaio 1982, causa 8/81, Becker, in Racc. , 1982, p. 53 ss. par. 25. (8) Cfr. per tutte la sentenza Pfeiffer (del 5 ottobre 2004, cause riunite da C-397/01 a C-403/01, in Racc. , 2004, p. 1-8835), in cui si legge che «risulta da una costante giurisprudenza della Corte che, in tutti i casi in cui le disposizioni di una direttiva appaiono, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, i singoli possono farle valere dinanzi ai giudici nazionali nei confronti dello Stato, sia che questo non abbia recepito tempestivamente la direttiva sia che l'abbia recepita in modo non corretto». V. anche le sentenze 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich, in Racc. , 1991, p. 1-5357, punto 11, e 11 luglio 2002, causa C-62/00, Marks Spencer, ivi, 2002, p. 1-6325, punto 25) (9) Sentenza 18 dicembre 1997, causa C-129/96, in Racc. , 1997, p. 1-7411, punto 45. Cfr, anche la sentenza 8 maggio 2003, causa C-14/02, ATRAL, ivi, 2003, p.1-4431, punto 58. (10) V. ad es. la sentenza del 12 luglio 1990, causa -188 / 89 , Foster c. British Gas, in Racc. , 1990, p.1-3313 ss. (11) Sentenze 26 febbraio 1986; causa 152/84, Warshall, in Racc. , 1986, p. 723, punto 48; 14 luglio 1994, causa C-91/92, Faccini Dori, ivi, L994, p. 1-3325, punto 20, e 7 gennaio 2004, causa C-201/02, Wells, ivi, 2004, p. 1-723, punto 56. (12) Sentenza Wells (del 7 gennaio 2004, causa C C-201/02,. (13) Sentenza del 10 aprile 1984, causa 14/83 4 luglio 2006, causa C-212/04, Adeneler e a., punti 106 ss (14) Corte di giustizia, sentenza 25 febbraio 1999, Carbonari, causa C-131/97,. (15) Sentenza Adeneler, cit., punto 115. (16) Corte di giustizia, sentenza del 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, in Racc. 1991, p. I-5357, § 31. che trae origine da alcuni rinvii pregiudiziali effettuati a seguito del mancato recepimento, da parte del legislatore italiano, della direttiva 80/987/CEE (in G.U.C.E. L 283, p. 23) riguardante il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro. (17) Cfr. sentenza Carbonari, 52. (18) Sentenza della Corte di giustizia 15 gennaio 1986 in causa n. 44/84, Hurd, in Raccolta, 1986, p. 29 ss. (19) V. anche Corte cost., ordinanze nn. 108 e 109 del 1998. (20) detta disposizione riproduce il contenuto dell'articolo uno della convenzione internazionale delle Nazioni Unite sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale del 3 marzo 1966 ratificata dall'Italia con la legge 654 75