LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Ha pronunciato la seguente sentenza ed ordinanza nel ricorso presentato da Pietro Capizzi, nato il 29 marzo 1946, Eraldo Giuliana, nata il 26 ottobre 1970, Giuseppa Maria Mercedes Costa, nata il 17 giugno 1967, avverso la sentenza del 19 luglio 2010 del g.i.p. presso il Tribunale di Caltanissetta Sentita la Relazione svolta dal Cons. Gian Giacomo Sandrelli. Lette le Requisitorie del PG. (nella persona del Cons. Gioacchino Izzo) che ha chiesto annullarsi la sentenza senza rinvio limitatamente alla applicazione delle pene e dichiararsi inammissibile, nel resto, il ricorso del Pietro Capizzi. In fatto Il g.i.p. presso il Tribunale di Caltanissetta ha applicato, con sentenza resa il 19 luglio 2007, la pena su richiesta delle parti (anche) agli attuali ricorrenti, imputati, a vario titolo, di fatti di bancarotta fraudolenta. Avverso la sentenza ricorre la difesa di Pietro Capizzi, di Eraldo Giuliana e di Giuseppa Maria Mercedes Costa, quest'ultima con due distinti atti di impugnazione. Doglianza comune ai ricorrenti e' l'applicazione delle sanzioni accessorie - non dedotte nell'accordo pattizio - in misura fissa, anziche' pari alla durata della pena principale, come statuito da recente indirizzo giurisprudenziale di questa Corte. Inoltre, i ricorrenti lamentano l'insufficiente motivazione sulle ragioni che conducono all'affermazione di penale responsabilita' dei prevenuti, nonche' la violazione dell'art. 444, comma 2 c.p.p. che esclude l'applicazione di pene accessorie. In diritto Il secondo motivo proteso a censurare l'assenza di adeguata motivazione al provvedimento e' manifestamente infondato. In tema di patteggiamento, l'accordo sulla pena esonera il giudice dall'obbligo di motivazione sui punti non controversi della decisione, sicche' dalla valutazione sintetica del fatto operata in sentenza deve dedursi la considerazione della sua limitata gravita', in relazione alla quale le parti non possono censurare il provvedimento adottato riguardo alla determinazione quantitativa della sanzione. E', invece, fondato il motivo coinvolgente la posizione del Giuliana. Il preciso disposto dell'art. 445, comma 1 c.p.p. preclude la possibilita' di infliggere sanzioni accessorie quando la pena, come nel caso della ricorrente, non superi i due anni di reclusione. La sentenza deve, al riguardo, essere annullata senza rinvio. Per quanto trae, poi, alla doglianza circa la durata della sanzione accessoria dettata dall'art. 216 uc. l. fall. il Collegio non puo' decidere allo stato degli atti, ravvisato il contrasto di pronunce sul punto anche all'interno di questa Sezione. Il quesito attiene all'interpretazione da assegnare all'art. 216 ult. comma legge fall. e, segnatamente, alla durata della sanzione dell'inabilitazione ivi prevista. L'orientamento seguito, pressoche' costantemente da questa Corte in tema di bancarotta fraudolenta (rilevabile sin da Cass. Sez. 5, 16 ottobre 1973 Tonarelli, CED Cass. 126018), e' nel senso che la pena accessoria dell'inabilitazione all'esercizio di imprese commerciali ed all'incapacita' di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, sia fissata inderogabilmente nella misura di dieci anni, ancorandosi alla lettera della disposizione. Pertanto, non trattandosi di pena indeterminata, la sua durata si sottrae alla disciplina disposta dall'art. 37 cod. pen. Tuttavia a fronte di siffatta lettura recenti sentenze (cfr. per es. Cass. Sez. V, 10 marzo 2010, Tonizzo, n. 9672; Cass., Sez. V, 31 marzo 2010, Travaini, n. 23720) hanno ritenuto che la fissita' della sanzione accessoria contrasti con «il "volto costituzionale" dell'illecito penale», e che il sistema normativa debba lasciare, comunque, adeguati spazi alla discrezionalita' del giudice, al fine di permettere l'adeguamento della risposta punitiva alle singole fattispecie concrete: in tal senso risulta illegittima la previsione che lascia il giudice privo di sufficienti margini di adattamento del trattamento sanzionatorio alle peculiarita' della singola ipotesi concreta. E' d'uopo sottolineare che questa impostazione ermeneutica aderisce all'ispirazione che hanno ispirato importanti provvedimenti del Giudice delle Leggi (Corte Cost., Ord. 12 marzo 2008/4 aprile 2008, n. 91; Corte Cost., Ord. 2 aprile 1980, n. 50) per cui «in linea di principio ... previsioni sanzionatorie rigide non appaiono in armonia con il "volto costituzionale" del sistema penale; ed il dubbio di illegittimita' costituzionale potra' essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell'illecito sanzionatorio e per la misura della sanzione prevista, quest'ultima appaia ragionevolmente "proporzionata" rispetto all'intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato». La sottrazione del giudizio ai consueti criteri dettati dagli artt. 132 e 133 cod. pen. urta, a parere della Corte, con le previsioni costituzionali degli artt. 3, 27, e 111 Cost. (quest'ultima norma regolante il cd. «giusto processo»). E dubita questo Collegio che il Giudice Ordinario possa superare il dato testuale dell'art. 216 u.c. l. fall., piuttosto spettando alla Corte Costituzionale l'eventuale affermazione di illegittimita' della previsione, quando essa sia interpretata in aderenza all'espressa volonta' legislativa, quale si palesa dalla sua indicazione letterale. In questa prospettiva e' agevole ravvisare il contrasto dell'art. 216 u.c. l. fall. con gli artt. 3 e 27 della Carta fondamentale, attesa la rigidita' dispositiva della prescrizione penale, a fronte del variare della situazione concreta, caratteristica che determina una sostanziale ingiustizia nel trattare allo stesso modo condotte di rilievo penale tra loro differenti e difformemente sanzionate dal legislatore mediante la pena principale. Ci si riferisce alla cd. bancarotta preferenziale nonche' alla singolare ampiezza dell'escursione afflittiva contemplata dalle circostanze speciali di cui all'art. 219, comma 1 e uc. l. fall.). Tutto cio' per tacere della sproporzione che l'ordinamento appresta nei riti alternativi in cui - come nel caso in esame - la risposta della pena principale risulta grandemente inferiore al cospetto di quella accessoria, a cagione della diminuzione premiale consentita o imposta dal legislatore. Ma anche a fronte del novellato art. 111 Cost. e' consentito evidenziare al riguardo una distonia di sistema: la norma costituzionale, nell'imporre all'ordinamento la celebrazione di processi «giusti», non pretende soltanto un corretto svolgimento degli stessi per il rispetto della legge, delle garanzie assegnate alle parti, del contraddittorio, per l'espletamento della decisione in limiti di tempo ragionevoli. Essa prefigura anche la garanzia di un'equa soluzione, alla luce delle risultanze di causa che il giudice acquisisce nella varie fasi processuali. Non e' dato, allora, scorgere quale effettiva utilita', per un processo «giusto», possa derivare ad una decisone «giusta» quando, all'adempimento di essenziali prescrizioni processuali, che assicurano equilibrio del dibattito e pienezza di poteri argomentativi, si perviene - poi - alla soluzione che compete al giudice, terzo ed imparziale, tuttavia coartata nella disamina dei dati cosi' correttamente versati in atti. Ovvero, quale effettivo significato possa darsi ad un sistema che annovera un dettagliato paradigma valutativo negli artt. 132 e 133 cod. pen., ma, all'effetto pratico, impedisce al giudice di ricondurre siffatti esiti ad un'equa e adeguata considerazione sanzionatoria, ancorche' «accessoria». Il dubbio e' rilevante nel caso concreto: la soluzione normativa dianzi indicata evidenzia la negazione del principio del «minore sacrificio necessario» nella risposta punitiva dell'ordinamento a fronte della violazione penale, quando nulla impedirebbe di estendere i parametri propri della pena principale alla misura della pena accessoria, assegnando al giudice, caso per caso, la piu' opportuna statuizione. Per questi motivi la Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente all'applicazione della pena accessoria a Giuliana Eraldo, dichiarando nel resto inammissibile il suo ricorso. Dichiara non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 216 ult. comma l. fall. in relazione agli artt. 3, 27 Cost. Pertanto, sospende il giudizio in corso nei confronti degli imputati ricorrenti Pietro Capizzi e Giuseppa Maria Mercedes Costa. Dispone che la Cancelleria provveda alla trasmissione degli atti alla Corte costituzionale ed agli adempimenti del caso, come in dispositivo.