IL TRIBUNALE 
 
    Ha pronunciato  la  presente  ordinanza  sul  ricorso  numero  di
registro  generale  671  del  2011,  proposto   da   Gaetano   Costa,
rappresentato e difeso dagli avv. Maria Licata  e  Giuseppe  Ribaudo,
con domicilio eletto presso l'avv. Giuseppe Ribaudo in  Palermo,  via
M. Stabile 241; 
    Contro  Ministero  della  salute,   in   persona   del   Ministro
pro-tempore,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  distrettuale
dello Stato di Palermo, presso i cui offici, in Palermo,  via  A.  De
Gasperi 81, e' domiciliato per legge; 
    Per l'esecuzione della  sentenza  del  T.A.R.  Sicilia,  sede  di
Palermo, n. 4140 del 20 dicembre 2006. 
    Visti il ricorso e i relativi allegati; 
    Visto l'atto di  costituzione  in  giudizio  di  Ministero  della
salute; 
    Viste le memorie difensive; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Relatore nella camera di consiglio del giorno 5  luglio  2011  il
dott. Giovanni Tulumello e  uditi  per  le  parti  i  difensori  come
specificato nel verbale; 
    1. Con ricorso per esecuzione di giudicato notificato il 25 marzo
2011, e depositato il successivo 31 marzo, il prof. Gaetano Costa  ha
chiesto l'esecuzione della sentenza di questo T.A.R. n. 4140  del  20
dicembre 2006, confermata a seguito di  decisione  del  Consiglio  di
Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana,  n.  1042  del  15
dicembre 2008. 
    Espone, in particolare l'odierno ricorrente: 
        di essere stato designato componente del  collegio  sindacale
dell'Azienda Ospedaliera «Civico -Fatebenefratelli - M. Ascoli  -  Di
Cristina» in data 5 aprile 2006 quale  rappresentante  del  Ministero
della salute; 
        che lo stesso Ministero, con successiva nota 29 maggio  2006,
ha revocato la designazione; 
        che la revoca, impugnata dallo stesso prof. Costa,  e'  stata
annullata dalla sentenza di questo T.A.R. n.  4140  del  20  dicembre
2006, confermata a seguito di decisione del  Consiglio  di  Giustizia
Amministrativa per la Regione Siciliana,  n.  1042  del  15  dicembre
2008. 
    Di essersi insediato quale componente del collegio sindacale solo
in data 21 luglio 2007. 
    Nel ricorso in esame il prof. Costa lamenta la mancata percezione
dei compensi economici  relativi  alla  funzione  di  componente  del
collegio  sindacale,  dal  16  ottobre  2006  (data  di  insediamento
dell'organo) al 31 luglio 2007. 
    Chiede quindi che, in esecuzione del  giudicato  formatosi  sulle
richiamate sentenze di primo e secondo grado, il  Ministero  intimato
sia condannato al pagamento: 
        a) della somma di € 11.641,05 (corrispondenti agli emolumenti
non percepiti), oltre interessi e rivalutazione, ai  sensi  dell'art.
112, comma 3, del codice del processo amministrativo; 
        b) delle spese del giudizio  di  annullamento  della  revoca,
liquidate   in   complessivi   curo   1.500,00,    mai    corrisposti
dall'amministrazione  (anche  in  questo   caso   con   interessi   e
rivalutazione). 
    2. Con memoria depositata il 31 maggio 2011, si e' costituito  in
giudizio il Ministero della Salute, con il patrocinio dell'Avvocatura
dello Stato. L'amministrazione intimata chiede che il  ricorso  venga
dichiarato inammissibile o comunque improcedibile  sulla  base  delle
seguenti argomentazioni: 
        l'amministrazione ha pienamente ottemperato alla sentenza che
ha annullato la revoca della designazione, provvedendo  ad  immettere
nella funzione il prof. Costa; 
        conseguentemente,  non  vi  e'   materia   di   giudizio   di
ottemperanza, in quanto il ricorrente nella realta'  non  lamenta  la
mancata esecuzione del  giudicato  di  annullamento,  ma  domanda  il
risarcimento per  equivalente  monetario  del  danno  da  illegittimo
esercizio della funzione; 
        il  terzo  comma  dell'art.  112  del  codice  del   processo
amministrativo non sarebbe invocabile, in quanto non si discute di un
danno da mancata esecuzione o da violazione o elusione  di  giudicato
(dal momento  che  l'odierno  ricorrente  e'  stato  integrato  nella
funzione addirittura prima dell'intervenuta formazione del  giudicato
di annullamento, conseguente alla sentenza di secondo grado, e quindi
gia' in sede di esecuzione della sentenza di primo grado  gravata  ma
non sospesa); 
        il quarto cometa del citato art. 112, in astratto invocabile,
e' pero' in concreto rimedio non percorribile,  attesa  l'intervenuta
proposizione della domanda ben al di la' del termine decadenziale  di
centoventi  giorni  dall'avvenuta   formazione   del   giudicato   di
annullamento,  stabilito  dall'art.   30,   comma   5   del   codice,
espressamente richiamato dal quarto comma dell'art. 112. 
    Il ricorso e' stato trattenuto in decisione all'udienza  camerale
del 5 luglio 2011. 
    3.   Osserva   preliminarmente   il   collegio,   in   punto   di
qualificazione della domanda e di conseguente individuazione del  suo
regime, come la  prospettazione  posta  a  fondamento  della  memoria
dell'Amministrazione sia pienamente condivisibile. 
    Fatta eccezione per la parte (del tutto  marginale)  relativa  al
mancato pagamento delle spese processuali del processo di cognizione,
che inerisce ad  un  profilo  di  mancata  esecuzione  del  giudicato
formatosi all'esito di tale giudizio,  la  domanda  proposta  con  il
ricorso in esame non attiene propriamente  ne'  alla  esecuzione  del
giudicato di annullamento, ne' ad un danno da mancata  esecuzione  di
giudicato. 
    La  statuizione  caducatoria  contenuta   nella   sentenza   resa
all'esito del giudizio di cognizione di primo  grado,  confermata  in
appello,  risulta   essere   stata   eseguita   mediante   attuazione
dell'effetto ripristinatorio. L'odierno ricorrente e' stato, infatti,
reintegrato nella funzione nel corso  del  giudizio  di  appello:  di
talche', come correttamente dedotto  dalla  difesa  erariale,  appena
venuto ad esistenza il giudicato di annullamento risultava in realta'
gia' eseguito, in relazione a tutti i suoi effetti. 
    Ne' le conclusioni mutano ove s'intenda la presente domanda  come
rivolta non all'esecuzione del giudicato, ma della sentenza di  primo
grado non sospesa: quest'ultima  risulta  pienamente  eseguita  prima
della conferma in appello. 
    Si e' dunque fuori dall'ambito di applicabilita'  dell'art.  112,
comma 3, cod. proc. amm., secondo cui nel  giudizio  di  ottemperanza
«puo' essere proposta anche azione di condanna al pagamento di  somme
a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il  passaggio  in
giudicato della sentenza, nonche' azione di  risarcimento  dei  danni
derivanti  dalla  mancata  esecuzione,  violazione  o  elusione   del
giudicato». 
    L'effetto conformativo del giudicato di  annullamento,  e  quello
ripristinatorio, non si spingono, in questi casi, al punto da imporre
all'amministrazione, oltre  al  reintegro,  anche  la  corresponsione
degli  emolumenti  economici  per  la   durata   dell'efficacia   del
provvedimento annullato (nel qual caso la pretesa sarebbe  azionabile
in sede esecutiva entro il termine  decennale  consentito  dall'actio
iudicati): tale  adempimento  attiene  alla  refusione  di  danno  da
provvedimento illegittimo e  non  costituisce  effetto  naturale  del
giudicato di annullamento (anzi, e' proprio la non  riparabilita'  di
tale pregiudizio mediante la rimozione  del  provvedimento  lesivo  a
rendere necessario il ricorso alla tecnica di tutela complementare  a
quella caducatoria,  consistente  nella  ripristino  per  equivalente
monetario delle situazioni lese) . 
    La fattispecie e' del resto  strutturalmente  identica  a  quella
relativa al danno da ritardata assunzione: con l'unica differenza che
l'odierno ricorrente lamenta il ritardato  conferimento  di  funzioni
onorarie, piuttosto che la ritardata  costituzione  del  rapporto  di
servizio. 
    Il ricorrente chiede in realta' proprio il risarcimento del danno
patrimoniale subito per effetto della emanazione di un  provvedimento
amministrativo (poi dichiarato) illegittimo, per il  periodo  in  cui
detto  provvedimento  ha  avuto  esecuzione  (danno  che  lo   stesso
ricorrente quantifica con riferimento  alla  mancata  percezione  dei
relativi emolumenti per il periodo considerato). 
    Tale fattispecie, che inerisce ad un'area di danno non  risarcita
ne'  risarcibile  -  per  ragioni  diacroniche  -  mediante  la  mora
esecuzione del giudicato di annullamento del provvedimento lesivo, si
inquadra perfettamente nell'ambito precettivo dell'art. 112, comma 4,
cod. proc. amm. che  recita:.  «nel  processo  di  ottemperanza  puo'
essere altresi' proposta la  connessa  domanda  risarcitoria  di  cui
ali'articolo 30, comma 5, nel termine ivi stabilito. In tal  caso  il
giudizio di ottemperanza si  svolge  nelle  forme,  nei  modi  e  nei
termini del processo ordinario». 
    E' appena il  caso  di  osservare  che  sulla  giurisdizione  del
giudice amministrativo - sia per i profili caducatori, sia  a  questo
punto per i connessi profili risarcitori - si e' comunque formato  il
giudicato. 
    4. Il collegio dovrebbe quindi disporre anzitutto la  conversione
del rito ai sensi dell'ultimo periodo della norma appena trascritta. 
    La stessa disposizione, tuttavia, subordina la praticabilita'  di
tale   soluzione   (vale   a   dire,   l'ammissibilita'   dell'azione
risarcitoria mediante conversione del rito) all'avvenuta verifica del
rispetto del termine decadenziale di cui all'art. 30, comma  5,  cod.
proc. amm. 
    Quel precetto stabilisce invece che «nel caso in  cui  sia  stata
proposta azione di annullamento la domanda risarcitoria  puo'  essere
formulata nel corso del  giudizio  o,  comunque,  sino  a  centoventi
giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza». 
    Nel caso in esame il ricorso risulta essere stato  notificato  il
25 marzo 2011: il  predetto  termine  di  centoventi  giorni  risulta
pertanto superato: sia che si assuma come dies a quo il  momento  del
passaggio  in  giudicato   della   sentenza   (coincidente   con   la
pubblicazione della decisione in grado di appello: 15 dicembre 2008);
sia che - posto che la richiamata disciplina  e'  entrata  in  vigore
solo successivamente alla formazione di quel giudicato  -  si  assuma
come dies a quo il momento della entrata in  vigore  del  codice  del
processo amministrativo: cioe' il 16 settembre 2010. 
    L'azione risarcitoria sarebbe comunque tempestiva se, in  assenza
della delimitazione decadenziale posta dal citato  art.  30,  la  sua
proposizione  fosse  subordinata  -  secondo  il  diritto  comune   -
unicamente al rispetto del termine  (quinquennale)  di  prescrizione:
sia che si assuma come  dies  a  quo  il  momento  dell'adozione  del
provvedimento lesivo (29 maggio 2006); sia che si abbia  riguardo  al
momento  della  definitivita'   del   suo   annullamento,   all'esito
dell'impugnativa. giurisdizionale (15 dicembre 2008), collocandosi il
momento della notifica del ricorso entro  il  quinquennio  decorrente
dall'emanazione dell'atto lesivo  (e  che  include  il  successivo  e
definitivo  accertamento  giurisdizionale  della  illegittimita'   di
questo). 
    Ne discende la rilevanza, ai fini del decidere,  della  questione
di legittimita' costituzionale dell'art. 30, comma 5, del codice  del
processo amministrativo: diversamente, il ricorso in  esame  dovrebbe
essere considerato senz'altro irricevibile. 
    Ove  la  norma  medesima  fosse   dichiarata   costituzionalmente
illegittima, la domanda proposta  con  il  presente  ricorso  sarebbe
sicuramente   tempestiva,   alla   stregua   dell'ordinario   termine
prescrizionale cui le azioni risarcitorie per  illegittimo  esercizio
della funzione erano sottoposte  prima  dell'entrata  in  vigore  del
codice del processo amministrativo. 
    5. Sempre in punto di rilevanza della questione, il collegio deve
dar   conto   di   un'ulteriore   opzione   esegetica   astrattamente
praticabile. 
    Potrebbe sostenersi che  il  termine  decadenziale  previsto  dal
quinto comma dell'art. 30 cod. proc. amm. trovi applicazione soltanto
peri giudicati di annullamento formatisi successivamente  all'entrata
in vigore del codice del  processo  amministrativo:  nel  qual  caso,
nella  fattispecie  dedotta  nel   presente   giudizio,   l'eccezione
d'irricevibilita'  sollevata  dalla  difesa   erariale   sarebbe   da
respingere, per inapplicabilita' del precetto concernente il  termine
decadenziale. 
    Simile esegesi, tuttavia, non pare al collegio compatibile con il
testo delle considerate prescrizioni, peraltro  in  presenza  di  una
disciplina transitoria coerente a tale assunto. 
    L'art. 2 delle norme transitorie di cui all'allegato 3 del codice
del processo amministrativo, stabilisce che «per i termini  che  sono
in corso alla data di entrata  in  vigore  del  codice  continuano  a
trovare applicazione le norme previgenti». 
    La disposizione sembra infatti pacificamente riferirsi ai termini
processuali  propriamente  detti:  laddove  la  previsione   di   uno
sbarramento decadenziale per l'esercizio del diritto incide piuttosto
sulla sua delimitazione gia' sul piano sostanziale. 
    Inoltre, cio'  che  appare  dirimente,  la  Relazione  al  codice
fornisce un autorevole e significativo avallo in questo senso, quando
specifica che  la  regola  transitoria  in  esame  si  riferisce  «ai
processi pendenti alla data di entrata in vigore del  nuovo  codice»:
la proposizione della domanda risarcitoria - sia in via autonoma, sia
a seguito di annullamento giurisdizionale del provvedimento lesivo  -
implica viceversa l'introduzione di un  nuovo  processo,  sicche'  la
disciplina  del  termine  decadenziale   per   la   proposizione   di
quest'ultimo esula per definizione dal regime transitorio in esame. 
    Per mitigare il possibile rigore  delle  conseguenze  applicative
derivanti  dall'entrata   in   vigore   del   codice   del   processo
amministrativo in materia risarcitoria,  puo'  semmai  ritenersi  che
nelle fattispecie d'illecito provvedimentale che si pongono a cavallo
dell'entrata in vigore del codice, il dies a quo (coincidente con  la
conoscenza del provvedimento lesivo, o con il definitivo accertamento
della  sua  illegittimita',:  a  seconda  che   si   abbia   riguardo
all'ipotesi di azione  risarcitoria  autonoma,  ovvero  a  quella  di
proposizione pregiudiziale dell'azione caducatoria) venga spostato in
avanti, al momento, cioe', dell'entrata in  vigore  del  codice,  nel
qual caso i centoventi giorni andrebbero  a  scadere  il  14  gennaio
2011. 
    Il collegio, come accennato, si e' fatto carico di  accertare  la
possibilita' di praticare  una  simile  interpretazione:  ma  essendo
stato notificato il ricorso il 25 marzo 2011, dunque  successivamente
a tale ulteriore termine, neppure questa possibile opzione  esegetica
consente di eludere l'interrogativo di fondo connesso  al  dubbio  di
legittimita'  costituzionale  della  disciplina  del  citato  termine
decadenziale. 
    6. La non manifesta infondatezza  della  questione  discende,  ad
avviso del collegio, dal rilievo della irragionevole  compressione  -
ad opera della disposizione censurata: art. 30, comma 5,  cod.  proc.
amm. - del diritto di difesa in giudizio della parte danneggiata, con
violazione degli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione. 
    Il comma 3, prima parte, dell'art. 30 cod. proc. amm.  stabilisce
che «la domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi e'
proposta  entro  il  termine  di  decadenza  di   centoventi   giorni
decorrente dal giorno in cui il fatto si e' verificato  ovvero  dalla
conoscenza del provvedimento  se  il  danno  deriva  direttamente  da
questo». 
    Il  successivo  comma  5,  oggetto  specifico   del   dubbio   di
legittimita' costituzionale con riferimento alla fattispecie  dedotta
nel  presente  giudizio,  completa  la   disciplina   estendendo   la
previsione del medesimo termine decadenziale,  anche  all'ipotesi  di
azione risarcitoria  preceduta  dall'impugnazione  del  provvedimento
lesivo, facendo tuttavia decorrere il termine non dalla conoscenza di
questo ma dal momento del passaggio in giudicato  della  sentenza  di
annullamento. 
    E' ampiamente nota la  ratio  posta  alla  base  dei  termini  di
decadenza previsti in  materia  di  annullamento  di  atti  giuridici
emanati  da  poteri  pubblici  e  da  soggetti  privati:  si   tratta
dell'esigenza di certezza del diritto e di  stabilita'  dei  rapporti
giuridici,  connessa  al  rilievo  che  l'atto  pone  un  assetto  di
interessi rilevante sul piano superindividuale. 
    Il bilanciamento fra il diritto degli interessati  a  sollecitare
un sindacato giurisdizionale  dell'atto,  e  l'interesse  a  definire
sollecitamente la relativa vicenda in modo da non esporre ad un  arco
temporale eccessivamente lungo la sorte della fonte  di  un  rapporto
giuridico rilevante per una collettivita' di  soggetti,  consente  di
individuare nella previsione di un termine di impugnazione a pena  di
decadenza - purche' il relativo termine sia ragionevole e  non  renda
eccessivamente difficile l'esercizio del diritto -  il  soddisfacente
punto di equilibrio del sistema. 
    L'azione risarcitoria, gia' sul piano strutturale, si pone al  di
fuori di questa problematica: l'esposizione del debitore, pubblico  o
privato, alla domanda di risarcimento non  incide  minimamente  sulla
dinamica  dei  rapporti  giuridici  di  cui  lo  stesso  soggetto  e'
titolare, ne' sulla certezza delle situazioni e posizioni  giuridiche
correlate, rilevando solo sul piano della reintegrazione patrimoniale
dello spostamento di ricchezza conseguente all'illecito. 
    Nella stessa sistematica del codice del  processo  amministrativo
(art. 7, comma 4) il risarcimento del danno e' incluso fra i «diritti
patrimoniali  consequenziali»  all'annullamento   del   provvedimento
lesivo. 
    Se la discrezionalita' legislativa avesse inteso porre un  limite
temporale all'esercizio dell'azione risarcitoria compatibile  con  la
natura del rimedio, avrebbe potuto ragionevolmente  farlo  attraverso
l'individuazione  di  un  congruo  termine  prescrizionale  (in  tesi
diverso da quello stabilito dal  diritto  comune,  ove  sussista  una
congrua e ragionevole giustificazione per la differenziazione). 
    Un  ininterrotto  e  coerente  insegnamento,   gia'   sul   piano
istituzionale, chiarisce, infatti, che mentre la prescrizione ha  per
oggetto un rapporto (azione o diritto sostanziale) che per effetto di
essa si estingue, «la decadenza  ha  per  oggetto  un  atto  che  per
effetto di essa non puo' piu' essere compiuto». 
    La disciplina dell'azione di risarcimento del danno appare dunque
ragionevolmente compatibile con la prima, e non anche con la seconda. 
    Ma, cio' che appare maggiormente rilevante, e'  il  rilievo  che,
sul  piano  della  teoria  generale  del   diritto,   la   differenza
strutturale ed effettuale fra prescrizione  e  decadenza  denota  una
precisa - e diversa - connotazione funzionale dei due istituti, cosi'
da non consentirne (se non  violando  il  canone  di  ragionevolezza)
un'applicazione indifferenziata. 
    Secondo i  risalenti  insegnamenti  della  dottrina  civilistica,
mentre la prescrizione e' in  qualche  modo  legata  all'inerzia  del
titolare del  diritto,  la  decadenza  esprimerebbe  «un'esigenza  di
certezza  del   diritto   cosi'   categorica   da   essere   tutelata
indipendentemente  dalla   possibilita'   di   agire   del   soggetto
interessato». 
    Ora, come accennato, in materia di  risarcimento  del  danno  una
esigenza  di  certezza,   che   implichi   una   compressione   assai
significativa del diritto del  danneggiato  di  azionare  i  relativi
rimedi, non pare affatto sussistente tanto piu' nell'ipotesi -  quale
quella in esame - di azione risarcitoria non autonoma, ma conseguente
alla  proposizione  dell'azione  di  annullamento  del  provvedimento
lesivo. 
    Uno  schema  logico  di  utile  riferimento  si  rinviene   nella
disciplina posta dall'art. 1495 del  codice  civile,  in  materia  di
azione di risarcimento dei danni per vizi della cosa venduta: laddove
la denuncia del vizio deve avvenire entro un  brevissimo  termine  di
decadenza (correlato all'esigenza di certezza dei  traffici),  mentre
la successiva azione risarcitoria,  subordinata  alla  tempestiva  (e
pregiudiziale) denuncia, ma di per se'  ormai  estranea  all'esigenza
posta  alla  base  del  ridetto  termine  decadenziale,  soggiace   -
coerentemente - al un termine prescrizionale annuale. 
    La situazione e' strutturalmente identica a quella  dell'illecito
da atto della pubblica amministrazione, nell'ipotesi - qui ricorrente
- in cui l'azione  risarcitoria  sia  preceduta  dalla  pregiudiziale
impugnazione  della  statuizione   lesiva:   con   la   significativa
differenza, tuttavia, che il termine decadenziale per  l'impugnazione
del provvedimento e' ampiamente giustificato dalla  funzione  cui  lo
stesso provvedimento assolve, mentre, diversamente dalla  sistematica
del codice civile, la successiva azione risarcitoria  e'  nel  codice
del  processo  amministrativo  anch'essa  soggetta  ad   un   termine
decadenziale, peraltro infrannuale  (con  significativa  compressione
del diritto di difesa del danneggiato,  in  assenza  di  un  reale  e
giustificato interesse antagonista). 
    Mentre nel caso di  azione  risarcitoria  autonomamente  proposta
(art. 30, comma  1,  cod.  proc.  amm.)  l'accertamento  -  sia  pure
meramente  incidentale,  e  dunque  senza  effetti  sostanziali   sul
rapporto - della illegittimita' del provvedimento veicolo di  lesione
potrebbe in tesi giustificare  la  previsione  di  tale  termine,  la
definitiva certezza giuridica prodotta - sul rapporto - dal passaggio
in  giudicato  della  sentenza  che  statuisce   sulla   domanda   di
annullamento del provvedimento, priva di qualsivoglia giustificazione
razionale la previsione di un brevissimo termine decadenziale per  la
proposizione  dell'azione  risarcitoria  incidente   unicamente   sul
profilo   della   regolazione    patrimoniale    delle    conseguenze
dell'illecito. 
    7. I contributi della dottrina hanno generalmente formulato ampie
riserve critiche sulla soluzione recata dalla disposizione in esame. 
    Si e', in particolare,  posto  in  evidenza  da  parte  dei  piu'
autorevoli studiosi del processo amministrativo, come  la  disciplina
recata dall'art. 30 risponda unicamente ad una logica compromissoria,
volta a conciliare le opposte posizioni emerse  nella  giurisprudenza
della Corte di cassazione e in  quella  del  Consiglio  di  Stato  in
merito alle condizioni  per  l'accesso  al  rimedio  risarcitorio  in
materia di illecito della pubblica  amministrazione,  risolvendo  per
legge il conflitto fra i due massimo organi giurisdizionali. 
    Si  sarebbe  cosi'  affermata  la  possibilita'   teorica   della
proponibilita' dell'azione risarcitoria autonoma, ma  assoggettandola
ad un breve termine di decadenza (con il  risultato  pratico  di  non
differenziare di molto, quanto a condizioni di accesso, le due  forme
di tutela). 
    La critica piu' diffusa poggia  sulla  «mancanza  di  tenuta  sul
piano   teorico»   della   soluzione   prescelta:   id   est,   sulla
irragionevolezza in se' della disposizione, sulla intrinseca  carenza
di una sua giustificazione razionale, a prescindere dai  risvolti  in
ordine alla compressione del diritto di difesa. 
    In questo senso la previsione  di  un  termine  decadenziale  per
proporre azione risarcitoria autonoma (fattispecie  invero  puramente
teorica,   anche   a   seguito   dell'interpretazione   dell'impianto
codicistico resa dal diritto vivente: Adunanza Plenaria del Consiglio
di Stato, decisione n. 3 del 2011), pare confermare  questa  lettura:
il codice non ha inteso discostarsi formalmente dall'indicazione  del
giudice  dei  diritti,  ed  ha  ammesso   l'autonoma   proponibilita'
dell'azione risarcitoria, ma sottoponendola ad un regime - almeno  in
punto di sbarramento temporale - molto piu' simile a  (e  compatibile
con)   quello   dell'azione   di   annullamento   del   provvedimento
amministrativo, che a quello della domanda di risarcimento del danno. 
    Se gia' questo esito appare fortemente discutibile, ancor di piu'
lo e' l'estensione - ad opera del comma 5  dell'art.  30  -  di  tale
regime alla diversa  fattispecie  di  azione  risarcitoria  preceduta
dalla  (pregiudiziale)   impugnazione   del   provvedimento   lesivo,
caratterizzata,  come   accennato,   dalla   avvenuta,   irrevocabile
formazione della certezza giuridica  sul  profilo  sostanziale  della
spettanza. 
    In  disparte  ogni  considerazione  sulla   effettiva   eziologia
storico-giuridica del  regime  censurato,  esso  appare  al  collegio
irragionevolmente e ingiustificatamente compressivo del  diritto  del
danneggiato a richiedere il risarcimento del danno. 
    Il parametro di legittimita' della decadenza convenzionale  (art.
2965 cod.  civ.)  e  dato  dal  limite  della  eccessiva  difficolta'
nell'esercizio del diritto": dal che discende la  centralita',  anche
nelle ipotesi di decadenza legale, del criterio  funzionale  (l'unica
differenza risiede nel fatto che mentre nel primo  caso  la  verifica
della rispondenza al cennato  parametro  funzionale  e'  operata  dal
giudice comune, nel secondo caso, relativo alla decadenza legale,  la
valutazione e' affidata al Giudice delle leggi). 
    Il profilo di irragionevolezza che vizia la disposizione in esame
attiene quindi sia alla previsione di un termine stabilito a pena  di
decadenza,  al  di  fuori  del  presupposti  legittimanti  una  cosi'
incisiva   compressione   del'esercizio   del   diritto   (senza   la
possibilita' di conciliare la delimitazione  temporale  con  il  piu'
favorevole - per il danneggiato -  regime  della  prescrizione);  sia
nella concreta fissazione di tale termine in centoventi giorni. 
    8.  Il  giudizio  di  irragionevolezza   si   fonda   sia   sulle
argomentazioni  di  ordine  teorico-generale  e  disciplinare   sopra
esposte,  sia  sul  rilievo   della   inesistenza   di   un   tertium
comparationis che giustifichi l'introduzione di simile disciplina. 
    La Relazione al codice del processo amministrativo afferma che il
termine di centoventi giorni si giustificherebbe «sul presupposto che
la previsione di termini decadenziali non  e'  estranea  alla  tutela
risarcitoria,   vieppiu'   a   fronte   di   evidenti   esigenze   di
stabilizzazione   delle   vicende   che   coinvolgono   la   pubblica
amministrazione». 
    Quanto alla prima parte dell'affermazione, non e' dato  rinvenire
riscontri alla stessa:  se  non,  come  osservato,  in  relazione  al
diverso  profilo  della  esistenza,   nell'ambito   della   complessa
disciplina dei rimedi  contro  l'illecito,  di  termini  decadenziali
relativi ad attivita' propedeutiche alla proposizione dell'azione  di
danno, ma da questa strutturalmente e funzionalmente  distinte  (cio'
che, nel processo amministrativo, e  garantito  dal  termine  per  la
sollecita impugnazione  del  provvedimento  lesivo;  e,  nell'esempio
tratto dal diritto civile relativo alla garanzia  per  i  vizi  della
cosa venduta, dalla tempestiva denuncia della scoperta del vizio). 
    Quanto alla seconda parte dell'affermazione, se le  «esigenze  di
stabilizzazione   delle   vicende   che   coinvolgono   la   pubblica
amministrazione»  possono  avere  un   qualche   rilievo   oltre   la
prospettiva  meramente  caducatoria  (il  che   e'   tradizionalmente
escluso),  cio'  potrebbe  al  piu'  riscontrarsi   nell'ipotesi   di
proposizione  dell'azione   risarcitoria   in   via   autonoma,   con
contestuale   sindacato   (incidentale)   della   legittimita'    del
provvedimento lesivo. 
    Non gia' nell'ipotesi, qui ricorrente, in cui detto sindacato  e'
stato definitivamente compiuto, con efficacia di giudicato. 
    9. La violazione degli artt. 24, 103 e 113 della Costituzione  si
configura anche per altra via. 
    All'esito della ricostruzione del sistema di tutela del cittadino
nei confronti  della  pubblica  amministrazione,  cui  ha  recato  un
fondamentale contributo la sentenza  n.  204  del  2004  della  Corte
costituzionale, si ritiene comunemente che  il  rimedio  risarcitorio
sia inscindibilmente legato, in  relazione  di  complementarieta',  a
quello caducatorio: la tutela costituzionale dell'interesse legittimo
e'  soddisfatta  solo   se   il   titolare   puo'   chiedere,   oltre
all'annullamento  del  provvedimento  lesivo,  il  risarcimento   per
equivalente del danno  che  traguardi  e  completi  gli  effetti  del
giudicato di annullamento. 
    L'azione di danno e'  dunque  costituzionalmente  necessaria;  in
questo senso la Corte costituzionale e stata  ancora  piu'  esplicita
nella  successiva  sentenza  n.  191  del  2006:  «laddove  la  legge
(.............) costruisce il risarcimento del  danno,  ai  fini  del
riparto  di   giurisdizione   tra   giudice   ordinario   e   giudice
amministrativo, come strumento di tutela affermandone - come e  stato
detto - il carattere  «rimediale»,  essa  non  viola  alcun  precetto
costituzionale e, anzi, costituisce attuazione del precetto dell'art.
24 Cost. laddove questo  esige  che  la  tutela  giurisdizionale  sia
effettiva e sia resa in tempi ragionevoli». 
    La concentrazione dei rimedi in capo al  giudice  amministrativo,
tuttavia, funzionale alla contrazione dei tempi processuali, non puo'
avvenire a condizione della introduzione  di  condizioni  di  accesso
alla tutela assolutamente (e senza ragione) restrittive. 
    Se  l'attribuzione  alla   giurisdizione   amministrativa   della
cognizione dell'azione risarcitoria,  coerente  alla  pienezza  della
tutela  in   termini   ragionevoli,   comporta   come   contropartita
l'introduzione  di  un  regime  che,  derogando  al  diritto  comune,
comprime significativamente le condizioni per l'accesso  al  rimedio,
risulta palesemente contraddetta la finalita' stessa della previsione
dello strumento risarcitorio accanto a quello caducatorio nel sistema
di  tutela  dell'interesse  legittimo:   in   altre   parole,   viene
contraddetta l'esigenza di pienezza ed effettivita' della tutela. 
    La richiamata giurisprudenza costituzionale ha reso,  invero,  le
riportate affermazioni in presenza di una disciplina dell'accesso  al
rimedio risarcitorio nei  confronti  della  pubblica  amministrazione
regolata dal diritto comune: dal che discende  il  quesito  circa  la
perdurante  attualita'  di  quelle  considerazioni,   in   punto   di
conformita'  allo  standard  di  tutela  posto  dall'art.  24   della
Costituzione, alla luce della disciplina introdotta  dal  codice  del
processo  amministrativo,  e  in   particolare   della   disposizione
censurata. 
    10.  E'  appena  il  caso  di  osservare  che  e  estranea   alla
prospettazione  del   vizio   di   legittimita'   costituzionale   la
qualificazione, in termini  di  diritto  soggettivo  o  di  interesse
legittimo, della situazione giuridica soggettiva del danneggiato  che
domanda il risarcimento del  danno  da  illegittimo  esercizio  della
funzione amministrativa. 
    Nel  primo  caso,  non  trova  ragionevole  giustificazione   una
disciplina diversa da quella stabilita per  ogni  diritto  soggettivo
dalla  clausola  generale  di  responsabilita'  civile  (la  pubblica
amministrazione essendo un debitore la  cui  posizione  in  nulla  si
differenzia,  sotto  questo  profilo,  da  quella  dell'obbligato  ex
delicto). 
    Nel secondo caso, la complementarieta' dei rimedi  evocata  dalla
citata giurisprudenza costituzionale ha un senso se  si  mantiene  la
diversita' strutturale degli stessi e delle  corrispondenti  tecniche
di tutela: se invece si assimila - quanto alle condizioni di  accesso
- quello risarcitorio a quello caducatorio, la  complementarieta'  si
riduce ad  una  astratta  petizione  di  principio,  risolvendosi  in
concreto la tutela dell'interesse legittimo nella  sola  possibilita'
di contestare entro un breve termine di decadenza la legittimita' del
provvedimento (a fini caducatori,  ovvero  a  fini  risarcitori).  In
conclusione, appare  rilevante  e  non  manifestamente  infondata  la
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 30, comma  5,  del
d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, per violazione degli artt. 3, 24, 103 e
113 della Costituzione. 
    Il processo dev'essere dunque  sospeso,  con  trasmissione  degli
atti alla Corte costituzionale, ed ogni conseguente statuizione.