ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 236 delle norme
 della Regione siciliana di cui  al  d.l.p.  29  ottobre  1955,  n.  6
 (Ordinamento   amministrativo   degli   enti   locali  nella  Regione
 siciliana) a) e art. 85  lett.  a)  d.P.R.  10  gennaio  1957,  n.  3
 (Statuto  degli impiegati civili dello Stato), promosso con ordinanza
 emessa l'8 novembre 1985 dal TAR per la Sicilia Sez. di  Catania  sul
 ricorso proposto da Iuvara Vincenzo contro Comune di Ispica, iscritta
 al n. 248 del registro ordinanze 1988  e  pubblicata  nella  Gazzetta
 Ufficiale  della  Repubblica  n.  23, prima serie speciale, dell'anno
 1988;
    Udito  nella  camera  di  consiglio del 12 ottobre 1988 il Giudice
 relatore Giuseppe Borzellino;
                           Ritenuto in fatto
    1.  - Con ordinanza dell'8 novembre 1985 pervenuta addi' 18 maggio
 1988 (R.O. n. 248/88) il  Tribunale  amministrativo  regionale  della
 Sicilia  - Sezione di Catania - rimetteva a questa Corte la questione
 di legittimita' costituzionale dell'art. 236 in allegato  al  decreto
 legislativo  presidenziale (della Regione siciliana) 29 ottobre 1955,
 n. 6 (Ordinamento amministrativo  degli  enti  locali  nella  Regione
 siciliana)  e  dell'art.  85  lett.  a)  d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3
 (Statuto degli impiegati civili dello Stato).
    In  punto  di  fatto,  Iuvara  Vincenzo,  dipendente del Comune di
 Ispica,  destituito  "di   diritto",   in   forza   delle   precitate
 disposizioni,  senza cioe' procedimento disciplinare di sorta poiche'
 gia' irrevocabilmente condannato in  sede  penale  per  il  reato  di
 peculato  (art.  314  c.p.),  aveva  ricorso avverso il provvedimento
 deliberato dalla Giunta municipale.
    2.   -   Il   Collegio   remittente   sospetta  di  illegittimita'
 costituzionale la normativa indicata  che  inciderebbe  sul  disposto
 dell'art.  3 Cost., per la irragionevolezza di una disciplina rigida,
 che contrasta col "principio generale di graduazione  della  sanzione
 alla   gravita'  del  fatto-reato".  Risulterebbero  incisi  anche  i
 successivi  artt.  4  e  35,  poiche'  il  provvedimento  produrrebbe
 senz'altro  "l'effetto  della  perdita  del lavoro", nonche', ancora,
 l'art.  97,  impedendosi  -  si  assume  -  "l'azione  amministrativa
 adeguata".
                         Considerato in diritto
    1.1 - L'art. 85 lett. a) del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Statuto
 degli impiegati civili  dello  Stato),  direttamente  applicabile  ai
 dipendenti  degli enti locali della Sicilia per effetto dell'art. 236
 dell'ordinamento  amministrativo  degli  enti  locali  nella  Regione
 siciliana  (d.l.p.  29  ottobre  1955,  n. 6) dispone che l'impiegato
 incorre nella destituzione, escluso il procedimento  disciplinare,  a
 seguito  di  condanna per taluni delitti specificamente elencati, fra
 cui il peculato, cosi' come dedotto in fattispecie.
    1.2   -   Il   Collegio   remittente   dubita  della  legittimita'
 costituzionale di tale  normativa  per  la  rigidita'  della  massima
 sanzione  espulsiva,  senza  cioe'  che  attraverso  il  procedimento
 disciplinare sia possibile  operare,  nella  misura  della  sanzione,
 alcuna  graduazione riferita al caso concreto: in tal modo verrebbero
 a esser vulnerati, oltre la tutela del lavoro (artt. 4 e  35)  e  del
 buon  andamento  amministrativo (art. 97), i principi fondamentali di
 ragionevolezza chiaramente desumibili dall'art. 3 Cost.
    2.1 - La questione e' fondata.
    La  Corte  ha  gia'  avuto  modo  di  considerare,  per  identiche
 fattispecie, come  l'ordinamento  appaia  vieppiu'  orientato,  oggi,
 verso  la  esclusione  di  sanzioni  rigide,  avulse da un confacente
 rapporto di adeguatezza col caso concreto ed ha osservato esser  cio'
 largamente  tendenziale - in adempimento del principio di eguaglianza
 - nell'area punitiva penale e con identica incidenza anche nel  campo
 disciplinare amministrativo (sent. n. 270 del 1986).
    La  necessita'  di  razionalizzare  il sistema, in atto stemperato
 nell'indistinto poiche' diverse e difformi in parte le corrispondenti
 norme  contenute  nei  vari  ordinamenti  per  i pubblici dipendenti,
 rivelava, tuttavia, che  i  rimedi  esaustivi  andavano  assunti  dal
 Parlamento,    dovendosi   operare   scelte   globali   a   fini   di
 omogeneizzazione, in punto, dell'intero comparto pubblico.
    2.2  -  Nuovamente  investita  della questione la Corte deve tener
 conto che, in conformita'  alle  premesse  affermazioni,  un  recente
 disegno  di  legge, volto a modificare talune norme del codice penale
 in materia di circostanze attenuanti e  di  sospensione  condizionale
 della  pena, contiene disposizioni in ordine all'oggetto dell'odierna
 fattispecie, diretta a rendere inoperante, infatti,  la  destituzione
 di  diritto  limitatamente  ai  casi di sospensione condizionale. Non
 rileva qui esame di sorta sui limiti subiettivi  cui  il  legislatore
 intenderebbe  circoscrivere  -  ma comunque mantenere - la menzionata
 sanzione rigida; va  favorevolmente  considerato,  tuttavia,  che  si
 intende comunque perseguire, nella sede legislativa, la riferibilita'
 univoca a tutti i pubblici dipendenti.
    Sicche'  appare  di certo tendenzialmente concretato quell'intento
 di adeguamento delle scelte ai criteri di omogeneizzazione  emergenti
 dalla  legge-quadro  sul  pubblico impiego (29 marzo 1983, n. 93) che
 operato da un ramo del Parlamento (il disegno  ha  ottenuto  il  voto
 della  Camera  e trovasi ora presso il Senato: doc. n. 1239) consente
 ora alla Corte - che ne  aveva  chiaramente  avvertita  la  pressante
 esigenza - di dispiegare, senz'ulteriori remore, la propria verifica.
    3.  -  L'indispensabile gradualita' sanzionatoria, ivi compresa la
 misura massima destitutoria, importa - adunque - che  le  valutazioni
 relative siano ricondotte, ognora, alla naturale sede di valutazione:
 il procedimento disciplinare, in difetto di che ogni  relativa  norma
 risulta  incoerente,  per  il  suo  automatismo,  e  conseguentemente
 irrazionale ex art. 3 Cost.
   Assorbita    ogni   altra   questione,   va   dichiarata   pertanto
 l'illegittimita' costituzionale dell'art.  85  lett.  a)  d.P.R.   10
 gennaio  1957,  n.  3 e dell'art. 236 delle norme per gli enti locali
 nella Regione siciliana di cui al d.l.p. 29 ottobre 1955 n. 6,  nella
 parte  in  cui  in  luogo  del  mero provvedimento di destituzione di
 diritto non prevedono l'esperimento del procedimento disciplinare.
    In  conseguenza  di  quanto  sin qui considerato e in applicazione
 dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953 n.  87  va  dichiarata,  negli
 stessi  termini, l'illegittimita' costituzionale dell'art. 247 r.d. 3
 marzo 1934, n. 383, nel testo sostituito con legge 27 giugno 1942, n.
 851;  dell'art.  66  lett.  a)  d.P.R.  15  dicembre  1969,  n. 1229;
 dell'art. 1, secondo comma, della legge 13 maggio 1975,  n.  157  (in
 relazione  all'art. 85, lett. a), d.P.R. n. 3 del 1957); dell'art. 57
 lett. a) d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761; dell'art. 8 lett. a) d.P.R.
 25 ottobre 1981, n. 737, tutti specificati in dispositivo.