ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nei  giudizi  riuniti di legittimita' costituzionale degli artt. 459,
 comma terzo, del codice di procedura penale,  in  relazione  all'art.
 129  dello stesso codice; 5 della legge 11 aprile 1990, n. 73 (Delega
 al Presidente della Repubblica per la concessione di  amnistia)  e  5
 del  D.P.R. 12 aprile 1990, n. 75 (Concessione di amnistia), promossi
 con le seguenti ordinanze:
      1)  ordinanza  emessa  il  22  giugno  1990 dal G.I.P. presso la
 Pretura di Marsala nel procedimento penale a carico di  Rizzo  Ninfa,
 iscritta  al  n.  538  del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella
 Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  36,  prima  serie  speciale,
 dell'anno 1990;
      2)  ordinanza  emessa  il  12  luglio  1990 dal G.I.P. presso la
 Pretura di Marsala nel procedimento penale a carico di  Ribaudo  Vito
 Roberto,  iscritta al n. 532 del registro ordinanze 1990 e pubblicata
 nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  36,  prima   serie
 speciale, dell'anno 1990;
    Visti  gli  atti  di  intervento  del Presidente del Consiglio dei
 ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del  12  dicembre  il Giudice
 relatore Ettore Gallo;
                           Ritenuto in fatto
    Con   ordinanza  22  giugno  1990,  il  Giudice  per  le  indagini
 preliminari presso la  Pretura  di  Marsala  sollevava  questione  di
 legittimita'   costituzionale   degli  artt.  459,  comma  terzo,  in
 relazione all'art. 129 cod. proc. pen., 5 della legge 11 aprile 1990,
 n. 73, e 5 d.P.R. 12 aprile 1990, n. 75, in riferimento agli artt. 3,
 comma primo, e 24, commi primo e secondo, della Costituzione.
    Successivamente,  con ordinanza 12 luglio 1990, sollevava in altro
 procedimento penale identica questione  in  riferimento  agli  stessi
 parametri, argomentando con le stesse parole della precedente.
    La  questione  e'  stata  occasionata  dalla  sopravvenienza di un
 decreto di amnistia rinunziabile,  dopo  che  il  pubblico  ministero
 aveva  richiesto  al  G.I.P. di emettere decreto di condanna a carico
 dell'imputato per il reato di assegno a vuoto. Osserva il giudice che
 negli   atti   c'e'   prova   certa   della  commissione  del  reato,
 rappresentata dall'attestazione del notaio che,  allegando  fotocopia
 del  titolo,  accerta  che  gli  e'  stato  trasmesso per il protesto
 dall'Istituto trattario:  anche  se  poi  gli  e'  stato  chiesto  in
 restituzione   dallo   stesso  Istituto  per  essere  stati  i  fondi
 ricostituiti.
    Ciononostante  rileva  il  giudice a quo di non poter aderire alla
 richiesta del pubblico ministero a causa della sopravvenuta amnistia,
 ma  di  non potere nemmeno dichiarare l'estinzione del reato perche',
 essendo  l'amnistia  rinunciabile,  l'imputato  dev'essere  messo  in
 condizione  di  conoscere  l'esistenza  del processo a suo carico, al
 fine dell'eventuale esercizio della rinunzia,  che  questa  Corte  ha
 definito  come  aspetto  fondamentale del diritto di difesa (sent. 14
 luglio 1971 n. 175). Afferma, pero',  il  giudice  di  non  ravvisare
 nell'ordinamento  processuale  strumenti  idonei  a dare all'imputato
 conoscenza del procedimento.
    Esclusi,  infatti,  gli  strumenti escogitati sotto la vigenza del
 codice processuale precedente, che risulterebbero inattuabili  in  un
 modello  processuale  del tutto diverso, nemmeno si ritiene possibile
 adottare le regole generali di cui all'art. 127 cod. proc. pen. , che
 disciplinano il procedimento in camera di consiglio.
    Secondo   l'ordinanza,   infatti,   il  procedimento  camerale  si
 riferirebbe ad ipotesi tassative, che nella specie non  ricorrono,  e
 va  comunque  definito  con  ordinanza (art. 127, comma 7, cod. proc.
 pen.), mentre la declaratoria de  qua  va  pronunziata  con  sentenza
 (art. 129, comma 2, cod. proc. pen.).
    Fra  l'altro  -  secondo il remittente - l'imputato non troverebbe
 rimedio  nemmeno  nell'impugnazione  del  provvedimento  che   avesse
 applicato   l'amnistia   senza   consentirgli   la   possibilita'  di
 rinunziare, perche' il giudice di secondo grado potrebbe decidere nel
 merito  -  previa  eventuale rinnovazione del dibattimento - soltanto
 nel caso in cui riconosca erronea la declaratoria di  estinzione  del
 reato.
    Da  tutto  questo la lesione dei principi costituzionali invocati,
 sia perche', a differenza degli altri modelli  processuali,  l'azione
 per   decreto   priva  l'imputato  della  possibilita'  di  conoscere
 l'esistenza del procedimento e  quindi  di  rinunziare  all'eventuale
 amnistia  (art.  3,  primo  comma,  Cost.),  sia perche' questi viene
 privato della facolta' di agire e viene leso il suo diritto di difesa
 (art. 24, primo e secondo comma, Cost.).
    2.  -  E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
 ministri, rappresentato  dall'Avvocatura  Generale  dello  Stato,  la
 quale ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata.
                         Considerato in diritto
    1.   -   Le   due  ordinanze  sollevano  la  stessa  questione  di
 legittimita' costituzionale in  relazione  allo  stesso  reato  e  al
 procedimento  per  decreto,  con  riferimento  ai  medesimi parametri
 costituzionali. I due procedimenti, pertanto, possono venire  riuniti
 per essere decisi con unica sentenza.
    2.  -  La  questione riguarda la sopravvenienza dell'amnistia dopo
 che il pubblico ministero ha  richiesto  al  G.I.P.  l'emissione  del
 decreto penale di condanna. L'imputato ignora che a suo carico sia in
 corso procedimento penale perche'  questo  si  apre  proprio  con  la
 richiesta  del  pubblico  ministero che non gli viene notificata, ne'
 c'e' stata mai occasione nella fase  delle  indagini  preliminari  di
 incidente probatorio o di interrogatorio.
    Sostiene  il  rimettente  che una siffatta situazione, determinata
 dagli articoli impugnati,  viola  i  parametri  invocati  perche'  il
 giudice  non puo' accogliere la richiesta del pubblico ministero, ne'
 pronunziare la sentenza che dichiara l'estinzione del reato, a' sensi
 dell'art.  129,  secondo  comma, cod. proc. pen., se prima l'imputato
 non e' stato  messo  in  condizioni  di  rinunciare,  se  lo  voglia,
 all'amnistia.  Egli,  pero', non ravvisa alcuno strumento processuale
 per dare notizia all'imputato  della  pendenza  del  procedimento,  e
 percio' solleva la riportata questione.
    3. - La questione non e' fondata.
    Intanto,  va  detto  subito  che  non e' esatto che l'imputato non
 troverebbe rimedio, nemmeno attraverso  il  gravame  d'appello,  alla
 declaratoria  di  estinzione  del  reato,  pronunziata senza che egli
 fosse stato posto in grado di  rinunziare  all'amnistia.  Una  volta,
 infatti,  che  il  giudice  riconosce  che l'amnistia non puo' essere
 applicata  allorche'  l'imputato  ignora  l'esistenza  del  processo,
 perche'  gli  verrebbe  confiscato  un  diritto  (quello  di rinunzia
 all'amnistia)  che  trova   il   suo   supporto   in   un   principio
 costituzionale  (art.  24, secondo comma), sembra evidente che se, al
 contrario, il giudice pronunziasse  la  sentenza  di  estinzione  del
 reato   quando   l'imputato  fosse  stato  determinato  a  rinunziare
 all'amnistia, la  pronuncia  integrerebbe  "una  decisione  erronea".
 Proprio  l'ipotesi,  cioe', prevista dall'art. 604, sesto comma, cod.
 proc. pen., che consente al giudice d'appello di decidere nel merito,
 se l'imputato ha impugnato per rinunziare all'amnistia.
    Ma  la  questione  e'  un'altra:  quella  secondo cui non potrebbe
 essere posta a carico dell'imputato la via del gravame, senza che  la
 legge gli appresti la possibilita' di esprimere la sua rinunzia prima
 della  decisione  di  primo  grado.  Altro  e',  infatti,   il   caso
 dell'errore  del giudice, altro che la legge lasci al giudice la sola
 alternativa della declaratoria di estinzione del  reato,  sia  o  non
 consapevole l'imputato della pendenza del procedimento.
    E'  proprio qui, dunque, il punto decisivo della questione: se sia
 vero, cioe', che il giudice per le  indagini  preliminari,  a  fronte
 della  richiesta  di  decreto penale avanzata dal pubblico ministero,
 non  abbia  nella  legge  processuale,  nel  caso  di  sopravvenienza
 dell'amnistia,  alcuno  strumento  per  renderne edotto l'imputato al
 fine di consentirgli di esprimere eventuale rinunzia.
    4.  - Non senza ragione, intanto, rileva l'Avvocatura generale che
 la previsione del terzo comma  dell'art.  459  cod.  proc.  pen.  non
 esclude  per  nulla,  nelle  more  della decisione, "il compimento di
 quelle attivita' materiali (biglietto di cancelleria, avviso scritto,
 convocazione  informale)  volte  a rendere concretamente attuabile il
 principio di diritto sostanziale fissato negli articoli 5 della legge
 e del decreto presidenziale d'amnistia".
    Ma  quand'anche  siffatte innocue escogitazioni, intese soltanto a
 favorire l'imputato,  fossero  ritenute  non  ortodosse,  e  comunque
 certamente  non obbligatorie per il giudice, non e' vero che la legge
 non preveda strumenti idonei a consentire  una  formale  informazione
 all'imputato. E la soluzione e' proprio nella norma impugnata.
    Il comma terzo dell'art. 459 prescrive, infatti, testualmente che,
 quando  il  giudice  "non  accoglie  la   richiesta   (del   pubblico
 ministero),  se  non  deve  pronunciare sentenza di proscioglimento a
 norma dell'art. 129, restituisce gli atti al pubblico ministero".
    Ora, che nella specie il giudice non debba accogliere la richiesta
 del pubblico ministero, e' pacifico e lo afferma anche il rimettente:
 egli  non  puo', infatti, emettere decreto penale di condanna perche'
 e'  sopravvenuto  il  decreto  d'amnistia.  Ma   non   deve   nemmeno
 pronunciare  sentenza  di  proscioglimento a norma dell'art. 129, sia
 perche' non ricorrono le altre condizioni  (c'e'  in  atti  la  prova
 documentale,  certificata  dal notaio, della commissione del reato di
 emissione di assegno a vuoto), sia perche' l'estinzione del reato non
 puo'  essere  pronunciata, se prima non e' stata portata a cognizione
 dell'imputato l'esistenza del processo, dato che la stessa  legge  di
 amnistia  (art.  5)  gli  consente  espressamente  la possibilita' di
 avvalersi della facolta' di rinunzia, manifestazione  di  un  diritto
 costituzionalmente tutelato.
    Cio'  e'  tanto riconosciuto dal giudice rimettente da fondare sul
 dovere di osservanza  di  quel  diritto  la  sollevata  questione  di
 legittimita'  costituzionale. Il giudice, percio', e' consapevole che
 "non deve pronunciare sentenza di proscioglimento a  norma  dell'art.
 129 cod. proc. pen.".
    Ma  allora, se cosi' e', bastava dare corso all'ulteriore disposto
 della  norma  impugnata  secondo  cui,  in  tal  caso,   il   giudice
 "restituisce gli atti al pubblico ministero".
    A  quel  punto,  quest'ultimo  potra' avvalersi dell'art. 375 cod.
 proc.  pen.  e  invitare  la  persona  interessata   a   presentarsi,
 precisando  il  tipo  di  atto  per  il quale l'invito e' predisposto
 (lettera c dell'art. 375): e, cioe', spiegando che viene  invitato  a
 dichiarare  se  intenda  o  meno  rinunciare  all'amnistia  ai  sensi
 dell'art. 5 del d.P.R. n. 75 del 1990, altrimenti si procedera'  alla
 declaratoria   di  estinzione  del  reato.  E  poiche'  una  siffatta
 decisione implica una valutazione tecnica  e  una  manifestazione  di
 volonta'   dispositiva  sull'ulteriore  corso  del  procedere,  sara'
 opportuno anche l'invio della informazione di garanzia  ex  art.  369
 cod. proc. pen.
    Tutto cio', comunque, viene detto a solo titolo dimostrativo delle
 non poche possibilita' formali ed informali offerte dal  sistema  per
 raggiungere    il    fine   doveroso   di   non   offendere   diritti
 costituzionalmente garantiti. La loro scelta e' affidata,  pero',  ai
 poteri della magistratura di merito.
    Infine,  la  questione  concernente  gli artt. 5 della legge e del
 decreto, citati in epigrafe, resta ovviamente assorbita.