ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 125 del decreto
 legislativo  28  luglio  1989,  n.  271  (Norme  di  attuazione,   di
 coordinamento  e  transitorie  del  codice  di  procedura penale), in
 relazione all'art. 2, direttiva n. 50, della legge 16 febbraio  1987,
 n.   81   (Delega   legislativa   al  Governo  della  Repubblica  per
 l'emanazione del nuovo codice  di  procedura  penale),  promosso  con
 ordinanza  emessa  il  9  agosto  1990  dal  Giudice  per le indagini
 preliminari presso la Pretura di Macerata nel procedimento  penale  a
 carico di Gatti Dario, iscritta al n. 634 del registro ordinanze 1990
 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.  41,  prima
 serie speciale, dell'anno 1990;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 Ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del 9 gennaio 1991 il Giudice
 relatore Ugo Spagnoli;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Con  ordinanza del 9 agosto 1990 il Giudice per le indagini
 preliminari presso la Pretura di Macerata, chiamato a decidere su una
 richiesta  di archiviazione del P.M. motivata, ai sensi dell'art. 125
 disp.  att.  cod.  proc.  pen.,  con  l'inidoneita'  degli   elementi
 acquisiti  a  sostenere l'accusa in giudizio, ha sollevato d'ufficio,
 in riferimento all'art.  76  Cost.,  una  questione  di  legittimita'
 costituzionale  di  tale disposizione, assumendo che essa eccederebbe
 dall'ambito della delega conferita con l'art.  2,  direttiva  n.  50,
 della legge 16 febbraio 1987, n. 81.
    Premesso  che  nella  specie  il  giudizio  sull'inidoneita' degli
 elementi acquisiti a sostenere l'accusa e' da condividere, il giudice
 rimettente   esclude   di   poter   ordinare  al  p.m.  di  formulare
 l'imputazione ai sensi dell'art. 554, secondo comma, cod. proc. pen.,
 perche'  il  dissenso  previsto  da tale disposizione concerne non la
 suddetta inidoneita', ma il giudizio di manifesta infondatezza  della
 notitia  criminis  -  cioe'  di  evidente  inconsistenza  in  fatto o
 irrilevanza   in   diritto   di   essa   -   posto    a    fondamento
 dell'archiviazione  sia  nella direttiva n. 50 che nell'art. 408 cod.
 proc. pen.. Ne' il decreto di archiviazione potrebbe  essere  fondato
 su tale giudizio, dato che in tal caso si sovrapporrebbe a quella del
 p.m. una  motivazione  diversa  e  si  emetterebbe  un  provvedimento
 intrinsecamente    contraddittorio,    dichiarandosi   manifestamente
 infondata una notitia criminis che neanche il p.m. ha ritenuto  tale.
    Ritenuto  pertanto,  in  punto  di  rilevanza,  di dover decretare
 l'archiviazione in applicazione del citato art. 125, il giudice a quo
 assume  che  con tale disposizione, anziche' agevolare l'applicazione
 delle norme del codice, si e' introdotta una profonda innovazione sia
 rispetto  all'art.  408  -  nel quale l'"infondatezza andrebbe intesa
 come 'manifesta' alla stregua  della  Relazione  preliminare"  -  sia
 rispetto  alla  legge delega. Con essa, infatti, si impone al giudice
 per le indagini preliminari di archiviare anche la  notitia  criminis
 non  manifestamente  infondata  e  di  avallare  il mancato esercizio
 dell'azione penale in base non alla valutazione del fatto  in  se'  o
 degli  elementi  acquisiti  nelle  indagini  preliminari,  ma  di una
 prognosi probabilistica assai ardua e del tutto incerta circa la loro
 idoneita' a sostenere l'accusa.
    Cio'  contrasterebbe chiaramente con la direttiva n. 50 - che pone
 a base dell'archiviazione la  "manifesta  infondatezza"  -  dato  che
 questa  dovrebbe  essere interpretata in senso stretto e rigoroso, in
 quanto attinente al principio di obbligatorieta' dell'azione  penale.
 E  la  riprova  di  tale  contrasto  sarebbe  data  dallo  squilibrio
 sistematico tra la norma di cui all'art. 425 cod. proc.  pen.  -  che
 autorizza  a  pronunciare  sentenza di non luogo a procedere solo nel
 caso in cui risulti evidente che il fatto  non  sussiste,  o  non  e'
 stato  commesso  dall'imputato,  o  non  costituisce reato - e quella
 impugnata, che autorizzerebbe addirittura  a  non  iniziare  l'azione
 penale  anche  se  l'inidoneita' a sostenere l'accusa concerne solo i
 dati  riguardanti  l'elemento  soggettivo  di   un   reato   la   cui
 materialita' risulti in modo incontrovertibile.
    2. - Il Presidente del Consiglio dei Ministri, intervenuto tramite
 l'Avvocatura dello Stato, ha chiesto che la questione sia  dichiarata
 infondata,   in  quanto  frutto  di  insufficiente  comprensione  dei
 meccanismi del nuovo  processo  e,  insieme,  di  travisamento  della
 regola posta dalla disposizione impugnata.
    La  mancata  qualificazione  del sostantivo "infondatezza", di cui
 all'art. 408 cod. proc. pen., con l'attributo "manifesta" non  rivela
 -   secondo   l'Avvocatura  -  una  ratio  limitativa  dell'esercizio
 dell'azione penale, ma e' coerente al fatto  che  nel  nuovo  sistema
 processuale   l'alternativa   tra   esercizio  dell'azione  penale  e
 archiviazione non si pone  piu',  come  nel  vecchio,  in  limine  al
 procedimento,  bensi'  al  termine  delle  indagini, e magari dopo la
 raccolta di una serie imponente di  indizi:  si'  che  la  situazione
 considerata e' simile a quella che in precedenza conduceva, all'esito
 dell'istruzione, alla  pronuncia  di  una  sentenza  di  non  doversi
 procedere.  L'infondatezza di cui all'art. 408 non cesserebbe percio'
 di essere "manifesta", almeno nei limiti in  cui  non  si  ricolleghi
 necessariamente  tale  attributo  ad un'evidenza di assenza di indizi
 tale da precludere in radice ogni attivita' di indagine.
    L'art. 125 disp. att. - osserva inoltre l'Avvocatura - si limita a
 definire in termini normativi il diversamente  impalpabile  parametro
 della  "infondatezza",  introducendo un criterio di "non superfluita'
 del processo"  quale  requisito  per  la  devoluzione  della  notitia
 criminis  alla sede giudiziale. Ne' potrebbe dirsi in contrasto con i
 principi della delega, o con quello  di  obbligatorieta'  dell'azione
 penale, che questa sia esercitata in un quadro di "concretezza" e che
 pertanto non sia da  attivare  ove  le  indagini  non  consentano  di
 ritenere  prevedibile  un esito giudiziale contra reum. Nemmeno, poi,
 potrebbe confondersi tale valutazione con quella concernente le prove
 per  l'affermazione della responsabilita' penale spettante al giudice
 di merito, dato che con  essa  il  pubblico  ministero  si  limita  a
 formulare  una  prognosi  sul  grado  di  resistenza,  e quindi sulle
 prospettive di successo  dell'impostazione  accusatoria  in  sede  di
 giudizio.
                         Considerato in diritto
    1.  -  Con  l'ordinanza  indicata  in  epigrafe, il Giudice per le
 indagini preliminari presso la Pretura di Macerata dubita che  l'art.
 125   del  testo  delle  norme  di  attuazione,  di  coordinamento  e
 transitorie del codice di procedura penale (testo  approvato  con  il
 decreto  legislativo  28  luglio  1989,  n. 271), in quanto pone come
 regola di giudizio, ai fini dell'archiviazione,  l'inidoneita'  degli
 elementi acquisiti nelle indagini preliminari a sostenere l'accusa in
 giudizio, contrasti con l'art. 2, direttiva n. 50, della legge delega
 n.  81  del  1987  e, quindi, con l'art. 76 della Costituzione. A suo
 avviso,  tale  regola,  imponendo   di   richiedere   (e   decretare)
 l'archiviazione  "in  base ad una prognosi probabilistica e del tutto
 incerta", comporterebbe una deviazione rispetto a  quella,  enunciata
 nella  suddetta  direttiva e sostanzialmente riprodotta nell'art. 408
 del codice, che prevede l'archiviazione solo in  caso  di  "manifesta
 infondatezza"  della notitia criminis: criterio, questo, che non solo
 non potrebbe essere dilatato - anche per  salvaguardare  l'equilibrio
 sistematico  tra archiviazione e proscioglimento (art. 425 cod. proc.
 pen.) - ma andrebbe al contrario inteso in modo stretto  e  rigoroso,
 dato  che  delimita  le ipotesi in cui non si addiviene all'esercizio
 dell'azione penale, garantito dall'art. 112 Cost.
    2.  -  La  questione  investe  un aspetto importante dell'impianto
 sistematico del nuovo processo penale e  richiede,  percio',  che  il
 rapporto tra la norma impugnata e la direttiva n. 50 della delega sia
 ricondotto nel quadro dei piu' generali principi cui e' improntato il
 particolare  tipo  di  processo accusatorio concretamente previsto; a
 cominciare   dal   principio,   sovraordinato,   dell'obbligatorieta'
 dell'azione penale, che lo stesso giudice a quo richiama.
    Va  innanzitutto ricordato, al proposito, quanto questa Corte ebbe
 ad  affermare  nella   sentenza   n.   84   del   1979,   cioe'   che
 "l'obbligatorieta'  dell'esercizio  dell'azione  penale  ad opera del
 Pubblico Ministero...  e'  stata  costituzionalmente  affermata  come
 elemento  che  concorre  a  garantire, da un lato, l'indipendenza del
 Pubblico  Ministero  nell'esercizio   della   propria   funzione   e,
 dall'altro, l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale";
 sicche' l'azione e' attribuita  a  tale  organo  "senza  consentirgli
 alcun  margine  di discrezionalita' nell'adempimento di tale doveroso
 ufficio".
    Piu'  compiutamente:  il  principio di legalita' (art. 25, secondo
 comma), che rende doverosa la repressione delle  condotte  violatrici
 della  legge  penale,  abbisogna,  per la sua concretizzazione, della
 legalita' nel procedere; e questa, in  un  sistema  come  il  nostro,
 fondato  sul  principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte
 alla legge (in particolare,  alla  legge  penale),  non  puo'  essere
 salvaguardata che attraverso l'obbligatorieta' dell'azione penale.
    Realizzare   la   legalita'   nell'eguaglianza   non   e',  pero',
 concretamente possibile se l'organo cui l'azione e' demandata dipende
 da   altri  poteri:  sicche'  di  tali  principi  e'  imprescindibile
 requisito l'indipendenza del pubblico ministero. Questi  e'  infatti,
 al  pari del giudice, soggetto soltanto alla legge (art. 101, secondo
 comma,  Cost.)  e  si  qualifica  come  "un  magistrato  appartenente
 all'ordine   giudiziario   collocato   come   tale  in  posizione  di
 istituzionale indipendenza rispetto ad ogni altro potere",  che  "non
 fa  valere  interessi  particolari  ma agisce esclusivamente a tutela
 dell'interesse generale all'osservanza della legge" (sentenze nn. 190
 del 1970 e 96 del 1975).
    Il  principio  di obbligatorieta' e', dunque, punto di convergenza
 di un complesso di  principi  basilari  del  sistema  costituzionale,
 talche'  il  suo  venir meno ne altererebbe l'assetto complessivo. Di
 conseguenza, l'introduzione del nuovo modello processuale non  lo  ha
 scalfito,  ne'  avrebbe  potuto  scalfirlo.  Qui, anzi, l'esigenza di
 garantire l'indipendenza del p.m. e' accentuata dalla  concentrazione
 in capo a lui della potesta' investigativa, radicalmente sottratta al
 giudice. Per  altro  verso,  l'eliminazione  di  ogni  contaminazione
 funzionale  tra  giudice  e  organo  dell'accusa  - specie in tema di
 formazione della prova e di liberta' personale -  non  comporta  che,
 sul  piano  strutturale  ed  organico,  il  p.m.  sia  separato dalla
 Magistratura  costituita  in   ordine   autonomo   ed   indipendente.
 Nell'architettura  della  delega,  infatti,  il ruolo del p.m. non e'
 quello di mero accusatore, ma  pur  sempre  di  organo  di  giustizia
 obbligato  a  ricercare tutti gli elementi di prova rilevanti per una
 giusta decisione, "ivi compresi gli elementi favorevoli all'imputato"
 (cfr.  direttiva  n. 37 e, su di essa, la Relazione ministeriale alla
 Camera dei deputati e quella della Commissione seconda  all'Assemblea
 del Senato).
    Coerentemente  a cio', il legislatore delegato ha sottolineato che
 il "potere-dovere del pubblico  ministero  di  estendere  le  proprie
 indagini  a tutto cio' che puo' formare oggetto di prova per l'accusa
 o la difesa" tende "nel rispetto assoluto dei  principi  del  sistema
 accusatorio  e  del  ruolo  di  'parte'  del  pubblico  ministero, ad
 evidenziare  la  natura   ordinamentale,   giudiziaria   e   pubblica
 dell'istituto  e  della funzione" (Relazione al progetto preliminare,
 p. 91); ed ha poi confermato tale natura nel redigere il  nuovo  art.
 190  dell'ordinamento  giudiziario  (art.  29  del  testo allegato al
 d.P.R.  22 settembre 1988, n. 449).
    3.  - Il principio di obbligatorieta' dell'azione penale esige che
 nulla venga  sottratto  al  controllo  di  legalita'  effettuato  dal
 giudice:  ed in esso e' insito, percio', quello che in dottrina viene
 definito favor actionis.  Cio'  comporta  non  solo  il  rigetto  del
 contrapposto  principio  di  opportunita' che opera, in varia misura,
 nei sistemi ad  azione  penale  facoltativa,  consentendo  all'organo
 dell'accusa  di  non  agire  anche  in  base  a  valutazioni estranee
 all'oggettiva  infondatezza  della  notitia  criminis;  ma  comporta,
 altresi', che in casi dubbi l'azione vada esercitata e non omessa. Di
 cio' e', del resto, palese dimostrazione la formulazione - mai  messa
 in  discussione  -  dell'istituto  dell'archiviazione  in  termini di
 "manifesta infondatezza".
   Azione  penale obbligatoria non significa, pero', consequenzialita'
 automatica tra notizia di reato e processo, ne' dovere  del  p.m.  di
 iniziare il processo per qualsiasi notitia criminis. Limite implicito
 alla stessa obbligatorieta', razionalmente intesa, e' che il processo
 non   debba  essere  instaurato  quando  si  appalesi  oggettivamente
 superfluo: regola, questa, tanto piu' vera  nel  nuovo  sistema,  che
 pone   le   indagini  preliminari  fuori  dell'ambito  del  processo,
 stabilendo che, al  loro  esito,  l'obbligo  di  esercitare  l'azione
 penale sorge solo se sia stata verificata la mancanza dei presupposti
 che rendono doverosa l'archiviazione, che e', appunto,  non-esercizio
 dell'azione (art. 50 cod. proc. pen.).
    Il   problema  dell'archiviazione  sta  nell'evitare  il  processo
 superfluo senza eludere  il  principio  di  obbligatorieta'  ed  anzi
 controllando  caso  per  caso  la  legalita'  dell'inazione.  Il  che
 comporta di verificare l'adeguatezza tra i  meccanismi  di  controllo
 delle  valutazioni  di  oggettiva  non superfluita' del processo e lo
 scopo ultimo del controllo, che e' quello di far si' che  i  processi
 concretamente   non   instaurati   siano   solo   quelli   risultanti
 effettivamente superflui.
    Tale   verifica   opera  su  due  versanti:  da  un  lato,  quello
 dell'adeguatezza al suddetto fine della regola  di  giudizio  dettata
 per   individuare   il   discrimine   tra  archiviazione  ed  azione;
 dall'altro, quello del controllo del giudice sull'attivita'  omissiva
 del   pubblico   ministero,  si'  da  fornirgli  la  possibilita'  di
 contrastare le inerzie e le lacune investigative di  quest'ultimo  ed
 evitare  che  le sue scelte si traducano in esercizio discriminatorio
 dell'azione (o inazione) penale.
    4.  -  Il legislatore delegante ha dedicato particolare attenzione
 al profilo del controllo. Ha escluso, innanzitutto, che esso  potesse
 ridursi  ad  un  mero  controllo  gerarchico  interno agli uffici del
 pubblico ministero, affidato al procuratore  generale,  pur  se  cio'
 appariva   piu'   rispondente  ad  un  sistema  processuale  di  tipo
 accusatorio e presentava indubbi  vantaggi  in  termini  di  economia
 processuale. Un sistema imperniato sul controllo esterno da parte del
 giudice e' stato, infatti,  ritenuto  (Atti  Senato,  seduta  del  19
 novembre  1986,  p.  19) "piu' realmente rispondente alle esigenze di
 una reale democrazia e di un effettivo controllo  sull'esercizio  dei
 pubblici  poteri"  e,  quindi,  di un rispetto sostanziale e non solo
 formale del principio di obbligatorieta' dell'azione penale.
    In  effetti, il sistema processuale delineato nella legge delega e
 poi concretamente attuato nel codice e' tutt'affatto originale,  dato
 che  tende  bensi'  (art. 2, primo comma) ad attuare "i caratteri del
 sistema  accusatorio",  ma  "secondo  i  principi   ed   i   criteri"
 specificati  nelle  direttive  che  seguono.  Tra  queste, importanza
 fondamentale, ai fini qui in esame, riveste quella di cui al  n.  37,
 che  -  oltre  ad individuare, come gia' visto, il ruolo del pubblico
 ministero  -  pone  i  presupposti  per  garantire  effettivita'   al
 controllo  del  giudice  sulla  richiesta  di archiviazione. Da essa,
 infatti, discende la regola - specificamente  enunziata  negli  artt.
 326 e 358 del codice - secondo cui il pubblico ministero ha il dovere
 di compiere "ogni attivita' necessaria" ai fini delle "determinazioni
 inerenti  all'esercizio dell'azione penale" (cioe', delle richieste o
 di  archiviazione  o  di  rinvio  a  giudizio),  ivi   compresi   gli
 "accertamenti   su   fatti  e  circostanze  a  favore  della  persona
 sottoposta alle indagini".
    Viene,  con cio', stabilito, il principio di "completezza" (almeno
 tendenziale,  come  si  precisera'  piu'  innanzi)   delle   indagini
 preliminari,  che  nella  struttura  del  nuovo  processo assolve una
 duplice, fondamentale funzione. La completa individuazione dei  mezzi
 di  prova  e',  invero,  necessaria,  da  un  lato, per consentire al
 pubblico ministero di esercitare le varie opzioni possibili (tra  cui
 la richiesta di giudizio immediato, "saltando" l'udienza preliminare)
 e per indurre l'imputato ad accettare i riti alternativi: cio' che e'
 essenziale  ai  fini  della complessiva funzionalita' del sistema, ma
 presuppone, appunto, una qualche  solidita'  del  quadro  probatorio.
 Dall'altro  lato,  il  dovere  di  completezza funge da argine contro
 eventuali prassi di esercizio "apparente"  dell'azione  penale,  che,
 avviando  la  verifica  giurisdizionale sulla base di indagini troppo
 superficiali,  lacunose   o   monche,   si   risolverebbero   in   un
 ingiustificato aggravio del carico dibattimentale.
    Per  assicurare  da  parte  del  pubblico  ministero  il  rispetto
 dell'obbligatorieta' dell'azione penale, il legislatore delegante  ha
 delineato  (direttive  nn.  42,  da  49  a  52),  e  quello  delegato
 realizzato, un'articolata gamma di strumenti di controllo.
    A  garanzia della completezza delle indagini sta, innanzitutto, la
 previsione per cui, ove il giudice  delle  indagini  preliminari  non
 ritenga  accoglibile  la richiesta di archiviazione, possa, all'esito
 di  un'udienza  camerale  all'uopo  fissata,  indicare  al   pubblico
 ministero  le  ulteriori indagini che ritiene necessarie, fissando il
 termine indispensabile per  il  loro  compimento  (art.  409,  quarto
 comma):  e questa Corte ha chiarito sia che tali "ulteriori indagini"
 possono essere disposte anche in caso di archiviazione richiesta  per
 essere rimasti ignoti gli autori del reato (art. 415; sentenza n. 409
 del 1990), sia che la stessa facolta'  -  non  contemplata  dall'art.
 554,   secondo  comma  -  spetta  anche  al  giudice  delle  indagini
 preliminari presso la pretura (sentenza n. 445 del 1990).
    Al  medesimo  scopo  di evitare archiviazioni derivanti da carenze
 nelle indagini e' preordinata la  facolta'  attribuita  alla  persona
 offesa   dal  reato  di  opporsi  alla  richiesta  di  archiviazione,
 indicando nel contempo l'oggetto dell'investigazione suppletiva ed  i
 relativi  elementi di prova: cio' che e' di per se' sufficiente a dar
 luogo alla predetta udienza camerale (art. 410).
    Un  ulteriore  strumento di garanzia contro l'inerzia del pubblico
 ministero il quale non abbia attivato le indagini o  non  abbia  dato
 corso  a  quelle  "ulteriori"  che  gli siano state indicate nei modi
 predetti, e' costituito dal potere di  avocazione,  esercitabile  dal
 procuratore  generale - d'ufficio o su richiesta della persona offesa
 - quando il  procuratore  della  Repubblica  "non  esercita  l'azione
 penale"  (artt.  412,  primo  comma,  e 413, primo comma); ed inoltre
 quando si faccia luogo all'udienza camerale, la  comunicazione  della
 cui  fissazione serve appunto a consentire al procuratore generale di
 svolgere direttamente le "ulteriori indagini"  o  le  "investigazioni
 suppletive"  (artt.  409,  terzo  comma,  412,  secondo comma, e 413,
 secondo comma).
    Un   ultimo,   incisivo   strumento   di   garanzia  del  rispetto
 dell'obbligatorieta'dell'azione penale e' costituito dalla potesta' -
 attribuita al giudice per le indagini preliminari, ove dissenta dalla
 valutazione di infondatezza  della  notizia  di  reato  espressa  dal
 pubblico  ministero con la richiesta di archiviazione - di ordinare a
 quest'ultimo di formulare l'imputazione (artt. 409,  quinto  comma  e
 554,  secondo  comma).  Il  tutto  in  coerenza con il favor actionis
 radicato nell'art. 112 Cost.: sicche' anche per  questa  via  risulta
 dimostrato  che  l'astratto  "modello"  accusatorio  deve  subire gli
 adattamenti necessari a renderlo coerente al disposto costituzionale.
    5. - L'efficacia del sistema dei controlli rischierebbe, pero', di
 risultare vana se la  regola  di  giudizio  dettata  per  individuare
 l'oggettiva  superfluita'  del processo non fosse idonea a segnare il
 discrimine, spesso labile, tra l'oggettiva  superfluita'  e  la  mera
 inopportunita' comunque camuffata.
    Al riguardo, mette conto di rilevare che con la direttiva n. 50 e'
 stata adottata una formula - appunto, la "manifesta  infondatezza"  -
 identica  tanto a quella della precedente delega del 1974 (punti 37 e
 41) e del relativo progetto preliminare (art. 379), quanto  a  quella
 che,   secondo   l'interpretazione   comune,  definiva  il  grado  di
 infondatezza idoneo a consentire l'archiviazione  secondo  il  codice
 abrogato.
    Tra  vecchio  e  nuovo  codice  vi  e',  pero',  in  materia,  una
 fondamentale differenza. Nel primo, la decisione  sull'archiviazione,
 assunta  in  base  alla  sola notizia di reato o a piu' o meno scarni
 elementi acquisiti nel corso degli atti  preliminari  all'istruzione,
 tendeva  a stabilire se vi fosse o no un'infondatezza cosi' manifesta
 da far ritenere superflua o meno, l'istruzione vera  e  propria.  Nel
 secondo,  invece,  si  tratta di decidere all'esito, e sulla base, di
 indagini  preliminari  anche  "complete"  e  talvolta  integrate   da
 investigazioni suppletive (artt. 409, 410 e 413). Cio' spiega perche'
 il legislatore delegato, nel formulare l'art. 408, abbia ritenuto  di
 omettere  l'attributo  "manifesta"  che  il  delegante aveva adottato
 senza particolari discussioni  sul  punto:  si  e'  ritenuto,  cioe',
 verosimilmente,  che  l'"infondatezza",  collocata  al  termine delle
 indagini   preliminari,   recasse    gia'    in    se'    il    segno
 dell'inequivocita'.  Il  vero  significato della regola cosi' dettata
 e', quindi, quello della  non  equivoca,  indubbia  superfluita'  del
 processo.
    6.  -  Tale  regola  oggettiva,  in  quanto  destinata  ad operare
 nell'ambito di un sistema di tipo accusatorio, abbisognava, pero', di
 una determinazione che la convertisse in un criterio sufficientemente
 preciso,  idoneo  a  regolare  la  condotta  dell'organo   incaricato
 dell'iniziativa   sull'instaurazione   del   processo:  cio'  che  il
 legislatore delegato ha fatto con le norme di attuazione.
    Come  il  giudice  a  quo ricorda, la primitiva formulazione della
 disposizione, in  allora  art.  115,  sollevo'  vivaci  critiche,  in
 particolare da parte del Consiglio superiore della magistratura e fu,
 percio',  modificata,  fino  a  pervenire  alla  versione   contenuta
 nell'impugnato art. 125.
    In  effetti,  se  la  norma  fosse  restata nel testo del progetto
 preliminare (art. 115), vi sarebbe stata una palese violazione  della
 direttiva  n. 50 e dei gia' illustrati principi regolanti la materia;
 del  che  e'  opportuno  dar  conto  per  meglio  intendere  l'esatto
 significato della norma impugnata.
    L'art.  115  disponeva  che  "il  pubblico  ministero  presenta al
 giudice la richiesta di archiviazione quando ritiene che gli elementi
 acquisiti  nelle  indagini  preliminari  non sarebbero sufficienti al
 fine della condanna degli imputati",  mentre  l'art.  125  del  testo
 definitivo  dispone che "il pubblico ministero presenta al giudice la
 richiesta  di  archiviazione  quando  ritiene  l'infondatezza   della
 notizia  di  reato  perche'  gli  elementi  acquisiti  nelle indagini
 preliminari non sono idonei a sostenere l'accusa in giudizio".
    E'  evidente, innanzitutto, che la formula iniziale comportava che
 all'oggetto proprio della valutazione del pubblico ministero circa  i
 risultati delle indagini ai fini dell'esercizio, o no, dell'azione si
 sostituisse l'oggetto proprio  della  valutazione  del  giudice,  che
 investe,  appunto, la sufficienza delle prove per la condanna: e cio'
 in netta contraddizione con il fatto che,  nel  sistema  del  codice,
 quest'ultimo  giudizio  e'  frutto  di  un  materiale  probatorio  da
 acquisire nel dibattimento.
    Si sarebbe trattato, inoltre, di una valutazione non coerente alla
 provvisorieta' della fase in  cui  avrebbe  dovuto  compiersi,  senza
 tener  conto  della  possibilita' di acquisire nuovi elementi dopo la
 richiesta di rinvio a giudizio (art. 419,  terzo  comma)  o  dopo  la
 pronuncia  del decreto che dispone il giudizio (art. 430), ovvero nel
 corso dell'udienza preliminare (art. 422),  oltreche'  dell'attivita'
 probatoria esperibile nel contesto della dialettica dibattimentale.
    La  conformita'  alla  legge  delega  dell'iniziale  art.  115 non
 potrebbe, d'altra parte, argomentarsi  richiamando  la  regola  della
 direttiva  n.  11  ("si  ha  mancanza  di  prova anche quando essa e'
 insufficiente o contraddittoria"), dato che questa fu introdotta  per
 ragioni   garantistiche,   di  tutela,  cioe',  contro  i  pregiudizi
 derivanti dalle assoluzioni per insufficienza di prove e di  coerenza
 delle  formule assolutorie con la presunzione d'innocenza: ragioni le
 quali  non  hanno  nulla   a   che   vedere   con   la   problematica
 dell'archiviazione,  tant'e' che nei lavori preparatori - tanto della
 legge delega, quanto dell'art. 530 del codice, che la riproduce - non
 e'  dato  rinvenire  il  benche'  minimo  riferimento  ad  un  simile
 argomento, del tutto estraneo al tema.
    7.  -  Ben diversa e' la prospettiva nella quale si colloca l'art.
 125. La regola che tale disposizione detta per il pubblico  ministero
 consiste  in  una valutazione degli elementi acquisiti non piu' nella
 chiave dell'esito finale del processo, bensi' nella chiave della loro
 attitudine a giustificare il rinvio a giudizio.
    Il  quadro  acquisitivo viene, cioe', valutato non nell'ottica del
 risultato  dell'azione,  ma  in  quella  della  superfluita'   o   no
 dell'accertamento  giudiziale,  che  e' l'autentica prospettiva di un
 pubblico ministero, il quale,  nel  sistema,  e'  la  parte  pubblica
 incaricata di instaurare il processo.
    Non  solo  la  sostituzione  del  termine  "idonei"  a  quello  di
 "sufficienti" designa un quantum  minore  di  elementi,  ma  la  loro
 valutazione   diventa  funzionale  non  alla  condanna,  bensi'  alla
 sostenibilita'  dell'accusa.  Viene  recuperata,  in  tal  modo,   la
 provvisorieta'  del  quadro  acquisitivo  e  la  prospettiva dinamica
 propria della fase, dato che l'esclusione della sufficienza dei  dati
 acquisiti  consente  di  far rientrare nella valutazione le attivita'
 integrative esperibili dopo la richiesta di rinvio a giudizio.
    Cosi' come formulata, la norma e', in definitiva, la traduzione in
 chiave accusatoria del principio di non superfluita' del processo, in
 quanto il dire che gli elementi acquisiti non sono idonei a sostenere
 l'accusa equivale al dire  che,  sulla  base  di  essi,  l'accusa  e'
 insostenibile  e  che,  quindi,  la  notizia  di  reato e', sul piano
 processuale, infondata. L'impiego, nel testo definitivo, del presente
 ("sono")  in  luogo  del  condizionale  ("sarebbero")  proposto dalla
 Commissione parlamentare consultiva vale a  sottolineare  ancor  piu'
 che  l'impossibilita'  di sostenere la prospettazione accusatoria, di
 coltivarla, cioe', in maniera attendibile, deve essere chiara  e  non
 equivoca,      coerentemente     all'univocita'     dell'infondatezza
 ("manifesta") che connota la formula usata dal legislatore delegante.
    8. - Cosi' intesa, la norma si sottrae anche alle censure che alla
 formulazione del progetto preliminare (art. 115) erano state mosse in
 particolare,  come  ricorda il giudice a quo, dal Consiglio superiore
 della magistratura -  in  ragione  della  netta  divaricazione  delle
 regole  adottate,  rispettivamente,  ai fini dell'archiviazione ed ai
 fini della sentenza  di  non  luogo  a  procedere:  la  quale  ultima
 richiede  l'evidenza  della  non  responsabilita' dell'imputato (art.
 425).  Tale  divaricazione  -  stante  l'inerenza  di   elementi   di
 discrezionalita'  nella  valutazione  probabilistica di insufficienza
 "al fine  della  condanna"  e  la  ristrettezza  del  "filtro"  cosi'
 predisposto  -  avrebbe  comportato che il pubblico ministero potesse
 condurre ad esiti diversi, vicende analoghe  e  addirittura  ottenere
 l'archiviazione in presenza di situazioni piu' pesanti per l'indagato
 di quelle che - una volta richiesto il rinvio a  giudizio  -  possono
 consentirgli   di   ottenerlo   nell'udienza   preliminare.   Con  la
 formulazione approvata, invece, la differenza,  seppur  persiste,  si
 attenua  sensibilmente,  dato  che non puo' non riconoscersi un certo
 accostamento - anche se in prospettive diverse - tra insostenibilita'
 dell'accusa  ed  evidenza  dell'innocenza. Tanto piu' se si considera
 che quest'ultima situazione non va identificata con la totale assenza
 di  elementi  a  carico:  lo si desume dall'art. 434, che consente la
 revoca della sentenza di  non  luogo  a  procedere  se  il  rinvio  a
 giudizio  puo'  essere  determinato  da  nuove  fonti  di  prova,  da
 valutarsi "unitamente a quelle gia' acquisite".
    D'altra  parte,  in ogni caso, la differenza si giustifica, con la
 diversa funzione che le due regole assolvono nella logica del sistema
 del codice, coerentemente alla diversita' delle fasi rispettivamente,
 anteriore o successiva all'esercizio dell'azione penale - in cui sono
 destinate  ad  operare. Nella prima fase, il controllo del giudice e'
 volto si' a non dar ingresso ad accuse insostenibili, ma ancor piu' a
 far fronte all'eventuale inerzia del pubblico ministero, additandogli
 la necessita' di ulteriori indagini  -  non  soggette  a  particolari
 limitazioni  -  e  perfino  ordinandogli  di formulare l'imputazione:
 sicche' cio' che fondamentalmente si garantisce e'  l'obbligatorieta'
 dell'azione  penale.  Nella  seconda  fase,  ulteriori indagini sono,
 invece, consentite solo se risultino "decisive" ai fini del rinvio  a
 giudizio  o  del  proscioglimento  (art.   422);  ed il controllo del
 giudice si svolge  in  chiave  essenzialmente  garantistica,  diretto
 cioe'   a   tutelare  l'imputato  contro  accuse  che,  in  esito  al
 contraddittorio, si siano rivelate palesemente infondate.
    La  diversa finalita' delle due fasi e delle rispettive regole e',
 peraltro, coerente, ad un tempo, con la logica del favor  actionis  e
 con  la  caratterizzazione del sistema in senso accusatorio. La Corte
 e' consapevole che la tendenza ad allargare  l'area  di  operativita'
 dell'archiviazione  -  tendenza  manifestatasi prima con la redazione
 dell'art.  115,  poi  con  interpretazioni  dell'art.  125  volte   a
 stabilire   una   sostanziale   omogeneita'   con  quello  -  dipende
 essenzialmente da preoccupazioni di deflazione dibattimentale, che la
 stessa  Corte  e'  ben  lungi dal sottovalutare, pur dovendo rilevare
 come esse non bastino a legittimare interpretazioni collidenti con  i
 principi  dianzi richiamati. Infatti, il legislatore delegante non ha
 considerato l'archiviazione in funzione deflattiva, tant'e'  che  nei
 lavori  parlamentari  non  esiste  traccia  di indicazioni tendenti a
 perseguire,  con  la  sua  configurazione,  obiettivi   di   economia
 processuale. A tal fine, sono stati previsti altri strumenti, quali i
 riti alternativi ed un largo impiego del procedimento pretorile.
    9.  -  Alla  stregua  delle  suesposte  considerazioni,  la  norma
 impugnata, intesa nel senso dianzi precisato, deve ritenersi  non  in
 contrasto  con  le  previsioni della legge delega. Di conseguenza, la
 questione va dichiarata non fondata.