IL TRIBUNALE ha pronunciato la seguente ordinanza decidendo sulle richieste di prove formulate dalle parti. O S S E R V A Del Coco Antonio + 5 sono stati tratti a giudizio per il delitto di incendio colposo di un fabbricato, in relazione ai difetti di costruzione ed all'assenza di adeguate misure preventive del fatto. Alla precedente udienza il p.m. ha contestato, ex art. 516 del c.p.p., un ulteriore profilo di colpa, derivante dall'avere gli imputati tardivamente richiesto l'intervento dei vigili del fuoco, cercando al contrario, per diverse ore, di spegnere con i propri (inidonei) mezzi il fuoco devastatore. In relazione a tale modifica, gli imputati presenti han chiesto termini a difesa; agli altri, e' stato notificato ex art. 520 del c.p.p. il verbale. Il p.m. e la difesa dell'imputato han depositato tempestiva lista testi ex art. 468 del c.p.p., in relazione alla nuova circostanza di fatto contestata, mentre la parte civile non ha chiesto prove. All'odierna udienza le parti han fatto esposizione introduttiva ex art. 493 del c.p.p., in relazione al nuovo profilo di fatto (per le circostanze originarie erano gia' stati escussi, nelle precedenti udienze, numerosi testimoni, ed altri - oltre a diversi consulenti tecnici - dovevano ancora essere sentiti, in quanto gia' ammessi), ed han chiesto le prove di cui alle predette nuove liste ex art. 468 del c.p.p. A prescindere dall'opposizione della difesa degli imputati alle prove dedotte dal p.m., preliminare alla decisione in proposito e' l'esame dei criteri legislativi per l'ammissione delle prove, e, conseguentemente, dalla loro costituzionalita' - questione la cui rilevanza nel presente giudizio e' di intuitiva evidenza. L'art. 519 del c.p.p., dopo aver disciplinato la sospensione a seguito di concessione di termini a difesa, prevede che "in ogni caso l'imputato puo' chiedere l'ammissione di nuove prove a norma dell'art. 507". Secondo la relazione al codice "si e' espressamente richiamato il potere dell'imputato di chiedere l'ammissione di nuove prove, anche se sull'applicabilita' dell'art. 507 non avrebbero dovuto sussistere dubbi (. . .). Tale facolta' compete anche in caso di rinuncia al termine a difesa". Secondo i compilatori del codice, quindi, l'ultima parte dell'art. 519 cpv. del c.p.p. sarebbe sostanzialmente superflua: e' del resto assolutamente ovvio che il potere della parte di richiedere prove ex art. 507 del c.p.p. puo' sempre esercitarsi, finche' non sia iniziata la discussione finale. Ma i compilatori stessi, nel fornire tale giustificazione della norma da essi emanata, hanno dimostrato una insufficiente comprensione dei meccanismi di articolazione del diritto alla prova, quali risultanti dal testo del codice. La dottrina e la pratica hanno gia' enucleato, dalla formulazione di norme come gli artt. 468 e 493 del c.p.p., l'esistenza di un principio di preclusione nella deduzione dei mezzi di prova: il processo orale, infatti, in tanto puo' avere un senso, in quanto sia concentrato, e cioe', secondo i principi di una ben nota dottrina, recepiti nella relazione al testo originario del codice di procedura civile (n. 24), realizzi "l'interesse alla rapidita' ed alla buona fede processuale, il quale esige che le parti non mandino in lungo il processo con un ben dosato stillicidio di deduzioni tenute in riserva, e vuole che le stesse, fin da principio, vuotino il sacco delle loro ragioni, senza preparare gli espedienti per le sorprese dell'ultima ora". Di quel principio di preclusione l'art. 507 del c.p.p. costituisce un indispensabile correttivo, al fine di evitare che una insufficiente - ma comunque sussistente - attivita' delle parti impedisca una precisa conoscenza processuale in ordine a punti deicisivi della causa. Infatti, secondo l'interpretazione gia' recepita dalla Cassazione (sez. III, 3 dicembre 1990, dep. 3 gennaio 1991), l'intervento ex art. 507 del c.p.p., d'ufficio o su istanza di parte, va limitato ai soli casi in cui la tesi dell'accusa o quella delle difesa siano supportate da alcuni elementi probatori, e tuttavia risulti una incompletezza nell'istruzione della causa, che, apparendo superabile, non consenta di ritenere tuot court un dubbio probatorio non risolubile, quale previsto dall'art. 530 cpv. del c.p.p. Pertanto, presupponendo una insufficiente attivita' probatoria delle parti ex artt. 468 e 493 del c.p.p., pur in presenza della possibilita' concreta di acquisire ulteriori elementi in ordine a punti decisivi della causa, l'art. 507 riguarda mezzi di prova dai quali le parti sono sostanzialmente decadute. Vi sono invece situazioni, (gia' adombrate nell'art. 493, terzo comma, del c.p.p.), in cui la stessa ammissibilita' e non manifesta irrilevanza di una prova possono emergere solo all'esito della prova della controparte; inoltre, proprio dall'espletamento degli originari mezzi di prova ammessi potrebbero emergere circostanze del tutto nuove, rispetto alle quali le parti potrebbero avere l'esigenza di cercare e dedurre nuovi mezzi istruttori. In siffatte situazioni, e diversamente da quanto sembra enunciato nella relazione dell'art. 519 del c.p.p., il richiamo all'art. 507 non soltanto non e' pertinente, ma e' anche del tutto insufficiente. Una preclusione puo' avere senso solo rispetto alle deduzioni che le parti potevano formulare sin dall'inizio, e che, per incuria o slealta', non hanno formulato tempestivamente, e non rispetto ai mezzi di prova la cui rilevanza ed ammissibilita' emerga solo nel corso dell'istruzione. Applicare l'art. 507 del c.p.p. indiscriminatamente a tutti i mezzi di prova non richiesti nei termini di cui all'art. 493 del c.p.p. significherebbe fornire dell'art. 507 un'interpretazione che condurrebbe ad un sicuro giudizio di incostituzionalita'; se ad es. due testimoni ritualmente indicati ex art. 468 e richiesti ex art. 493 rendono, su fatti e circostanze importanti dichiarazioni discordanti, perche' mai il confronto tra gli stessi dovrebbe essere condizionato al requisito dell'assoluta necessita'? Certo in tal caso, non si potrebbe pretendere che le parti, in sede di richiesta di prove ex art. 493 del c.p.p., chiedano anche, in via preventiva, il confronto tra i testi che in seguito risultassero "eventualmente" discordanti: cio' in quanto non vi e' alcuna indicazione normativa che il testo legislativo abbia inteso portare il principio di preclusione sino all'estremo del c.d. principio di eventualita' ("sicche' le parti, per sfuggire al pericolo di non essere in tempo a far valere argomenti che poi nel corso del dibattito potrebbero rivelarsi appropriati, sarebbero costrette a premunirsi in anticipo, alla cieca, contro le possibili repliche dell'avversario, ed a sovraccaricare fin da principio la propria difesa con una quantita' di ipotesi anche contraddittorie tra loro, l'una per l'evenienza che l'altra possa essere respinta". Relazione al testo originario del cod. proc. civ., n. 24). Di tali problemi aveva gia' tenuto conto il legislatore dell'unico tipo di processo che, prima del c.p.p. ora vigente, si ispirava ai principi di oralita', concentrazione ed immediatezza: il processo del lavoro. I commi quinto e settimo dell'art. 420 del c.p.c., infatti, prevedono una possibilita' di replicatio e duplicatio, condizionate all'impossibilita' di precedente deduzione del mezzo di prova, ed, in presenza di tale condizione, svincolate dai limiti posti ai nova dall'art. 420, primo comma, del c.p.c. Tali facolta' di replicatio e duplicatio sono state riconosciute anche nel nuovo modello generale di precesso civile (orale, concentrato ed immediato), approvato con legge n. 353/1990, e disciplinate con particolare cura degli aspetti pratici nei commi quarto e quinto del nuovo art. 183 del c.p.c. Nel nuovo rito penale, che pure dovrebbe realizzare il massimo dispiegamento del diritto alla prova (art. 2, punto 3, della legge- delega), tali esperienze, facilmente reperibili nel confronto con concrete tradizioni processual-lavoristiche, frutto di una eventuale ed organica elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, sono state completamente "dimenticate" dai compilatori del codice, i quali, nella relazione all'art. 519 cpv. del c.p.p., mostrano implicitamente, come si e' visto, di ritenere l'assoluta necessita' come unico parametro per, ad es., porre a confronto due testi discordanti. Ma, per quanto si e' sopra detto a proposito del rapporto tra artt. 468, 493 da un lato, e 507 dall'altro, tale interpretazione e' del tutto errata. La migliore dottrina ha ritenuto che il diritto alla prova sulle circostanze e con i mezzi divenuti ammissibili e rilevanti solo nel corso dell'istruzione sia disciplinato anch'esso dall'art. 190 del c.p.p., e quindi vada riconosciuto in limiti assai ampi: cosi', per rimanere all'esempio gia' fatto, la richiesta di una parte di un confronto tra persone gia' esaminate deve essere accolta, ogni qual volta il disaccordo riguardi circostanze non necessariamente "decisive", come avverrebbe se fosse valido il riferimento all'art. 507 del c.p.p., ma anche solo "importanti". Le considerazioni fin qui svolte sull'inesistenza nel nuovo rito penale, di un principio di preclusione spinto fino ai limiti del principio di eventualita', traggono alimento anche dal fatto che, ancor meno che nel processo civile o del lavoro, le parti del processo penale non partono da una piena e reale conoscenza dei fatti di causa, la quale potrebbe giustificare, al limite, il principio di eventualita'. Infatti il p.m. non conosce dei reati, tant'e' che deve disporre indagini sulla loro sussistenza e sui loro autori; la persona offesa di solito non sa di chi e' vittima (si pensi ad es. ad un furto in abitazione); l'imputato, essendo considerato non colpevole fino alla condanna definitiva, non puo' certo esser considerato, fino a tale condanna, come a conoscenza del fatto-reato. Questa considerazione introduce all'analisi di una delle argomentazioni che, secondo una dottrina, avrebbero tacitamente ispirato il legislatore al momento di formulare l'art. 519 cpv. del c.p.p. Puo' darsi cioe' che si sia ritenuto che il solo fatto della modifica o estensione della contestazione da parte del p.m. significhi l'avvenuta emersione, nel corso dell'istruttoria dibattimentale, di elementi di prova non semplicemente seri o gravi, ma proprio sufficienti a giustificare una condanna. Questa eventuale presupposizione del legislatore darebbe comunque troppo rigida, specie in relazione all'art. 516 del c.p.c.: basta ad esempio che la persona offesa dal furto riferisca per la prima volta un gesto di violenza subito, o che un testimone cambi parzialmente versione, perche' sussistono i presupposti per l'intevento ex art. 516 del c.p.p. Ma cio' non significa che la causa presenti tutti gli elementi di prova necessari per la nuova ipotesi; anzi, assai frequentemente le emergenze dibattimentali richiederanno un ampliamento di indagine-ampliamento che, nelle more dell'inizio del dibattimento, e' consentito ex art. 430 del c.p.p. al p.m., che pure gia' ha svolto (magari lunghe) indagini preliminari, e, assurdamente, al p.m. non e' piu' consentito dopo la nuova contestazione, atteso che tali indagini integrative, in relazione al tenore dell'art. 519 cpv. del c.p.p., non potrebbero mai sfociare in richieste di prova da parte del p.m. Inoltre, tale eventuale presupposizione del legislatore costituirebbe un implicito invito alla scorrettezza nei confronti del p.m., il quale anziche' muovere all'imputato la nuova contestazione non appena in possesso di elementi probatori minimamente seri, in tal modo ponendolo in condizione di subito validamente difendersi, dovrebbe pervicacemente cercare di strappare alle fonti di prova gia' ammesse tutti gli elementi idonei a provare pienamente le sue possibili accuse future: all'esito, fare la nuova contestazione, sapendo gia' di trovarsi di fronte un imputato "con le spalle al muro", perche' raggiunto da gravissimi elementi a suo carico ed in grado di richiedere prove solo ex art. 507 del c.p.p. Queste considerazioni generali hanno particolare significato nel presente processo, nel corso del quale il p.m. avendo evidentemente maturato un soggettivo sospetto in ordine al nuovo profilo di colpa, pose ad un paio di testi alcune domade idonee all'individuazione dell'orario di inizio dell'incendio. Una volta ottenute delle risposte, ritenute di conferma ai suoi sospetti, lo stesso p.m. procedette a contestazione ex art. 516 del c.p.p. Orbene, proprio vale modo di operare, estremamente rispettoso del diritto di difesa degli imputati, verrebbe sanzionato dalla negazione del diritto del p.m. alla prova, come prevista dell'art. 519 cpv. del c.p.p., mentre un accusatore che avesse continuato, imperterrito, a scavare sulle prove gia' ammesse, per acquisire ulteriori elementi in ordine al fatto nuovo (orario di inizio dell'incendio), non avrebbe da preoccuparsi dell'esistenza della norma criticata. Di tale norma la dottrina ha cercato di fornire interpretazioni idonee a ridurne l'irrazionalita': cosi' si e' sostenuto ad es. che la facolta', di richiedere prove solo ex art. 507 del c.p.p. e solo da parte dell'imputato, sussista quando l'imputato non chiede termini a difesa, mentre in caso contrario tutte le parti (anche la persona offesa) potrebbero dedurre prove ex art. 190 del c.p.p., oppure che e' assolutamente necessario tutto cio' che all'imputato sarebbe spettato se l'imputazione avesse avuto sin dall'inizio i connotati assunti in seguito. Tali interpretazioni non soltanto non eliminano la irrazionalita' della norma in esame, limitandosi soltanto a ridurla, ma soprattutto si pongono in contrasto insanabile con la lettera della norma, che non consente tali prospettazioni "sostanzialistiche". La lettera dell'art. 519 cpv. del c.p.p. seconda parte dice con chiarezza due cose, e due cose soltanto: a) in caso di nuove contestazioni, solo l'imputato puo' chiedere nuove prove; non il p.m., non la persona offesa dal fatto nuovo, neppure se gia' costituita parte civile per la contestazione iniziale; b) l'imputato puo' chiedere solo le prove assolutamente necessarie. Al contrario, in assenza di tale norma, i principi generali in tema di preclusione, come sopra analizzati, avrebbero consentito a tutte le parti di dedurre prove, in relazione alla nuova contestazione, negli ampi limiti di cui all'art. 190 del c.p.p., ed avvalendosi, in caso di termini a difesa richiesti dall'imputato, o comunque di specifica richiesta ad opera delle altre parti, del meccanismo di cui agli artt. 468 e 493 del c.p.p.; cio' che e' avvenuto nel presente processo, con le liste testi sull'orario di inizio di incendio, presentate da p.m. e difesa imputati. Quindi l'art. 519 cpv. sec. parte introduce una deroga ai principi generali in tema di diritto alla prova, che risulta manifestamente irrazionale e ingiustificata, e quindi contraria all'art. 3 della Costituzione. Ne' puo' trascurarsi che il punto 3) dell'art. 2 della legge- delega prevede il principio della parita' tra accusa e difesa, la cui violazione rileva quindi non solo ex art. 3 della Costituzione, ma anche ex art. 76, nel caso della nuova contestazione solo all'imputato e' riconosciuto un (modesto) diritto alla prova. La violazione di tale diritto, assai notevole per l'imputato, totale per le altre parti, non e' contraria soltanto all'art. 24 della Costituzione, ma anche all'art. 76 della Costituzione, tenuto conto dei punti 3) e 69) dell'art. 2 della legge n. 81/1987. Ne' puo' ritenersi che il diritto di difesa pertinente all'imputato ed alla persona offesa, sia estraneo alla posizione del p.m. Se questi e' parte non superiore alle altre, come vuole la legge-delega, deve avere diritti non inferiori alle altre; diversamente, verrebbe violato anche l'art. 97 della Costituzione, in quanto non vi sarebbe alcuna funzionalita' nell'amministrazione della giustizia, se chi ha l'obbligo di indagare e scoprire i reati non potesse fornire al giudice le prove raccolte con la sua attivita'. Infine, non puo' trascurarsi che il punto 78 dell'art. 2 della legge-delega stabilisce, in caso di nuove contestazioni, soltanto che debbono essere previste "adeguate garanzie per la difesa", senza affatto indicare un meccanismo restrittivo ed irrazionale come quello dell'art. 519 cpv., il quale, pertanto, anche per tale profilo e' contrario all'art. 76 della Costituzione. La intuitiva rilevanza della questione deriva dal fatto che la norma criticata impedirebbe di accogliere, nel caso di specie, le richieste probatorie del p.m., e' consentirebbe l'accoglimento di quelle degli imputati solo ex art. 507 del c.p.p.