Ricorso  per  la regione Emilia-Romagna, in persona del presidente
 della giunta regionale  pro-tempore,  autorizzato  con  deliberazione
 della  giunta  regionale  n. 2012 del 12 maggio 1992, rappresentata e
 difesa, come da mandato a margine, dall'avv. Giandomenico  Falcon  di
 Padova,  con  domicilio eletto in Roma presso l'avv. Luigi Manzi, via
 Confalonieri 5, contro il Presidente del Consiglio dei  Ministri  per
 la  dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale dell'art. 3 del
 d.-l. 30 aprile 1992, n. 274, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 191
 del 2 maggio 1992,  recante  "Differimento  di  termini  previsti  da
 disposizioni  legislative  ed  altre disposizioni urgenti", in quanto
 tale disposizione, stabilendo che "il termine massimo di  centottanta
 giorni  previsto  dall'art.  9,  secondo comma, del d.-l. 10 novembre
 1978, n. 702, convertito, con modificazioni, dalla  legge  8  gennaio
 1979, n. 3, deve considerarsi perentorio e la sua decorrenza comporta
 la  tacita  approvazione  dello  strumento  urbanistico  adottato con
 l'esame delle osservazioni da parte del  consiglio  comunale",  rende
 meramente   eventuale   l'esercizio   della  funzione  amministrativa
 regionale, in illegittima violazione degli  artt.  117  e  118  della
 Costituzione,  anche  in  collegamento  con l'art. 97, primo comma, e
 sotto diverso profilo, con l'art. 9, secondo comma, della stessa.
                               F A T T O
    L'art. 9 del d.-l. 10 novembre 1978, n. 702 (nel testo  risultante
 dalla  legge di conversione 8 gennaio 1979, n. 3) ha stabilito che il
 termine massimo entro il quale le regioni provvedono ad  approvare  i
 piani  regolatori  generali  dei  comuni "non puo' essere superiore a
 centottanta giorni".
    Prima  di tale disposizione, per l'approvazione degli stessi piani
 regolatori la competente autorita' disponeva di un anno: termine  che
 a  sua  volta  era  stato  introdotto (quale ultimo comma dell'art. 8
 della legge urbanistica), quando ancora  competente  all'approvazione
 era  il  Ministero  dei lavori pubblici, dalla legge "ponte" 6 agosto
 1967, n. 765.
    Sia il termine di centottanta giorni che il precedente di un  anno
 erano   pacificamente   considerati   di   carattere  ordinario:  ne'
 d'altronde avrebbe potuto essere altrimenti,  dato  che  in  mancanza
 dell'approvazione  regionale  il procedimento di formazione del piano
 sarebbe comunque stato monco, mancandone l'atto costitutivo. Come ben
 noto, infatti, era ed e' pacifico che l'approvazione regionale non ha
 natura  di  atto  di  controllo,  e  non  fa  parte  della  fase   di
 integrazione dell'efficacia, ma realizza (insieme con l'atto comunale
 di   adozione)   la   fase   costitutiva   del   provvedimento.  Piu'
 precisamente, secondo la consolidata ricostruzione  giurisprudenziale
 e dottrinale, i due atti compongono un atto complesso, nel quale anzi
 si  puo'  affermare  che  l'atto  regionale  ha  il ruolo preminente,
 essendo  stato  attribuito  all'autorita'  approvante  il  potere  di
 introdurre   determinate   modifiche   (tra   l'altro,  le  modifiche
 indispensabili per assicurare la protezione di determinate  categorie
 di   interessi   pubblici,   fra  cui  quelli  relativi  alla  tutela
 dell'ambiente: cfr. Cons. St., IV, 22 ottobre 1974, n. 668).
    L'art. 3 del d.-l. n. 274/1992, qui contestato, innova  la  natura
 del  termine  posto  dalla  disciplina  sopra  esposta, espressamente
 qualificandolo come  "perentorio".  Ma,  come  detto,  l'affermazione
 della  perentorieta' del termine sarebbe per se' priva di senso, dato
 che - in mancanza dell'atto costitutivo - il procedimento  rimarrebbe
 indefinitamente sospeso o interrotto.
    In  realta'  il centro focale della disposizione qui impugnata sta
 nella circostanza che essa collega al decorso del termine la  "tacita
 approvazione" dello strumento urbanistico adottato.
    Ma  tale  disposizione,  che  rende in realta' puramente eventuale
 l'esercizio della funzione amministrativa regionale, e' lesiva per la
 ricorrente regione e costituzionalmente illegittima per  le  seguenti
 ragioni.
                             D I R I T T O
    1.   -  Illegittimita'  costituzionale  della  sostituzione  della
 effetiva  volonta'  regionale  con   il   meccanismo   della   tacita
 approvazione.
    Come  detto  in narrativa, la sostanza dell'intervento legislativo
 statale  consiste  nell'aver  previsto  un  meccanismo   di   "tacita
 approvazione"  della  regione  del piano regolatore generale adottato
 dal comune.
    E' evidente che questo meccanismo, per la sua stessa natura, rende
 meramente eventuale l'esercizio della funzione amministrativa di  cui
 la  regione  e'  titolare:  infatti, essa sara' esercitata solo se la
 regione provvede entro il termine indicato, mentre nel  caso  opposto
 si realizza una mera finzione giuridica.
    Cio'  appare  costituzionalmente  illegittimo  sotto  due  diversi
 profili.  In  primo  luogo,  non  risulta  conforme   alla   garanzia
 costituzionale  della  funzione amministrativa regionale che lo Stato
 stabilisca  con  propria  disposizione  un  coattivo  significato  da
 attribuire al silenzio della regione.
    Va  sottolineato come tale meccanismo non solo e non tanto prevede
 che si prescinda dall'atto regionale (il che sarebbe gia'  ovviamente
 per  altro  verso  illegittimo)  ma addirittura pretende di costruire
 l'inerzia come un particolare contenuto della volonta'  regionale.  A
 questo modo, infatti, e' lo stesso Stato che in realta' "provvede" in
 luogo  della  regione,  indebitamente  assumendone le vesti. In altre
 parole la disposizione qui impugnata assurdamente imputa alla regione
 un  fittizio  provvedimento:  quel  provvedimento   che,   integrando
 l'adozione  comunale, e' necessario per realizzare nel suo insieme la
 fattispecie del piano regolatore.
    Ma cio' vi'ola l'art. 118, primo  comma,  della  Costituzione,  in
 relazione  al  carattere autenticamente (e non per mera fictio juris,
 come   nel   caso)   regionale    dell'esercizio    delle    funzioni
 amministrative:  per lo stesso motivo, vi'ola anche l'art. 117, primo
 comma, della Costituzione, in quanto  la  disposizione  lesiva  della
 Costituzione e' contenuta in un atto avente forza di legge.
    Sotto  un  secondo  profilo,  l'aver  reso  meramente eventuale il
 provvedimento regionale vi'ola la costituzione in  quanto  rende  con
 cio'  stesso meramente eventuale la tutela di quei valori legislativi
 e costituzionali, ai quali il provvedimento di approvazione del piano
 regolatore generale e' specificamente finalizzato.
    Si consideri che, secondo l'art. 10 della  legge  urbanistica,  la
 regione  ha il potere-dovere di introdurre nel piano, tra l'altro, le
 modifiche che siano necessarie per assicurare: il rispetto del  piano
 territoriale   di  coordinamento  (cioe',  in  pratica,  dei  livelli
 superiori  della   programmazione);   la   razionale   e   coordinata
 sistemazione delle opere e impianti di interesse statale e regionale;
 la  tutela  del  paesaggio  e  dei  complessi  storici,  monumentali,
 ambientali ed archeologici.
    E' agevole dunque osservare  come  il  meccanismo  introdotto  dal
 d.-l. n. 274/1992 comporti il carattere anch'esso meramente eventuale
 della  tutela  di  tali  valori, ed in particolare di quei valori che
 trovano un sintetico ma ineludibile punto di riferimento nell'art. 9,
 secondo comma, della Costituzione.
    2. - Illegittimita' costituzionale per irragionevolezza ed eccesso
 di potere legislativo.
    L'illegittimita' costituzionale della disposizione impugnata, gia'
 individuata  sotto  il  profilo  del  contenuto   specifico,   appare
 ulteriormente  illuminata  e  resa  evidente  da  un diverso punto di
 vista.
    Non puo' sfuggire infatti che il  decreto-legge  che  contiene  la
 disposizione  qui  in questione non riguarda affatto, in generale, la
 disciplina urbanistica, ma  e'  un  decreto  omnibus  che  variamente
 contiene,  come ricorda la sua stessa intitolazione, "differimento di
 termini previsti da disposizioni legislative  ed  altre  disposizioni
 urgenti".  Ed  in  effetti  il  testo contiene una congerie veramente
 impressionante  di  disposizioni  sugli  argomenti  piu'   disparati,
 accomunati  soltanto,  come  (tautologicamente)  recita  il preambolo
 dell'atto, dalla asserita "straordinaria  necessita'  ed  urgenza  di
 emanare  disposizioni concernenti il differimento di termini previsti
 da disposizioni legislative ed altre disposizioni urgenti".
    Ma  in  questo contesto normativo la disposizione impugnata appare
 illogica e costituzionalmente illegittima.
    Intanto essa diametralmente contrasta con quel "differimento"  dei
 termini  che  e'  l'unica ispirazione generale del decreto-legge: che
 anzi  appare  del  tutto  incongruo  che,  mentre  tutte   le   altre
 disposizioni  sui termini (artt. 1, 2, 4, 5, secondo comma, 7, 8, 10,
 19, 22, 27, 28 e 30) sono dedicate - in coerenza con  il  titolo  del
 decreto  -  al  differimento  di termini molto spesso gia' di per se'
 assai lunghi (si pensi solo ai termini per le occupazioni  d'urgenza,
 di  cui  all'art.  1), l'art. 3 inopinatamente e contraddittoriamente
 dichiari perentorio un termine, di per se' non certo  abbondante,  di
 centottanta giorni (si ricordi che tale termine era di un anno quando
 era  competente lo Stato)³ Il solo temine che viene ora abbreviato, o
 per  meglio  dire  imposto,  ex   novo   (essendo   prima   meramente
 ordinatorio)  e'  il  termine  dato alle regioni per provvedere su un
 atto di grande importanza, destinato a condizionare per anni la  vita
 e lo sviluppo urbanistico delle comunita' locali.
    D'altronde,  anche  se  considerata  quale una delle "disposizioni
 urgenti" che proprio in  quanto  tali  il  decreto  ha  raccolto,  la
 disposizione  dell'art.  3  non  appare  certo  meno irragionevole ed
 incongrua.
    Sembra evidente infatti che una simile sede, nella  quale  trovano
 disciplina  piu'  o  meno  precaria  gli  oggetti piu' disparati (per
 limitarsi ad esempi, l'approvazione dei piani regolatori accanto alle
 "sezioni staccate di Avellino e Salerno del provveditorato alle opere
 pubbliche della Campania",  alle  "sedi  di  servizio  dell'Arma  dei
 carabinieri",  agli interventi per la torre di Pisa, al consorzio del
 canale Milano-Cremona-Po, e vari altri) non costituisce certo la sede
 ed il modo adeguato per porre norme che  riguardano  quel  quadro  di
 "principi  fondamentali"  che  soltanto tocca allo Stato di stabilire
 nelle materie legislative regionali.
    La  ricorrente  regione   e'   ben   consapevole   che   l'attuale
 conformazione costituzionale del sistema delle fonti - che ancora non
 contiene  per  le  materie regionali l'auspicato livello della "legge
 organica",  gerarchicamente  intermedia  tra  la  Costituzione  e  la
 normale legge ordinaria - non consente di prospettare in via generale
 in  termini  di  illegittimita' la violazione del sistema organico da
 parte di disposizioni estemporanee contenute  in  un  qualsiasi  atto
 avente  forza  di  legge. Ma cio' non significa che non esistano gia'
 nell'attuale sistema principi costituzionali concernenti in  generale
 la potesta' legislativa ed in particolare la potesta' di legislazione
 di  principio  nelle  materie  regionali,  che conducono egualmente a
 prospettare in termini di illegittimita' costituzionale almeno i casi
 estremi di violazione di tali principi.
    Ed un caso estremo pare alla regione quello  in  discussione,  nel
 quale,  non  solo  nell'evidente  assenza di qualunque urgenza, ma in
 assenza di qualunque interesse nazionale plausibilmente immaginabile,
 un   atto   del   Governo   direttamente    dispone    dell'attivita'
 amministrativa  regionale,  con  un  intervento  privo  di  qualunque
 organicita' e di qualunque collegamento razionale  con  il  complesso
 della disciplina in materia di piani urbanistici.
    Un  intervento  di tal fatta non puo' considerarsi in sostanza che
 come un intervento arbitrario, compiuto in difformita' palese da quel
 principio di correttezza nei reciproci rapporti tra Stato  e  regione
 che,  ad avviso della ricorrente, non puo' non costituire, accanto ad
 altri  noti  principi  statuiti  da  codesta  ecc.ma  Corte,  uno dei
 pilastri  costituzionali  del  rapporto  tra   centro   e   autonomie
 regionali.
    Deve  ritenersi,  in  altre  parole,  che il Governo non possa, in
 assenza di un chiaro e cogente interesse nazionale,  a  suo  arbitrio
 disporre   dell'amministrazione   regionale,   in   modo   casuale  e
 frammentario,  all'interno  di  decreti  omnibus   come   quello   in
 questione.
    Codesta  eccellentissima Corte costituzionale, d'altronde, ha gia'
 avuto modo di affermare, tra gli  argomenti  capaci  di  comporre  il
 complessivo  giudizio  di illegittimita' costituzionale, la rilevanza
 del carattere estemporaneo o intruso di  una  disposizione:  cio'  ad
 esempio   quando,   in   relazione   al   giudizio   di  legittimita'
 costituzionale dell'art. 6 della legge 9  gennaio  1991,  n.  19,  ha
 stabilito  (sentenza  n.  227/1992) che la disposizione impugnata sia
 "per il suo oggetto" che  "per  la  sua  formulazione  testuale"  non
 poteva  ritenersi  collegata con le finalita' complessive della legge
 che  la  ospitava,  e  che  proprio   percio'   essa   si   risolveva
 nell'attribuzione  di  un  ingiustificato privilegio ad una specifica
 regione rispetto  alle  altre,  argomentando  "l'ingiustificatezza  e
 l'irragionevolezza"  della soluzione normativa in particolare dal suo
 essere "non coerente e comunque non necessaria rispetto  alla  stessa
 scelta di fondo della legge".
    Certo, una simile valutazione rimane difficile da compiere quanto,
 come  nel  caso in discussione, addirittura manchi qualunque "intento
 complessivo" e qualunque "scelta di fondo". Ma cio'  costituisce,  ci
 sembra,  non  giustificazione,  ma  argomento  ulteriore  per dedurne
 l'illegittimita' costituzionale di interventi  lesivi  dell'autonomia
 regionale.
    3.   -   Illegittimita'   costituzionale   per   l'assenza   nella
 disposizione impugnata del carattere di principio fondamentale  della
 materia.
    Sin  qui  si  e'  illustrata l'illegittimita' costituzionale della
 disposizione impugnata nel suo contenuto intrinseco e in collegamento
 con le modalita' proprie dell'invervento.
    Va ora considerato che  in  ogni  modo  tale  disposizione  appare
 illegittima  in quanto impone alle regioni una disciplina, alla quale
 non puo' riconoscersi il carattere di  principio  fondamentale  della
 materia.
    Pur  senza  nascondersi  che  la  determinazione  di  quali tra le
 disposizioni proprie  di  una  certa  materia  abbiano  carattere  di
 principio  puo'  presentare  margini  di difficolta', va osservato in
 primo luogo che la stessa  disposizione  non  si  autoqualifica  come
 principio  ma  piuttosto,  se  si guarda sia alla norma in se' che al
 corpo nella quale e' contenuta, essa  si  manifesta  sin  dall'inizio
 come intervento occasionale ed estemporaneo.
    Di  piu':  nella disposizione non appare nemmeno la consapevolezza
 di muoversi su un terreno proprio della  legislazione  regionale.  Al
 contrario,  in  essa  la  regione appare come se si trattasse in modo
 puro  e  semplice  di  una  delle  tante   autorita'   amministrative
 direttamente  soggette al potere normativo dello Stato: ed anche cio'
 lascia presumere che il Governo non intendesse porsi  sul  piano  dei
 principi  (peraltro  il solo piano che in astratto poteva legittimare
 il  suo intervento), e forse che neppure fosse consapevole di doverlo
 fare.
    Ma infine: e' lo stesso contenuto della disposizione che appare di
 modesto dettaglio se commisurato  a  quelli  che  realmente  sono  in
 principi  della  legislazione  statale  in  materia di pianificazione
 urbanistica. Ai principi potranno ricondursi l'esistenza  stessa  del
 piano   regolatore  generale,  le  regole  sulla  tipologia  del  suo
 contenuto, sul suo carattere di atto complesso a doppia approvazione,
 sui suoi effetti peculiari e caratteristici. Ma  sullo  stesso  piano
 non  puo' certo porsi una misura meramente acceleratoria quale quella
 qui disposta, l'operare o il non operare di un meccanismo di silenzio
 assenso nei rapporti tra amministrazioni.
    Meno ancora, poi, si dira' che possa costituire "principio"  della
 legislazione  statale,  vincolante  per  le regioni, la regola che il
 termine debba essere proprio di centottanta giorni, e non un  termine
 diverso.  Perche'  non  centonovanta, o duecento, o centosettanta? La
 verita' e' che  solo  la  regione,  nella  conoscenza  della  propria
 organizzazione   e   delle   proprie  procedure  (organo  competente,
 eventuali deleghe, personale e mezzi  a  disposizione  degli  uffici,
 ecc.)  puo' eventualmente stabilire un termine che possa considerarsi
 adeguato.
    Invece, la disposizione impugnata viene  a  coprire  di  un  manto
 uniforme la varieta' delle situazioni regionali, che costituiscono in
 quanto tali esclusivo oggetto del potere legislativo regionale.
    4.   -   Ulteriore  illegittimita'  costituzionale  in  quanto  la
 disposizione  direttamente  stabilisce  il  termine  per  la   tacita
 approvazione,  anziche' prescrivere alle regioni di prevederlo, anche
 in relazione alla propria organizzazione delle competenze.
    Come detto, l'art.  3  del  d.-l.  n.  274/92  nemmeno  mostra  la
 consapevolezza  di disporre in materia regionale: meno ancora dispone
 i suoi contenuti secondo la logica propria dei rapporti tra  potesta'
 legislativa statale e potesta' legislativa regionale.
    Non  e'  possibile disconoscere che - anche a voler ipotizzare che
 lo  Stato  possa  nei  casi  giustificati  da  un  cogente  interesse
 nazionale  (comunque  qui assente) imporre alle regioni un meccanismo
 di silenzio assenso - esso dovrebbe farlo non direttamente  statuendo
 questo meccanismo, ma piuttosto prescrivendo al legislatore regionale
 di  introdurlo  esso  stesso. In tale ipotesi, il "principio" di tale
 meccanismo vincolerebbe  il  legislatore  regionale,  che  rimarrebbe
 pero'  libero  di  modularne  le  modalita'  secondo  le esigenze del
 proprio ordinamento e della propria organizzazione.
    Insomma,  nella  loro  normalita'  e  per  la  stessa  natura  dei
 rispettivi  compiti,  i  rapporti  tra  livello legislativo statale e
 livello legislativo regionale non possono non essere improntati  allo
 spirito  che  di  recente, come e' noto, e' stato codificato in forma
 solenne e vincolante per la regione Trentino-Alto  Adige,  e  per  le
 province   autonome   in  essa  comprese,  dall'art.  2  del  decreto
 legislativo 16 marzo 1992, n. 266.
    In tale atto, i rapporti tra il  legislatore  regionale  e  quello
 statale  sono stati in generale (cioe' sia per la competenza primaria
 che per quella concorrente) impostati nei termini di  un  obbligo  di
 adeguamento  della  disciplina regionale ai vincoli imposti da quella
 statale, e non nei termini di una diretta sostituzione della  seconda
 alla prima.
    Ora,  benche'  i  meccanismi  specifici  in  cui  si  traduce tale
 principio nelle norme di  attuazione  per  la  regione  Trentino-Alto
 Adige  non  siano direttamente estensibili alle altre regioni, sembra
 evidente alla ricorrente che difetta qualunque ragione per  la  quale
 l'impostazione  generale dei rapporti tra i livelli legislativi possa
 essere, nei suoi principi primi, per queste differente.
    D'altronde,  si  e'  gia'  detto  come  anche  sul   piano   della
 ragionevolezza  e  del  buon  andamento  dell'amministrazione solo le
 regioni possano, con la lora autonoma  normazione,  dare  adeguata  e
 flessibile  attuazione  ai  principi della legge statale, e stabilire
 appropriate modalita' e termini.
    5. - Specifica illegittimita' costituzionale in relazione ai piani
 per i quali i termini  siano  gia'  scaduti  o  siano  nell'immediata
 prossimita' della scadenza.
    Si   noti,   aggiuntivamente,  che  il  meccanismo  della  diretta
 operativita' della normativa statale si rivela particolarmente rozzo,
 e fonte di  ulteriori  illegittimi  effetti  distorsivi,  proprio  in
 relazione  ad  un tipo di intervento quale quello qui considerato, di
 asserito carattere "urgente".
    Infatti,  la  diretta  statuizione  della  "tacita   approvazione"
 regionale  dopo centottanta giorni fa si' che, pe i piani per i quali
 tale scadenza fosse gia'  prossima  nel  momento  del  sopraggiungere
 della  nuova  disposizione,  o  addirittura  fosse  gia' decorsa, una
 tempestiva attivazione regionale nemmeno sia ipotizzabile.  Il  d.-l.
 n. 274/1992, in altre parole, rende in pratica direttamente efficaci,
 senza   nessun   possibile  intervento  regionale,  quei  piani  gia'
 presentati da  quasi  centottanta  giorni,  o  da  oltre  centottanta
 giorni.
    Cio'  significa  che  l'esercizio  della  funzione  amministrativa
 regionale, e  la  salvaguardia  degli  interessi  ai  quali  essa  e'
 preposta,  che  gia' nel sistema generale diviene solo eventuale, qui
 rimane addirittura radicalmente esclusa.
    Il carattere discriminatorio, arbritrario  ed  irrazionale  di  un
 simile  intervento, ed in definitiva la lesione del principio di buon
 andamento dell'amministrazione posto dall'art. 97, primo comma, della
 Costituzione e' qui particolarmente palese, e si  rivela  proprio  in
 relazione  e  quei  piu'  prossimi  effetti  "urgenti"  che  per  se'
 sarebbero propri dello strumento prescelto del decreto-legge.
    Ma  cio'  non  costituisce  che  un  aspetto   di   una   generale
 illegittimita', che crediamo gia' dimostrata nel suo insieme.
    6.  -  Illegittimita'  costituzionale  sotto  l'ulteriore  profilo
 dell'impossibilita' giuridica di operare  e  della  violazione  della
 certezza del diritto.
    Infine,  esiste  un  ulteriore  ragione per la quale il meccanismo
 disposto dal decreto-legge appare illegittimo: ed e' che  esso,  come
 disciplinato,  non e' - sul piano giuridico (e non solo sul piano del
 mero fatto) - suscettibile  di  funzionare,  per  le  caratteristiche
 stesse degli atti previsti dalla disciplina urbanistica.
    La   disposizione   impugnata  dispone  che  con  il  decorso  dei
 centottanta giorni si consideri tacitamente approvato  "lo  strumento
 urbanistico  adottato  con  l'esame  delle  osservazioni da parte del
 consiglio comunale". Ma questo "strumento urbanistico",  in  realta',
 non  esiste  affatto,  o  almeno  non esiste come un testo compiuto e
 definito.
    Si  consideri  infatti  che,  nella  stessa disciplina posta dalla
 legge urbanistica  statale  -  seguita  dalle  leggi  regionali  (per
 l'Emilia-Romagna l'art. 14 della legge regionale n. 47/1978) i comuni
 che  hanno adottato il piano hanno l'obbligo di "controdedurre" sulle
 osservazioni ad  essi  proposte.  Ad  alcune  essi  si  dichiareranno
 favorevoli,  ad  altre  contrarie. Ma in ogni caso essi non hanno ne'
 l'obbligo ne' il  compito  di  rideliberare  un  testo  definito,  in
 relazione alle osservazioni: a cio' provvede l'autorita' che approva:
 che  introduce  d'ufficio  le  modifiche  conseguenti ad osservazioni
 accettate dal comune, e propone  al  comune  stesso  eventuali  altre
 modifiche.
    D'altronde, le osservazioni stesse non sono certo redatte in forma
 articolata,  come  proposte  di modifica testuale: di conseguenza, e'
 impossibile ricavare un articolato compiuto dall'insieme composto dal
 testo adottato e dalle osservazioni accolte.
    In altre parole, e' solo il provvedimento di approvazione che  da'
 al  testo  la  sua  compiutezza,  sia  nella forma che nel contenuto,
 portando a sintesi complessiva cio' che e' stato acquisito nelle  di-
 verse fasi del procedimento.
    Si  comprende  da  quanto  ora  osservato che il testo che va alla
 regione per l'approvazione e' in realta' un testo in una certa misura
 indefinito, insuscettibile come tale di acquistare efficacia,  e  che
 l'atto  di  approvazione  deve necessariamente essere espresso, e non
 puo' essere sostituito da una approvazione tacita. Voler affermare il
 contrario contrasta con la realta' dei fatti, e genera  una  evidente
 ed  inaccettabile  incertezza  del diritto, di nuovo con lesione, tra
 l'altro, del principio di buon andamento dell'amministrazione.