Ricorso per la regione Emilia-Romagna, in persona del presidente della giunta regionale pro-tempore, autorizzato con deliberazione della giunta regionale n. 2012 del 12 maggio 1992, rappresentata e difesa, come da mandato a margine, dall'avv. Giandomenico Falcon di Padova, con domicilio eletto in Roma presso l'avv. Luigi Manzi, via Confalonieri 5, contro il Presidente del Consiglio dei Ministri per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'art. 3 del d.-l. 30 aprile 1992, n. 274, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 191 del 2 maggio 1992, recante "Differimento di termini previsti da disposizioni legislative ed altre disposizioni urgenti", in quanto tale disposizione, stabilendo che "il termine massimo di centottanta giorni previsto dall'art. 9, secondo comma, del d.-l. 10 novembre 1978, n. 702, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 gennaio 1979, n. 3, deve considerarsi perentorio e la sua decorrenza comporta la tacita approvazione dello strumento urbanistico adottato con l'esame delle osservazioni da parte del consiglio comunale", rende meramente eventuale l'esercizio della funzione amministrativa regionale, in illegittima violazione degli artt. 117 e 118 della Costituzione, anche in collegamento con l'art. 97, primo comma, e sotto diverso profilo, con l'art. 9, secondo comma, della stessa. F A T T O L'art. 9 del d.-l. 10 novembre 1978, n. 702 (nel testo risultante dalla legge di conversione 8 gennaio 1979, n. 3) ha stabilito che il termine massimo entro il quale le regioni provvedono ad approvare i piani regolatori generali dei comuni "non puo' essere superiore a centottanta giorni". Prima di tale disposizione, per l'approvazione degli stessi piani regolatori la competente autorita' disponeva di un anno: termine che a sua volta era stato introdotto (quale ultimo comma dell'art. 8 della legge urbanistica), quando ancora competente all'approvazione era il Ministero dei lavori pubblici, dalla legge "ponte" 6 agosto 1967, n. 765. Sia il termine di centottanta giorni che il precedente di un anno erano pacificamente considerati di carattere ordinario: ne' d'altronde avrebbe potuto essere altrimenti, dato che in mancanza dell'approvazione regionale il procedimento di formazione del piano sarebbe comunque stato monco, mancandone l'atto costitutivo. Come ben noto, infatti, era ed e' pacifico che l'approvazione regionale non ha natura di atto di controllo, e non fa parte della fase di integrazione dell'efficacia, ma realizza (insieme con l'atto comunale di adozione) la fase costitutiva del provvedimento. Piu' precisamente, secondo la consolidata ricostruzione giurisprudenziale e dottrinale, i due atti compongono un atto complesso, nel quale anzi si puo' affermare che l'atto regionale ha il ruolo preminente, essendo stato attribuito all'autorita' approvante il potere di introdurre determinate modifiche (tra l'altro, le modifiche indispensabili per assicurare la protezione di determinate categorie di interessi pubblici, fra cui quelli relativi alla tutela dell'ambiente: cfr. Cons. St., IV, 22 ottobre 1974, n. 668). L'art. 3 del d.-l. n. 274/1992, qui contestato, innova la natura del termine posto dalla disciplina sopra esposta, espressamente qualificandolo come "perentorio". Ma, come detto, l'affermazione della perentorieta' del termine sarebbe per se' priva di senso, dato che - in mancanza dell'atto costitutivo - il procedimento rimarrebbe indefinitamente sospeso o interrotto. In realta' il centro focale della disposizione qui impugnata sta nella circostanza che essa collega al decorso del termine la "tacita approvazione" dello strumento urbanistico adottato. Ma tale disposizione, che rende in realta' puramente eventuale l'esercizio della funzione amministrativa regionale, e' lesiva per la ricorrente regione e costituzionalmente illegittima per le seguenti ragioni. D I R I T T O 1. - Illegittimita' costituzionale della sostituzione della effetiva volonta' regionale con il meccanismo della tacita approvazione. Come detto in narrativa, la sostanza dell'intervento legislativo statale consiste nell'aver previsto un meccanismo di "tacita approvazione" della regione del piano regolatore generale adottato dal comune. E' evidente che questo meccanismo, per la sua stessa natura, rende meramente eventuale l'esercizio della funzione amministrativa di cui la regione e' titolare: infatti, essa sara' esercitata solo se la regione provvede entro il termine indicato, mentre nel caso opposto si realizza una mera finzione giuridica. Cio' appare costituzionalmente illegittimo sotto due diversi profili. In primo luogo, non risulta conforme alla garanzia costituzionale della funzione amministrativa regionale che lo Stato stabilisca con propria disposizione un coattivo significato da attribuire al silenzio della regione. Va sottolineato come tale meccanismo non solo e non tanto prevede che si prescinda dall'atto regionale (il che sarebbe gia' ovviamente per altro verso illegittimo) ma addirittura pretende di costruire l'inerzia come un particolare contenuto della volonta' regionale. A questo modo, infatti, e' lo stesso Stato che in realta' "provvede" in luogo della regione, indebitamente assumendone le vesti. In altre parole la disposizione qui impugnata assurdamente imputa alla regione un fittizio provvedimento: quel provvedimento che, integrando l'adozione comunale, e' necessario per realizzare nel suo insieme la fattispecie del piano regolatore. Ma cio' vi'ola l'art. 118, primo comma, della Costituzione, in relazione al carattere autenticamente (e non per mera fictio juris, come nel caso) regionale dell'esercizio delle funzioni amministrative: per lo stesso motivo, vi'ola anche l'art. 117, primo comma, della Costituzione, in quanto la disposizione lesiva della Costituzione e' contenuta in un atto avente forza di legge. Sotto un secondo profilo, l'aver reso meramente eventuale il provvedimento regionale vi'ola la costituzione in quanto rende con cio' stesso meramente eventuale la tutela di quei valori legislativi e costituzionali, ai quali il provvedimento di approvazione del piano regolatore generale e' specificamente finalizzato. Si consideri che, secondo l'art. 10 della legge urbanistica, la regione ha il potere-dovere di introdurre nel piano, tra l'altro, le modifiche che siano necessarie per assicurare: il rispetto del piano territoriale di coordinamento (cioe', in pratica, dei livelli superiori della programmazione); la razionale e coordinata sistemazione delle opere e impianti di interesse statale e regionale; la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici. E' agevole dunque osservare come il meccanismo introdotto dal d.-l. n. 274/1992 comporti il carattere anch'esso meramente eventuale della tutela di tali valori, ed in particolare di quei valori che trovano un sintetico ma ineludibile punto di riferimento nell'art. 9, secondo comma, della Costituzione. 2. - Illegittimita' costituzionale per irragionevolezza ed eccesso di potere legislativo. L'illegittimita' costituzionale della disposizione impugnata, gia' individuata sotto il profilo del contenuto specifico, appare ulteriormente illuminata e resa evidente da un diverso punto di vista. Non puo' sfuggire infatti che il decreto-legge che contiene la disposizione qui in questione non riguarda affatto, in generale, la disciplina urbanistica, ma e' un decreto omnibus che variamente contiene, come ricorda la sua stessa intitolazione, "differimento di termini previsti da disposizioni legislative ed altre disposizioni urgenti". Ed in effetti il testo contiene una congerie veramente impressionante di disposizioni sugli argomenti piu' disparati, accomunati soltanto, come (tautologicamente) recita il preambolo dell'atto, dalla asserita "straordinaria necessita' ed urgenza di emanare disposizioni concernenti il differimento di termini previsti da disposizioni legislative ed altre disposizioni urgenti". Ma in questo contesto normativo la disposizione impugnata appare illogica e costituzionalmente illegittima. Intanto essa diametralmente contrasta con quel "differimento" dei termini che e' l'unica ispirazione generale del decreto-legge: che anzi appare del tutto incongruo che, mentre tutte le altre disposizioni sui termini (artt. 1, 2, 4, 5, secondo comma, 7, 8, 10, 19, 22, 27, 28 e 30) sono dedicate - in coerenza con il titolo del decreto - al differimento di termini molto spesso gia' di per se' assai lunghi (si pensi solo ai termini per le occupazioni d'urgenza, di cui all'art. 1), l'art. 3 inopinatamente e contraddittoriamente dichiari perentorio un termine, di per se' non certo abbondante, di centottanta giorni (si ricordi che tale termine era di un anno quando era competente lo Stato)³ Il solo temine che viene ora abbreviato, o per meglio dire imposto, ex novo (essendo prima meramente ordinatorio) e' il termine dato alle regioni per provvedere su un atto di grande importanza, destinato a condizionare per anni la vita e lo sviluppo urbanistico delle comunita' locali. D'altronde, anche se considerata quale una delle "disposizioni urgenti" che proprio in quanto tali il decreto ha raccolto, la disposizione dell'art. 3 non appare certo meno irragionevole ed incongrua. Sembra evidente infatti che una simile sede, nella quale trovano disciplina piu' o meno precaria gli oggetti piu' disparati (per limitarsi ad esempi, l'approvazione dei piani regolatori accanto alle "sezioni staccate di Avellino e Salerno del provveditorato alle opere pubbliche della Campania", alle "sedi di servizio dell'Arma dei carabinieri", agli interventi per la torre di Pisa, al consorzio del canale Milano-Cremona-Po, e vari altri) non costituisce certo la sede ed il modo adeguato per porre norme che riguardano quel quadro di "principi fondamentali" che soltanto tocca allo Stato di stabilire nelle materie legislative regionali. La ricorrente regione e' ben consapevole che l'attuale conformazione costituzionale del sistema delle fonti - che ancora non contiene per le materie regionali l'auspicato livello della "legge organica", gerarchicamente intermedia tra la Costituzione e la normale legge ordinaria - non consente di prospettare in via generale in termini di illegittimita' la violazione del sistema organico da parte di disposizioni estemporanee contenute in un qualsiasi atto avente forza di legge. Ma cio' non significa che non esistano gia' nell'attuale sistema principi costituzionali concernenti in generale la potesta' legislativa ed in particolare la potesta' di legislazione di principio nelle materie regionali, che conducono egualmente a prospettare in termini di illegittimita' costituzionale almeno i casi estremi di violazione di tali principi. Ed un caso estremo pare alla regione quello in discussione, nel quale, non solo nell'evidente assenza di qualunque urgenza, ma in assenza di qualunque interesse nazionale plausibilmente immaginabile, un atto del Governo direttamente dispone dell'attivita' amministrativa regionale, con un intervento privo di qualunque organicita' e di qualunque collegamento razionale con il complesso della disciplina in materia di piani urbanistici. Un intervento di tal fatta non puo' considerarsi in sostanza che come un intervento arbitrario, compiuto in difformita' palese da quel principio di correttezza nei reciproci rapporti tra Stato e regione che, ad avviso della ricorrente, non puo' non costituire, accanto ad altri noti principi statuiti da codesta ecc.ma Corte, uno dei pilastri costituzionali del rapporto tra centro e autonomie regionali. Deve ritenersi, in altre parole, che il Governo non possa, in assenza di un chiaro e cogente interesse nazionale, a suo arbitrio disporre dell'amministrazione regionale, in modo casuale e frammentario, all'interno di decreti omnibus come quello in questione. Codesta eccellentissima Corte costituzionale, d'altronde, ha gia' avuto modo di affermare, tra gli argomenti capaci di comporre il complessivo giudizio di illegittimita' costituzionale, la rilevanza del carattere estemporaneo o intruso di una disposizione: cio' ad esempio quando, in relazione al giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 6 della legge 9 gennaio 1991, n. 19, ha stabilito (sentenza n. 227/1992) che la disposizione impugnata sia "per il suo oggetto" che "per la sua formulazione testuale" non poteva ritenersi collegata con le finalita' complessive della legge che la ospitava, e che proprio percio' essa si risolveva nell'attribuzione di un ingiustificato privilegio ad una specifica regione rispetto alle altre, argomentando "l'ingiustificatezza e l'irragionevolezza" della soluzione normativa in particolare dal suo essere "non coerente e comunque non necessaria rispetto alla stessa scelta di fondo della legge". Certo, una simile valutazione rimane difficile da compiere quanto, come nel caso in discussione, addirittura manchi qualunque "intento complessivo" e qualunque "scelta di fondo". Ma cio' costituisce, ci sembra, non giustificazione, ma argomento ulteriore per dedurne l'illegittimita' costituzionale di interventi lesivi dell'autonomia regionale. 3. - Illegittimita' costituzionale per l'assenza nella disposizione impugnata del carattere di principio fondamentale della materia. Sin qui si e' illustrata l'illegittimita' costituzionale della disposizione impugnata nel suo contenuto intrinseco e in collegamento con le modalita' proprie dell'invervento. Va ora considerato che in ogni modo tale disposizione appare illegittima in quanto impone alle regioni una disciplina, alla quale non puo' riconoscersi il carattere di principio fondamentale della materia. Pur senza nascondersi che la determinazione di quali tra le disposizioni proprie di una certa materia abbiano carattere di principio puo' presentare margini di difficolta', va osservato in primo luogo che la stessa disposizione non si autoqualifica come principio ma piuttosto, se si guarda sia alla norma in se' che al corpo nella quale e' contenuta, essa si manifesta sin dall'inizio come intervento occasionale ed estemporaneo. Di piu': nella disposizione non appare nemmeno la consapevolezza di muoversi su un terreno proprio della legislazione regionale. Al contrario, in essa la regione appare come se si trattasse in modo puro e semplice di una delle tante autorita' amministrative direttamente soggette al potere normativo dello Stato: ed anche cio' lascia presumere che il Governo non intendesse porsi sul piano dei principi (peraltro il solo piano che in astratto poteva legittimare il suo intervento), e forse che neppure fosse consapevole di doverlo fare. Ma infine: e' lo stesso contenuto della disposizione che appare di modesto dettaglio se commisurato a quelli che realmente sono in principi della legislazione statale in materia di pianificazione urbanistica. Ai principi potranno ricondursi l'esistenza stessa del piano regolatore generale, le regole sulla tipologia del suo contenuto, sul suo carattere di atto complesso a doppia approvazione, sui suoi effetti peculiari e caratteristici. Ma sullo stesso piano non puo' certo porsi una misura meramente acceleratoria quale quella qui disposta, l'operare o il non operare di un meccanismo di silenzio assenso nei rapporti tra amministrazioni. Meno ancora, poi, si dira' che possa costituire "principio" della legislazione statale, vincolante per le regioni, la regola che il termine debba essere proprio di centottanta giorni, e non un termine diverso. Perche' non centonovanta, o duecento, o centosettanta? La verita' e' che solo la regione, nella conoscenza della propria organizzazione e delle proprie procedure (organo competente, eventuali deleghe, personale e mezzi a disposizione degli uffici, ecc.) puo' eventualmente stabilire un termine che possa considerarsi adeguato. Invece, la disposizione impugnata viene a coprire di un manto uniforme la varieta' delle situazioni regionali, che costituiscono in quanto tali esclusivo oggetto del potere legislativo regionale. 4. - Ulteriore illegittimita' costituzionale in quanto la disposizione direttamente stabilisce il termine per la tacita approvazione, anziche' prescrivere alle regioni di prevederlo, anche in relazione alla propria organizzazione delle competenze. Come detto, l'art. 3 del d.-l. n. 274/92 nemmeno mostra la consapevolezza di disporre in materia regionale: meno ancora dispone i suoi contenuti secondo la logica propria dei rapporti tra potesta' legislativa statale e potesta' legislativa regionale. Non e' possibile disconoscere che - anche a voler ipotizzare che lo Stato possa nei casi giustificati da un cogente interesse nazionale (comunque qui assente) imporre alle regioni un meccanismo di silenzio assenso - esso dovrebbe farlo non direttamente statuendo questo meccanismo, ma piuttosto prescrivendo al legislatore regionale di introdurlo esso stesso. In tale ipotesi, il "principio" di tale meccanismo vincolerebbe il legislatore regionale, che rimarrebbe pero' libero di modularne le modalita' secondo le esigenze del proprio ordinamento e della propria organizzazione. Insomma, nella loro normalita' e per la stessa natura dei rispettivi compiti, i rapporti tra livello legislativo statale e livello legislativo regionale non possono non essere improntati allo spirito che di recente, come e' noto, e' stato codificato in forma solenne e vincolante per la regione Trentino-Alto Adige, e per le province autonome in essa comprese, dall'art. 2 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266. In tale atto, i rapporti tra il legislatore regionale e quello statale sono stati in generale (cioe' sia per la competenza primaria che per quella concorrente) impostati nei termini di un obbligo di adeguamento della disciplina regionale ai vincoli imposti da quella statale, e non nei termini di una diretta sostituzione della seconda alla prima. Ora, benche' i meccanismi specifici in cui si traduce tale principio nelle norme di attuazione per la regione Trentino-Alto Adige non siano direttamente estensibili alle altre regioni, sembra evidente alla ricorrente che difetta qualunque ragione per la quale l'impostazione generale dei rapporti tra i livelli legislativi possa essere, nei suoi principi primi, per queste differente. D'altronde, si e' gia' detto come anche sul piano della ragionevolezza e del buon andamento dell'amministrazione solo le regioni possano, con la lora autonoma normazione, dare adeguata e flessibile attuazione ai principi della legge statale, e stabilire appropriate modalita' e termini. 5. - Specifica illegittimita' costituzionale in relazione ai piani per i quali i termini siano gia' scaduti o siano nell'immediata prossimita' della scadenza. Si noti, aggiuntivamente, che il meccanismo della diretta operativita' della normativa statale si rivela particolarmente rozzo, e fonte di ulteriori illegittimi effetti distorsivi, proprio in relazione ad un tipo di intervento quale quello qui considerato, di asserito carattere "urgente". Infatti, la diretta statuizione della "tacita approvazione" regionale dopo centottanta giorni fa si' che, pe i piani per i quali tale scadenza fosse gia' prossima nel momento del sopraggiungere della nuova disposizione, o addirittura fosse gia' decorsa, una tempestiva attivazione regionale nemmeno sia ipotizzabile. Il d.-l. n. 274/1992, in altre parole, rende in pratica direttamente efficaci, senza nessun possibile intervento regionale, quei piani gia' presentati da quasi centottanta giorni, o da oltre centottanta giorni. Cio' significa che l'esercizio della funzione amministrativa regionale, e la salvaguardia degli interessi ai quali essa e' preposta, che gia' nel sistema generale diviene solo eventuale, qui rimane addirittura radicalmente esclusa. Il carattere discriminatorio, arbritrario ed irrazionale di un simile intervento, ed in definitiva la lesione del principio di buon andamento dell'amministrazione posto dall'art. 97, primo comma, della Costituzione e' qui particolarmente palese, e si rivela proprio in relazione e quei piu' prossimi effetti "urgenti" che per se' sarebbero propri dello strumento prescelto del decreto-legge. Ma cio' non costituisce che un aspetto di una generale illegittimita', che crediamo gia' dimostrata nel suo insieme. 6. - Illegittimita' costituzionale sotto l'ulteriore profilo dell'impossibilita' giuridica di operare e della violazione della certezza del diritto. Infine, esiste un ulteriore ragione per la quale il meccanismo disposto dal decreto-legge appare illegittimo: ed e' che esso, come disciplinato, non e' - sul piano giuridico (e non solo sul piano del mero fatto) - suscettibile di funzionare, per le caratteristiche stesse degli atti previsti dalla disciplina urbanistica. La disposizione impugnata dispone che con il decorso dei centottanta giorni si consideri tacitamente approvato "lo strumento urbanistico adottato con l'esame delle osservazioni da parte del consiglio comunale". Ma questo "strumento urbanistico", in realta', non esiste affatto, o almeno non esiste come un testo compiuto e definito. Si consideri infatti che, nella stessa disciplina posta dalla legge urbanistica statale - seguita dalle leggi regionali (per l'Emilia-Romagna l'art. 14 della legge regionale n. 47/1978) i comuni che hanno adottato il piano hanno l'obbligo di "controdedurre" sulle osservazioni ad essi proposte. Ad alcune essi si dichiareranno favorevoli, ad altre contrarie. Ma in ogni caso essi non hanno ne' l'obbligo ne' il compito di rideliberare un testo definito, in relazione alle osservazioni: a cio' provvede l'autorita' che approva: che introduce d'ufficio le modifiche conseguenti ad osservazioni accettate dal comune, e propone al comune stesso eventuali altre modifiche. D'altronde, le osservazioni stesse non sono certo redatte in forma articolata, come proposte di modifica testuale: di conseguenza, e' impossibile ricavare un articolato compiuto dall'insieme composto dal testo adottato e dalle osservazioni accolte. In altre parole, e' solo il provvedimento di approvazione che da' al testo la sua compiutezza, sia nella forma che nel contenuto, portando a sintesi complessiva cio' che e' stato acquisito nelle di- verse fasi del procedimento. Si comprende da quanto ora osservato che il testo che va alla regione per l'approvazione e' in realta' un testo in una certa misura indefinito, insuscettibile come tale di acquistare efficacia, e che l'atto di approvazione deve necessariamente essere espresso, e non puo' essere sostituito da una approvazione tacita. Voler affermare il contrario contrasta con la realta' dei fatti, e genera una evidente ed inaccettabile incertezza del diritto, di nuovo con lesione, tra l'altro, del principio di buon andamento dell'amministrazione.