IL PRETORE
    Visti gli atti del procedimento penale n. 64 del registro generale
 affari penali dell'anno 1992;
    Osserva in fatto ed in diritto quanto segue.
    1) Introduzione.
    A  seguito  di  indagini  preliminari il p.m. rinviava a giudizio,
 dinanzi a questo pretore, Torri Alberto per rispondere del reato p. e
 p. dall'art. 589  del  c.p.  per  avere  cagionato,  per  eccesso  di
 velocita', la morte della velocipede Falconi Silvia.
   Le parti offese venivano citate ex art. 558/2 del c.p.p..
    In  data  15  gennaio  1992 le parti offese depositavano una lista
 testimoniale e all'udienza del 17 gennaio 1992 si costituivano  parte
 civile.  Alla medesima udienza il difensore dell'imputato eccepiva ex
 art. 79/3 del c.c.p. la tardivita' dell'istanza istruttoria suddetta.
 Questo pretore provvedeva con la presente ordinanza  dandone  lettura
 in udienza.
    Onde  comprendere  il  thema  decidendum,  su  cui  si  chiede  la
 pronuncia della Corte, e' opportuna l'analisi, per la parte  che  qui
 interessa, dell'attuale sistema normativo introdotto con il d.P.R. n.
 447/1988.  Come  e'  noto,  nei  giudizi  di  competenza del pretore,
 instaurati a seguito di rinvio a giudizio da parte del p.m. (come nel
 caso di specie) la  citazione  della  parte  offesa  e'  disciplinata
 dall'art.  558/2z  del  c.c.p. il quale prevede la semplice citazione
 "almeno 5 giorni prima della data di udienza indicata nel decreto  di
 citazione".  Il  contenuto  della  suddetta  citazione  e'  delineato
 dall'art. 142 del d.  lgs.  n.  271/1989  (che  si  fa  rilevare  non
 contiene   alcuna   descrizione  del  fatto  concreto  per  il  quale
 l'imputato e' stato tratto a giudizio).
    Mentre, sempre  in  tal  caso,  all'imputato  va  notificato,  nei
 termini di cui all'art. 555/3, il decreto di citazione a giudizio.
    Con  il presente provvedimento viene impugnato proprio il disposto
 degli artt. 555/3 e 558/2 del c.p.p., in relazione degli artt. 3 e 24
 della Costituzione nella parte in cui non prevedono:
       a) che  alla  parte  offesa  venga  notificato  il  decreto  di
 citazione;
       b)  che  anche  la  parte  offesa,  decorrano termini minimi di
 comparizione di giorni 45.
    2) Sulla non manifesta infondatezza.
    La questione, come sopra delineata, a parere di questo  giudicante
 non e' manifestatamente infondata.
    E'  opportuno  preliminarmente,  evidenziare  l'assetto  normativo
 costituzionale, parametro di valutazione delle norme impugnate.
    Come e' noto l'art. 3 della Costituzione impone, per la parte  che
 qui  interessa,  identita'  di  disciplina normativa per identita' di
 situazioni disciplinate (cfr.  Corte  costituzionale  del  25  giugno
 1981, n. 111).
    L'art.  24  della Costituzione (peraltro anch'esso espressione del
 piu' generale principio di uguaglianza) impone ed esige che qualunque
 sia la forma di tutela del  proprio  diritto  scelta,  da  essa,  non
 possono  derivare  delle  deminutio  sostanziali  alla tutela stessa.
 Particolare aspetto di essa risulta  essere  il  diritto  alla  prova
 (cfr.  Corte  costituzionale  22  marzo 1971, n. 55) fondamentale per
 poter adeguatamente sostenere in giudizio le proprie domande.
    E'  ovvio  che  limitazioni  a tale diritto alla difesa, cosi come
 connotato dall'art. 24 della Costituzione, sono non solo inevitabili,
 ma anche legittime (cfr. Corte costituzionale 5 luglio 1973, n. 106),
 proprio in riferimento a termini processuali perentori); cio' rientra
 nella  logica:  il  processo  e'  attivita'  disciplinata,  per   cui
 l'esercizio  del  diritto,  in  quanto si estrinsechi in azioni, deve
 necessariamente svolgersi secondo i "binari"  tracciati  dalle  norme
 processuali.   Ma   e'  del  pari  ovvio  che  qualunque  limitazione
 sostanziale,   non   obiettivamente   giustificata   dalle   esigenze
 processuali, sarebbe, comunque, per cio' stesso, illeggitima.
    Orbene,  cio'  premesso,  e  delineati in tali termini i parametri
 costituzionali di riferimento, si puo' ora passare a trattare il caso
 di specie.
    Analiticamente, in ordine alla questione sub 1) le norme impugnate
 violano l'art. 3 della Costituzione. Invero  va  evidenziato  che  ex
 artt.  429/4, 456 e 464 del c.p.p. (questi ultimi applicabili anche a
 giudizi innanzi al pretore) il decreto di citazione emesso dal g.u.p.
 o dal g.i.p. va notificato alla parte offesa,  mentre  quello  emesso
 dal  p.m.  per giudizi immediati dinanzi al pretore non va notificato
 alla suddetta parte sulla base  del  contemporaneo  disposto  appunto
 degli artt. 555/3 e 558/2.
    Tale diversita' di disciplina ridonda in disparita' di trattamento
 per la parte offesa. Invero pur in presenza di atti strutturalmente e
 diacronicamente  identici  (quali  indubbiamente  sono  i  decreti di
 citazione emessi da g.i.p. o dal p.m.)   - atteso che  sono  entrambi
 diretti ad evocare in giudizio lo imputato e a contestare a questi il
 fatto  concreto sul quale dovra' essere giudicato - il legislatore ha
 connotato in modo diverso il correlato diritto della parte offesa  ad
 essere  avvisata  del  dibattimento;  nel  primo  caso  prevedendo la
 notifica del decreto di citazione, nel secondo semplicemente  con  la
 citazione.  Tali disparita' di trattamento e' ancor piu' evidente ove
 si ponga mente che essa, in funzione di una scelta  di  rito  operata
 discrezionalmente   ed  insindacabilmente  dal  titolare  dell'azione
 penale; per comprendere cio' puo' essere di pregio un  esempio.  Cosi
 ove  il  p.m.  ritenga  di  richiedere  per  un'episodio configurante
 ipotesi criminosa di cui all'art. 590  del  c.p.  un  decreto  penale
 (cosa  astrattamente  possibile atteso che il reato in questione puo'
 essere punito con  la  sola  pena  pecuniaria)  e  l'imputato  faccia
 opposizione  il  relativo  decreto di citazione a giudizio emesso dal
 g.i.p.  va  notificato  anche  alla  parte  offesa;   "a   contrario"
 nell'ipotesi  in  cui il p.m. rinvii a giudizio, per lo stesso fatto,
 direttamente dinanzi  al  pretore  competente,  la  parte  offesa  ha
 semplicemente  diritto  ad  essere citata ex art. 558/2 del c.p.p. Si
 deduce da tutto cio' che la connotazione di  un  diritto  processuale
 (quale  indubbiamente  e'  il  diritto  della  parte offesa ad essere
 informata compiutamente sui fatti di cui e' causa onde consentirle di
 esercitare in concreto ed adeguatamente i poteri riconosciutele dalla
 legge) della parte offesa e' subordinata  ad  una  scelta  del  p.m.,
 giova ribadire, insindacabile.
    Cio' dimostra, vieppiu', la arbitrarieta' della disciplina dettata
 dalle  norme qui impugnate. Ma vi e' di piu'. Mentre il provvedimento
 emesso ex art. 429 del  c.p.p.  viene  pronunciato  in  contraditorio
 delle  parti (anche della parte offesa ex art. 419, la quale, quindi,
 e'  completamente  informata anteriormente al dibattimento ed in sede
 di udienza  preliminare  dei  fatti  potenzialmente  lesivi  del  suo
 diritto nonche' delle indagini fino ad allora espletate dal p.m.), il
 provvedimento  emesso  ex  art.  555  del  c.p.p., nonostante che sia
 pronunciato "inaudita  altera  parte",  non  e'  notificato;  con  la
 conseguenza che, astrattamente, in tal caso, la parte offesa potrebbe
 essere  a conoscenza dei fatti concreti potenzialmente lesivi del suo
 diritto solo cinque  giorni  prima  del  dibattimento  (ritenendo  la
 relativa  citazione ex artt. 558/2 del c.p.p. come atto che autorizza
 la  parte  ad  estrarre  copia   degli   atti   del   fascicolo   del
 dibattimento).
    Tali  disparita'  di  trattamento,  dopo  quanto  detto  sopra, e'
 evidente che viene ad incidere sulla posizione della parte offesa  la
 quale,   in   caso  di  decreto  di  citazione  emesso  da  g.i.p  e'
 tempestivamente e  compiutamente  a  conoscenza  dei  fatti  sin  "ab
 origine"  mentre  nel caso di decreto emesso dal p.m. tale conoscenza
 e' posticipata a 5 giorni prima del dibattimento.
    Si deve, quindi, concludere e ribadire che gli artt. 555/3 e 558/2
 del c.p.p. nei  limiti  in  cui  non  prevedano  che  il  decreto  di
 citazione  venga  notificato  anche  alla  parte offesa, realizza, se
 posti in relazione alle correlate norme di cui agli artt. 429/4,  456
 e  464 del c.p.p., una disparita' di trattamento irragionevole tra le
 parti offese citate a giudizio dal p.m.; e come tale  essa  configura
 una  violazione  al precetto di cui all'art. 3 della Costituzione che
 impone, sul punto, un adeguamento dalla prima alla seconda.
    3) ..Segue.
    Piu' complesso e' il discorso in merito  alla  prospettazione  sub
 1/B.
    A  tal  fine  e'  necessario  "in  limine",  per  la parte che qui
 interessa, enucleare l'assetto normativo nel quale si inquadra l'atto
 di costituzione di parte civile ex art. 74 del c.p.p..
    La funzione  del  suddetto  atto,  come  e'  noto,  e'  quella  di
 consentire  alla parte offesa del fatto-reato di richiedere, ai sensi
 degli artt. 1218 e 2043 e segg. del codice  civile,  il  risarcimento
 dei  danni,  da  esso  conseguenti.  Dogmaticamente  esso costituisce
 estrinsecazione del piu' generale diritto  alla  difesa  atteso  che,
 appunto,  l'azione  per  la tutela del diritto, con il suddetto atto,
 viene realizzata nel processo penale. Tale atto, poi, va inquadrato e
 sistematicamente collegato col disposto  degli  artt.  76  e  79  del
 c.p.p. dai quali si evince che, nei giudizi pretorili (atteso che ivi
 non   e'  prevista  l'udienza  preliminare),  la  Costituzione,  puo'
 avvenire solo dopo che il p.m. abbia esercitato, con la notifica  del
 decreto   di   citazione   a   giudizio,   l'azione  penale  e  prima
 dell'apertura del dibattimento. In coerenza  poi,  con  tale  assetto
 normativo,  il  legislastore  ha  statuito che, mentre la sentenza di
 proscioglimento del g.i.p. non fa stato nel giudizio  civile,  quella
 dibattimentale  di  merito  ha  tale  efficacia  (almeno  per  quanto
 afferisce all'an debeatur) ex artt. 651 e 652 del c.p.p..
    E' in tale quadro  normativo  che  va  letto  ed  interpretato  il
 disposto  dell'art. 558/2; esso, nelle intenzioni del legislatore, ha
 la funzione di rendere edotta la parte offesa dal rinvio  a  giudizio
 dell'imputato   onde  consentirle  di  esercitare  i  poteri  di  cui
 all'art.74 del c.p.p..
    Orbene,  col  presente  provvedimento,  viene impugnata proprio la
 suddetta norma.  E'  evidente  che  tale  giudizio  non  riguarda  la
 congruita'  del  termine  ivi  fissato;  invero  cio'  rientra  nella
 discrezionalita' del legislatore. Invece il  suddetto  termine  viene
 impugnato   sotto   una   diversa   prospettiva:   la  disparita'  di
 trattamento, tra il termine  minimo  di  comparizione  concesso  allo
 imputato  ex  art.  555/3  (45 gg.) e quello concesso, dalla suddetta
 norma, alla parte offesa-parte civile (5gg.).
    Sul punto, giova ribadire, una volta prevista la  possibilita'  di
 esercitare   l'azione   civile  nel  processo  penale  ed  una  volta
 attribuita alla sentenza di merito efficacia di  cosa  giudicata  nel
 processo    civile   (subordinando,   questa,   esclusivamente   allo
 adempimento al precetto di cui all'art. 558/2 del c.p.p.), alla parte
 offesa, ex art.  24  della  Costituzione,  vanno  concesse  tutte  le
 possibilita' difensive che vengono riconosciute all'imputato. Invero,
 nel  momento  in  cui  la  parte  offesa si costituisce parte civile,
 propone  ex  art.    99  del  c.p.p.  una   domanda   nei   confronti
 dell'imputato; e' evidente e conseguenziale, allora, che in forza del
 principio del contraddittorio tipico principio del processo civile (e
 comunque  non  ultroneo  a quello penale) costituente espressione del
 piu' generale diritto alla difesa, la parte offesa-parte civile debba
 avere, una volta avuto compiutamente conoscenza dei fatti  sui  quali
 l'imputato  deve  rispondere,  fatti  potenzialmente  lesivi  del suo
 diritto,  lo  stesso  tempo  concesso  a  questi  per   preparare   e
 adeguatamente  sostenere  le  sue domande civili nel processo penale.
 Cio' e' imposto non solo dall'art. 3 della Costituzione, ma anche dal
 successivo art.  24.
    Cio' e' ancora piu' vero ove si ponga mente che, nel caso  in  cui
 il  p.m.  abbia rinviato a giudizio l'imputato ai sensi dell'art. 555
 del c.p.p.,  la  parte  offesa-parte  civile,  al  fine  di  tutelare
 adeguatamente  il suo diritto potenzialmente leso dal fatto-reato, ha
 una sola via: quella  di  esercitare  l'azione  civile  nel  processo
 penale  atteso  che, nel nostro sistema normativo, la sentenza penale
 fa comunque stato  nel  processo  civile  nonche'  il  fatto  che  la
 pendenza  di quello impone la sospensione di questo. Se cio' e' vero,
 allora, la parte civile non puo' e non deve subire ex art.  24  della
 Costituzione  dalla  scelta  operata  (appunto  perche' essa e' quasi
 imposta), delle deminutio rispetto  alla  tutela  civile  (ovviamente
 cio'  compatibilmente  con  la  struttura e la finalita' del processo
 penale);  quindi  deve  avere  le  stesse  possibilita'  di  partenza
 dell'imputato, sua controparte. Cio' impone ed esige, ex artt. 3 e 24
 della  Costituzione  che  essa  abbia quanto meno, gli stessi termini
 minimi di comparizione dell'imputato;  termini  la  cui  funzione  e'
 proprio  quella  di consentire una adeguata e reciproca difesa tra le
 due parti (parte civile-attore e imputato-convenuto).
    E' il caso di far rilevare che una tale estensione  non  e'  certo
 incompatibile con la struttura e la finalita' del processo penale.
    Un'ultima osservazione si impone per corroborare la prospettazione
 qui proposta.
    Come  e'  noto  anche  nel nuovo processo penale pretorile vige il
 principio iudex debet iudicare secundum probata et allegata  partium.
 Orbene  se  tale  principio  viene  calato  nel  sistema dell'attuale
 processo si deve concludere che, mentre l'imputato ha sostanzialmente
 45 gg. di tempo per cercare e trovare prove  a  discarico,  la  parte
 offesa-parte  civile,  stante  il  contemporaneo disposto degli artt.
 558/2 e 79/3 del c.p.p., ne potrebbe avere in  astratto  solo  5.  E'
 evidente  allora  che  la  norma  qui  impugnata  viene  a creare una
 disparita' di trattamento in ordine al concreto esercizio del diritto
 alla prova; cio' costituisce indubbiamente una violazione al precetto
 di cui agli artt. 3 e 24 della Costituzione.
    Quindi si deve concludere e ribadire  che  la  parte  offesa-parte
 civile  deve  avere  ex  artt.  3  e 24 della Costituzione gli stessi
 termini minimi di comparizione che il sistema consente  ed  impone  a
 favore dell'imputato (che ex art. 555/3 sono di 45 gg.).
    4) Conclusioni.
    Da  tutto  cio'  si  deve  quindi  concludere che l'art. 558/2 del
 c.p.p. e' incostituzionale per violazione degli artt. 3  e  24  della
 Costituzione;  mentre l'art. 555/3 del c.p.p. lo e' nei limiti in cui
 non preveda che alla parte offesa non venga notificato il decreto  di
 citazione  a  giudizio  negli  stessi  termini  minimi  previsti  per
 l'imputato.
    E'  evidente  che  le  due  prospettazioni  sono  solo  in   parte
 logicamente  connesse. Invero e' evidente che solo con l'accoglimento
 di entrambe,  a  parere  di  questo  giudicante,  il  sistema  appare
 omogeneo  con  le forme Costituzionali; ma ovviamente sono possibili,
 da  parte  della  suprema   Corte,   anche   soluzioni   alternative;
 analiticamente  si  puo'  ritenere  infondata  la  prima  questione e
 fondata la seconda, modificando cosi (con sentenza additiva) il 558/2
 del c.p.p. sostituendo ai 5 gg. ivi previsti, i 45 gg. che  sarebbero
 i termini minimi di comparizione fissati a favore dell'imputato. Cio'
 viene detto onde evitare equivoci.
    5) Sulla rilevanza della questione.
    La  questione come sopra esposta, e' rilevante ai fini di decidere
 il caso di specie. Invero ove la  Corte  ritenesse  di  aderire  alle
 prospettazioni  di questo pretore, il decreto di citazione a giudizio
 emesso nel procedimento del de quo sarebbe nullo ai sensi degli artt.
 178  lett.  c)  e  180  del  c.p.p.;  si   imporrebbero,   cosi',   i
 provvedimenti  conseguenziali.  A  confutare  cio' non puo' essere di
 pregio l'eventuale osservazione che sulla base del  principio  tempus
 regit  actum,  il  decreto  di  citazione de quo al momento in cui e'
 stato  emesso,  era  legittimo  ed  il  rapporto  processuale  si  e'
 validamente  costituito; con la logica conseguenza che, cio' non puo'
 venire meno sulla base della sentenza della Corte costituzionale,  la
 quale, quindi, non avrebbe alcun rilievo pratico nel processo de quo.
 Tale  prospettazione  e'  infondata  atteso  che,  come  e'  noto, la
 sentenza della Corte costituzionale e' una  sostanziale  sentenza  di
 annullamento   e   quindi   deve   necessariamente   avere  efficacia
 retroattiva e i suoi  effetti  non  possono  essere  limitati  da  un
 principio,  come  quello  suddetto,  afferenti a tutta altra ipotesi,
 quale quella della abrogazione di una  norma  ad  opera  di  un'altra
 norma.
   Il  altri termini le norme qui impugnate, ove la Corte ritenesse di
 aderire alle prospettazioni di questo Pretore, sono invalide  sin  ab
 origine, per cui non possono e non debbono legittimare la validita' e
 l'efficacia  degli  atti posti in essere sulla base di esse; i quali,
 quindi andrebbero valutati  alla  luce  dell'art.  555/3  del  c.p.p.
 secondo la lettura qui proposta.
    Si  deve  quindi ribadire e concludere che la questione come sopra
 prospettata, e' indubbiamente rilevante ai fini del decidere il  caso
 di specie.