IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA
    Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento  relativo  a
 Perucchini  Luigi  nato  a  Bergamo  il  27  marzo  1939, residente a
 Bergamo, via Corridoni n. 87/E, detenuto nella casa circondariale  di
 Bergamo, semilibero, avente per oggetto: proposta revoca semiliberta'
 concessa  con  ordinanza  19  marzo 1991 Tribunale di sorveglianza di
 Brescia, in relazione alla sentenza 23 ottobre 1985 corte di  appello
 di  Milano,  anni  diciannove  reclusione per articolo 630 del codice
 penale ed altro (ord. carc. n. 100/87, del  28  luglio  1987  procura
 generale di Milano).
   Con  ordinanza  in data 4 agosto 1992 questo tribunale ha osservato
 quanto segue: "Il secondo comma dell'art. 15 del citato decreto-legge
 dispone che nei confronti di soggetti che fruiscono di misure,  anche
 in  parte  extramurali,  l'autorita'  di  polizia  "ove  lo  ritenga"
 comunica alla magistratura di sorveglianza che  gli  stessi  "non  si
 trovano   nelle   condizioni   per  l'applicazione  dell'art.  58-ter
 ordinamento penitenziario", nel quale caso "il tribunale  ..  dispone
 la revoca della misura alternativa ..".
    La  suddetta  norma  appare,  innanzitutto, fortemente sospetta di
 incostituzionalita' ed il tribunale si  riserva  a  tempo  debito  di
 esaminare  a fondo la questione, che per un verso viola gli artt. 3 e
 27 della Costituzione e per l'altro  l'autonomia  e  la  indipendenza
 della magistratura, che agisce in sede giurisdizionale.
    In  ogni  caso,  allo  stato,  non e' possibile decidere in ordine
 all'accertamento se il soggetto si trovi o meno nelle condizioni  per
 l'applicazione  dell'art.  58-ter. Cio' viene affermato semplicemente
 dalle ff.oo. e contestato dall'interessato.
    E' questo tribunale, che con separato procedimento giurisdizionale
 ai  sensi  dell'art.  666  del  c.p.p.,  in  contraddittoria,  dovra'
 accertare in piena autonomia, sentito il p.m.:
       a)  se  effettivamente il condannato non versi nelle condizioni
 per l'applicazione dell'art. 58-ter, a causa di sua  condotta,  anche
 recente, non nota alle ff.oo.;
       b)  se  il  condannato  si  trovi nelle condizioni di oggettiva
 impossibilita'  di  realizzare  una   delle   condizioni   che   sono
 tassativamente  indicate nell'art. 58-ter, primo comma, ultima parte,
 dell'ordinamentopenitenziario.
    Altra interpretazione della norma succitata, non  pare  possibile.
 Delle  due  l'una:  o  il  decreto-legge ha inteso ope legis revocare
 tutte le misure nei confronti di condannati per certi, gravi reati ed
 allora qualsiasi intervento dell'organo  giurisdizionale  appare  del
 tutto  superfluo  (ma cio' sembra smentito dalla lettera del decreto-
 legge),  oppure  la  revoca  non  puo'  che  seguire   (fatta   salva
 l'incostituzionalita'   della   norma   retroattiva  nel  caso  fosse
 ratificata  dal  Parlamento  nel  termine  di  sessanta  giorni)   un
 accertamento,  complesso,  giurisdizionale di esclusiva competenza di
 questo tribunale, sentito anche il p.m. "presso il giudice competente
 per i reati in ordine ai quali e' stata prestata la collaborazione".
    Il collegio, comunque, non puo'  esimersi  dall'osservare  che  il
 d.l.   n.   306/1992   e'  stato  emanato  allo  scopo  di  adottare
 "provvedimenti di contrasto contro la criminalita' mafiosa".
    Non necessariamente tutti gli autori dei reati di cui  alla  prima
 parte  dell'attuale  art.  4-bis,  primo  comma, hanno appartenuto od
 appartengono attualmente alla criminalita'  suddetta  (si  pensi,  in
 particolare,  agli autori di reato di sequestro di persona a scopo di
 estorsione commessi nell'ambito del mero concorso di persona).
    Di conseguenza, non sembra condivisibile la decisione del  Governo
 che  prescinde  da  tutto  cio'  e  comunque  dalla attuale, regolare
 condotta  del  condannato  e   comporta   conseguenze   pesantissime,
 indifferenziate su tutti i condannati per i reati suddetti, della cui
 gravita' pur nessuno dubita.
    Molti tribunali di sorveglianza si sono gia' pronunciati nel senso
 di ritenere non infondata la questione di costituzionalita' dell'art.
 15  del  d.l.  Anche per tale verso, il collegio ritiene - in attesa
 comunque delle definitive decisioni del Parlamento - di  disporre  la
 sospensione  della procedura (si veda tribunale sorveglianza Cagliari
 n. 973/92 del 2 luglio 1992).
    (Omissis).
    Il tribunale, di conseguenza, ha disposto che la semiliberta'  non
 fosse  revocata ai sensi dell'art. 15 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306
 e continuasse in attesa della conversione in legge del  decreto-legge
 suddetto  e degli accertamenti che questo collegio avrebbe effettuato
 allo scopo di stabilire se il semilibero si  trovasse  o  meno  nelle
 condizioni  di  cui  all'art.  58-ter dell'ordinamento penitenziario,
 (cosi' come introdotto dal d.l. 13 maggio 1991, n. 152 e  richiamato
 dall'art. 15 del d.l. n. 306/1992 sopracitato).
    Nelle  more  della  fissazione  dell'udienza odierna (disposta con
 decreto di questo presidente), con legge 7 agosto 1992,  n.  356,  il
 decreto-legge e' stato convertito con modificazioni.
    Sentito  l'interessato  e  visti  gli atti - ivi compresa la copia
 della sentenza di condanna - il collegio ritiene  non  manifestamente
 infondata  la  questione  di  costituzionalita' dell'art. 15, secondo
 comma,  del  d.l.  n.  306/1992  che,  a  seguito  della  legge   di
 conversione  n.  356/1992,  ora  afferma che il tribunale (d'ufficio)
 deve disporre la revoca della misura alternativa alla detenzione,  di
 cui  gia'  fruisca  un  condannato  in espiazione di pena per uno dei
 reati di cui alla prima parte del primo comma, laddove non risulti la
 qualita' di "collaboratore di giustizia".
    I reati sono quelli di cui agli artt. 416-bis del  codice  penale,
 630 del codice penale, 75 del decreto del Presidente della Repubblica
 10 ottobre 1990, n. 309.
    I  detenuti  che  possono  sottrarsi alla revoca suddetta pertanto
 sono esclusivamente coloro che "collaborano con la giustizia a  norma
 dell'art. 58-ter dell'ordinamento penitenziario".
    Una volta compiuto l'accertamento negativo della "collaborazione",
 il  tribunale  non  ha  soluzioni diverse e "deve" revocare la misura
 alternativa, del tutto indipendentemente  dalla  "meritevolezza"  del
 condannato  sotto  il  profilo  penitenziario,  del suo ravvedimento,
 della sua condotta precedente o successiva al reato.
    Pregiudiziale  appare  il  giudizio  di  merito,  che, nel caso in
 esame, porta ad escludere che il condannato possa  rientrare  in  una
 delle  ipotesi previste dall'art. 58-ter che richiede che il soggetto
 "anche dopo la condanna" si sia adoperato:
      1)  per  evitare  che  l'attivita'  delittuosa  sia  portata  ad
 ulteriori conseguenze, ovvero
      2)  per  aiutare  "concretamente  l'autorita'  di  p.s. o quella
 giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la  ricostruzione
 dei  fatti  e  per  la  individuazione  o la cattura degli autori dei
 reati".
    Le due ipotesi sono evidentemente autonome e disgiunte,  ma  nella
 specie non si sono realizzate, ne' potevano esserlo.
    Infatti:
       a)  tutti  gli  autori  del  reato  sono  stati  identificati e
 condannati e non e' possibile,  per  ragioni  obiettive  e  di  forza
 maggiore,  procedere  ad  una  ricostruzione diversa del fatto o alla
 identificazione di altri correi;
       b) il condannato non ha ottenuto l'attenuante di cui agli artt.
 114 del codice penale (minima partecipazione al fatto, esecuzione  di
 ordine  da  parte di un soggetto munito di autorita', soggetto minore
 di eta' o infermo di mente) e 116, secondo comma, del  codice  penale
 (commissione   di   un   reato   meno  grave  di  quello  voluto  dai
 concorrenti). Tali attenuanti (richiamate dalla legge di  conversione
 n.  356)  non  sembrano  spostare  il  problema:  infatti anche se in
 ipotesi   fossero   state   concesse,   occorrerebbe    sempre    una
 "collaborazione  offerta  anche se oggettivamente irrilevante", oltre
 alla  certezza  di  "mancanza  di   attuali   collegamenti   con   la
 criminalita' organizzata".
    Il  riconoscimento  di  tali  circostanze attenuanti non sembra al
 collegio possibile in questa sede (vale a dire  "dopo  la  condanna")
 perche'  inesorabilmente  si  stravolgerebbe  un  giudicato ormai sul
 punto intoccabile.
    L'art.  15  del  d.l.,  cosi'  come  convertito,  richiama  anche
 l'avvenuta concessione al condannato della attenuante di cui all'art.
 62, n. 6, del codice penale.
    Tale  attenuante e' concessa a chi si "e' adoperato spontaneamente
 ed efficacemente per elidere od attenuare le  conseguenze  dannose  o
 pericolose del reato".
    Tale  attenuante non e' stata concessa dal tribunale, ne' potrebbe
 ora  questo  collegio  ritenere  che  il  condannato  abbia   evitato
 "ulteriori conseguenze" vuoi perche' si urterebbe contro un giudicato
 ormai intangibile, vuoi perche' il Perucchini non potrebbe, oggi ed a
 distanza  di  anni,  far  alcunche' al riguardo, essendosi l'azione e
 l'evento ormai definitivamente verificati e consegnati alla storia.
    L'ipotesi della collaborazione dopo la condanna  di  cui  all'art.
 58-ter  si  riduce  allora ad una sola, quella della individuazione e
 cattura degli autori dei reati.
    Il collegio non vede  nella  fattispecie  alcuna  possibilita'  di
 apportare,   da  parte  del  condannato,  elementi  decisivi  per  la
 ricostruzione dei fatti.  Dopo  la  condanna,  se  cio'  teoricamente
 potesse  verificarsi,  non  potrebbe che instaurarsi una procedura di
 revisione (peraltro lunga e complessa ai  sensi  degli  artt.  629  e
 seguenti  del  c.p.p.  e comunque soltanto a favore del condannato) o
 alla apertura di un nuovo procedimento penale  (ove  l'azione  penale
 non sia ancora estinta) a carico di terzi, mai condannati ne' assolti
 (stante il divieto del ne bis in idem).
    Nel frattempo, questo tribunale non potrebbe che attendere l'esito
 dei giudizi suddetti.
    E'  vero che l'art. 58-ter, secondo comma, facoltizza il tribunale
 di sorveglianza ad "accertare la condotta di cui al primo comma",  ma
 la norma, estremamente generica, urta contro il principio del giudice
 naturale  garantito dall'art. 25, primo comma, della Costituzione; fa
 sorgere gravi pericoli di contrasti  tra  giudicati  o  conflitti  di
 competenza;  pone  in  serio pericolo la intangibilita' del giudicato
 penale.
    Le legittimita' della norma di cui all'art. 58-ter, resta cosi' da
 dimostrare, se vista,  come  conditio  sine  qua  non  per  concedere
 qualsiasi misura alternativa o per evitarne la revoca.
    E'  da  segnalare  anche  un  altro e fondamentale aspetto. Non e'
 chiaro che cosa intenda l'art. 58-ter per "fatti" e  "reati"  (quelli
 di cui alla sentenza di condanna in espiazione o anche altri).
    Il  quesito  e'  grave  e  conferma  tutte  le perplessita' che il
 collegio ha sul piano  della  costituzionalita'  del  nuovo  sistema,
 introdotto con decreto-legge, senza adeguata preparazione.
    Invero, se la collaborazione si dovesse intendere estesa ad "altri
 reati",  la  costituzionalita'  della  norma verrebbe definitivamente
 compromessa.
    La avvenuta trasformazione della collaborazione con la  giustizia,
 da fatto volontario (giustamente previsto e "premiato" ampiamente sul
 piano  legislativo,  in  molte  leggi recenti) in un obbligo imposto,
 senza del quale non  si  ottengono  piu'  benefici  penitenziari,  e'
 operazione  inaccettabile sul piano costituzionale perche' snatura le
 funzioni della pena, rende inutile ogni discorso sulla tendenza  alla
 rieducazione;  viola  il  divieto  di  irretroattivita'  della  legge
 penale; lede il  principio  secondo  cui  la  difesa  e'  un  diritto
 "inviolabile" del cittadino "in ogni stato e grado del procedimento";
 pone in difficolta' la magistratura di sorveglianza che deve revocare
 una misura alternativa solo perche' il condannato non puo' rendere la
 collaborazione    ai    sensi   dell'art.   58-ter   dell'ordinamento
 penitenziario.
    Tale norma generica, pericolosa e  spesso  inapplicabile  dopo  la
 condanna,  contrasta  inoltre con il principio di ragionevolezza piu'
 volte richiamato dalla Corte in precedenti decisioni.
    Ritiene il collegio  di  richiamare  la  sentenza  n.  15  del  1½
 febbraio 1982 emessa in tempi calamitosi quali i presenti, con cui la
 Corte  ha  precisato  che  l'emergenza  giuridica  giustifica  misure
 insolita' che pero' perdono legittimita' se non  sono  temporanee  (e
 quelle   qui   denunciate   sono  invece  definitive),  vale  a  dire
 ingiustificatamente  protratte  nel  tempo.  Anche  la   carcerazione
 preventiva  (di  cui allora si trattava) non poteva essere prolungata
 fino a condurre ad una "sostanziale  vanificazione  della  garanzia",
 perche'  la  stessa  legislazione di emergenza doveva preoccuparsi di
 creare  le  condizioni  necessarie  per  assicurare  efficienza  alle
 istituzioni dello Stato.
    Tali   affermazioni  appaiono  valide  ancora  oggi  e  facilmente
 applicabili al sistema penitenziario ed a quello delle misure  alter-
 native, pesantemente snaturato dalla legislazione qui esaminata.  Non
 e'  possibile,  infatti,  nei  confronti di determinati soggetti, pur
 condannati per fatti gravissimi ma anteatti, far pesare "per  sempre"
 una    legislazione    emergenziale,    che   ricorda   tempi   ormai
 definitivamente tramontati e che fonda il giudizio  di  pericolosita'
 sul solo reato e non sulla personalita' complessiva dell'autore.
    La  pericolosita'  deve  essere  accertata  di caso in caso, quale
 probabilita' di commissione di altri reati e deve essere collegata  a
 tutti  gli  elementi  di  giudizio che sono fissati dall'art. 133 del
 codice penale e non  soltanto  a  quelli  di  cui  ai  nn.  1)  e  2)
 dell'articolo stesso.
    Diverse  sono  la  "staticita'" del reato e la "dinamicita'" della
 pena. La collaborazione  processuale  imposta  al  condannato  appare
 incompatibile con la sua rieducazione.
    La  Corte  reiteratamente  ha  insegnato  (di recente, anche nella
 sentenza n. 313 del 2 luglio 1990), che  e'  superata  la  precedente
 giurisprudenza  che riteneva come la rieducazione fosse limitata alla
 fase esecutiva della pena; che il  momento  "umanitario"  della  pena
 stessa  non puo' mai essere disgiunto da quello "rieducativo"; che la
 polifunzionalita' della pena e' confermata in modo definitivo.
    La pena, oltre che afflittiva  e  retributiva,  deve  tendere  fin
 dall'origine  anche  alla rieducazione, oltre che alla difesa sociale
 ed alla dissuasione.
    La  Corte  ha  affermato  che  l'individuo  non  puo'  mai  essere
 strumentalizzato ai fini della politica criminale e della prevenzione
 generale e che la finalita' rieducativa non puo' essere estranea alla
 legittimazione ed alla funzione della pena.
    Concludendo:  l'ordinamento  ha  fatto  un  "punto  cardine" della
 funzione costituzionale della pena come sopra delineata.
    Non ignora il collegio  che  la  Corte  costituzionale,  sotto  la
 vigenza  dell'art. 47 (e dell'art. 50) della legge 26 luglio 1975, n.
 354, sull'ordinamento penitenziario si e' gia' pronunciata nel  senso
 di  ritenere  legittime  le  due  norme  suddette  nella parte in cui
 escludevano l'affidamento in prova (e la semiliberta') ai  condannati
 per  determinati  delitti  (sentenze n. 107 del 7 luglio 1980 e n. 10
 del 29 gennaio 1981).
    La Corte ha stabilito che le suddette norme (poi  dal  legislatore
 abrogate con la legge n. 663/1986) non contrastavano con gli artt. 3,
 27, 2 e 111 della Costituzione, pur essendo "naturalmente opinabili".
 Ma si tratta di "scelte che non si prestano a venire censurate e meno
 ancora    modificate"    dalla    Corte   e   che   rientrano   nella
 "discrezionalita'" del legislatore.
    La Corte ha anche precisato che il "fine rieducativo  inerisce  ad
 ogni  pena"  (la  conferma  e' anche nella sentenza n. 313/1990 sopra
 citata), ma - riandando alle sentenze nn. 12/1966  e  264/1974  -  ha
 aggiunto  che  la  pena  persegue  anche "altri scopi essenziali alla
 tutela dei cittadini e dell'ordine giuridico contro  la  delinquenza"
 quali la dissuasione, la prevenzione, la difesa sociale.
    La  Corte  ha  anche  chiarito  che  non  poteva essere dichiarata
 illegittima la norma che vietava la concessione di misure alternative
 a favore dei condannati per determinati reati commessi  anteriormente
 alla  entrata  in  vigore  della  legge n. 354/1975: infatti la norma
 allora denunciata non incideva  sull'ambito  temporale  di  efficacia
 della    legge    penale    sostanziale    ma   concerneva   soltanto
 l'applicabilita' di un particolare regime di  espiazione  della  pena
 detentiva, affidato alla discrezionale valutazione del giudice ..
    Tutto sembra significare che il legislatore poteva ritornare, come
 e'  ritornato, al regime "duro", vigente anteriormente al 1975, anche
 per i reati commessi prima dell'8 giugno 1992,  ma  soltanto  per  il
 futuro,  vale  a  dire  senza pretese di revoca. Il legislatore si e'
 addirittura contraddetto, perche' il "giro di vite" attuato nel 1991,
 ha riguardato i reati commessi dopo il 13 maggio 1991,  come  risulta
 in  modo evidente dal disposto dell'art. 4, primo comma, del d.l. 13
 maggio 1991, n. 152 (convertito con modifiche nella legge  12  luglio
 1991,  n.  203).  La  modifica  del giugno 1992 appre invece di segno
 esattamente  opposto,  ispirato  ad  un  incomprensibile  rigore  nei
 confronti di reati ormai lontani nel tempo.
    La  novita',  costituita  dalle  eccezioni introdotte a favore dei
 "collaboratori"   di    cui    all'art.    58-ter    dell'ordinamento
 penitenziario,  e'  tale  da  consigliare di sottoporre nuovamente la
 questione alla Corte costituzionale.
    Invero, l'obbligo della revoca non e' assoluto, ne' e' valido  per
 tutti,  ma  dipende  da  un  sistema  nuovo, fondato su una normativa
 largamente  incompleta,   equivoca   e   discriminatoria;   tale   da
 giustificare ogni sospetto di violazione di principi costituzionali.
    Il divieto, inoltre, si estende al passato e cio' comporta revoche
 indiscriminate  di  misure  alternative, fondate esclusivamente sulla
 natura del reato commesso.