IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento relativo a Nania Filippo nato a Partinico il 2 giugno 1928, ivi residente, via Liberta' n. 26, detenuto nella casa circondariale di Bergamo avente per oggetto: "istanza di semiliberta' in relazione alla sentenza 10 dicembre 1990 corte d'assise d'appello di Palermo, anni 5 e mesi 10 di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso (n. 23 (108)/92 r.e. procura generale della Repubblica di Palermo)". P. Q. M. Dichiara pregiudiziale e non manifestamente infondata la questione di costituzionalita' dell'art. 4-bis, primo comma, prima parte, dell'ordinamento penitenziario, cosi' come introdotto dall'art. 15 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306 (convertito con modifiche nella legge 7 agosto 1992, n. 376) nella parte in cui dispone che "le misure al- ternative alla detenzione di cui al capo sesto della legge 26 luglio 1975, n. 354" possono essere concesse ai detenuti per il delitto di cui all'art. 416-bis del codice penale "solo nei casi in cui i detenuti collaborano con la giustizia a norma dell'art. 58- ter" per contrasto con gli artt. 27, terzo comma, 25, primo comma 24, secondo comma, della Costituzione, nonche' con il principio di ragionevolezza; Dispone la sospensione del procedimento; Ordina la trasmissione del fascicolo alla Corte costituzionale previa notifica al Presidente del Consiglio dei Ministri, la comunicazione ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato in Roma e la notifica al procuratore generale di Brescia, all'interessato, al difensore. Brescia, addi' 24 novembre 1992 Il presidente: ZAPPA Il magistrato di sorgeglianza: MASSETTI I giudici - esperti: FORNONI - CALVANESE Depositata in cancelleria il 3 dicembre 1992. L'assistente giudiziario: TORLAI ------ Nania Filippo e' detenuto nella casa di Bergamo dal 16 marzo 1982. Sta espiando la pena residua di cui alla sentenza emessa dalla corte d'appello di Palermo 10 dicembre 1990 che lo condannava ad anni cinque e mesi dieci per violazione dell'art. 416-bis del codice penale, cosi' riducendo la pena inflitta in primo grado dal tribunale di Palermo. Tenuto conto della custodia cautelare sofferta e della liberazione anticipata concessa per giorni 225 da questo tribunale il 20 ottobre 1992, il Nania ha espiato non solo la meta' pena ma addirittura oltre i 2/3. La condotta inframurale del Nania e' del tutto regolare; ha accettato la condanna, senza tentare mai di sottrarsi alla esecuzione, pur continuando a sostenere di non aver meritato la suddetta condanna. Tiene buoni rapporti con i compagni e gli operatori, partecipa attivamente alle attivita' trattamentali disposte, tenuto conto del fatto che nella casa di Bergamo e' ora ristretto nella speciale e separata sezione nella quale sono ristretti tutti i soggetti imputati o condannati per uno dei reati indicati nella prima parte dell'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario, cosi' come modificata dall'art. 15 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito in legge n. 376/1992. Secondo tale norma e quindi per espresso divieto di legge questo tribunale non puo' prendere in esame la domanda di semiliberta' (una delle misure alternative di cui al capo sesto dell'ordinamento penitenziario), nonostante si possa parlare nel caso in esame di evidenti progressi compiuti nel trattamento e di mancanza di pericolosita' sociale del condannato per la ragione che il Nania non si trova nelle condizioni di cui all'art. 58-ter dell'ordinamento penitenziario, cioe' non e' un collaboratore, ne' lo puo' essere avendo sempre negato ogni responsabilita'. La stessa appartenenza alla criminalita' organizzata di stampo mafioso, allo stato non risulta esistente: se mai esisteva soltanto fino al 1982, anno in cui, secondo la sentenza di condanna, e' cessato il reato (il Nania e' stato in custodia cautelare, non ha pendenze penali, il tribunale di Palermo gli ha restituito il patrimonio immobiliare che gli era stato sequestrato). Dal 1982 ad oggi sono passati dieci anni. A questo punto il collegio (non avendo ottenuto il Nania alcuna attenuante) ritiene di chiedersi se il sistema introdotto con il d.m. succitato risponda ai principi fondamentali della Costituzione, piu' volte ribaditi dalla Corte costituzionale. La risposta e' negativa e pertanto gli atti devono essere inviati alla Corte costituzionale, come hanno fatto molti altri tribunali che, pur condividendo la necessita' di un forte richiamo alla legalita' ed al senso dello Stato, a causa della recrudescenza della criminalita', si chiedono se sia legittimo adottare un provvedimento legislativo che chiude ogni possibilita', toglie ogni speranza, accomuna tutti i colpevoli di alcuni gravi reati in unico destino in forza di una specie di presunzione iuis et de iure, senza possibilita' di indagini sulla effettiva, attuale appartenenza alla criminalita' organizzata, sulla effettiva pericolosita' sociale (intesa rettamente come attuale probabilita' di commissione di altri reati); sulla rilevanza del tempo trascorso dalla commissione del reato (nel caso di specie dieci anni), sulla impossibilita' - oggettiva o soggettiva - da parte del singolo a conformare la propria attuale condotta all'art. 58-ter dell'ordinamento penitenziario; sulla possibilita' che molti condannati per uno dei reati suddetti non appartengano all'area della criminalita' mafiosa (in tal modo ponendosi fuori dalle previsioni espresse dal d.l. n. 306/1992 e della legge di conversione). Tutto cio' sembra veramente collidere con il principio secondo cui tutte le pene devono "tendere" alla rieducazione del condannato (art. 27, terzo comma) e che l'individuo non puo' mai essere strumentalizzato ai fini di politica criminale e della prevenzione generale. Mai la finalita' rieducativa puo' essere estranea alla legittimazione ed alla funzione della pena (da ultimo si veda la sentenza 2 luglio 1990, n. 313, secondo cui l'ordinamento ha fatto della funzione costituzionale della pena un "punto cardine"). La Corte con sentenze nn. 107/1980 e 10/1981 ha per il vero detto che era legittimo l'art. 47, secondo comma, della legge 25 luglio 1975, n. 354 (poi abrogato dalla legge n. 663/1986) nella parte in cui escludeva la semiliberta' e l'affidamento per i condannati per i delitti di rapina, estorsione, ecc. La Corte ha pero' detto che si trattava di "norme opinabili" ma non era entrata nel merito di scelte che "non si prestavano a censura" e che "rientravano nella discrezionalita' del legislatore". Si e' richiamata a vecchie decisioni, come le nn. 12/1966 e 264/1974. Il collegio e' d'avviso che la Corte, ad anni di distanza, alla luce della sua piu' recente giurisprudenza, debba riesaminare il caso perche' non e' dato capire come scelte cosi' delicate del legislatore incidenti sulla liberta' dei cittadini, debbano essere sottratte al giudizio di legittimita' costituzionale e come possa, oggi, essere conciliata, con la finalita' rieducativa, la totale soppressione di qualsiasi misura alternativa. E' vero che la pena deve perseguire anche i fini della dissuazione e della prevenzione, ma tali fini non possono "sopprimere" totalmente quello rieducativo. Occorre - in altri termini - che il legislatore trovi altre soluzioni accettabili, diverse da quelle drasticamente, irrazionalmente ablative adottare con il d.l. n. 306/1992. Altro aspetto che desta viva preoccupazione e' quello relativo alla mancata previsione di durata temporale delle misure qui oggetto di censura. Ammesso, ma non concesso, che non via sia altro sistema per combattere la criminalita' organizzata, e' evidente che il legislatore ordinario non poteva ne' puo' modificare le regole dell'ordinamento penitenziario senza una previsione di scadenza temporale o, almeno, legata al miglioramento della situazione. L'art. 27, terzo comma, della Costituzione risulta in tal modo violato. Inoltre il sistema attuale toglie ogni potere al tribunale di sorveglianza, che e' "giudice naturale" quanto alle misure alterna- tive e che - invece - viene delegittimato e posto in disparte, senza alcuna possibilita' di esercitare il proprio potere discrezionale. In tal modo viene violato l'art. 25, settimo comma, della Costituzione. Nel contempo risulta anche violato l'art. 24, secondo comma, della Costituzione nella parte in cui l'art. 15 del d.l. n. 306/1992 imponendo una "collaborazione" ad ogni costo, dopo la condanna irrevocabile, sganciata da ogni attivita' del processo di cognizione, al di fuori di ogni controllo giurisprudenziale, toglie al condannato ogni diritto di difesa, che e' inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, lo lega indissolubilmente al reato commesso senza possibilita' ulteriori di difendersi, di dimostrare qualcosa di diverso e di successivo nel tempo. A conferma di quanto sopra, non puo' il collegio esimersi dal rilevare che una riforma cosi' radicale e' maturata nel giro di pochi giorni, senza la necessaria meditazione, senza che nessuno, al di fuori dell'Esecutivo e del Parlamento potesse far udire la propria voce; senza - soprattutto - alcun approfondito dibattito. La legge e' frutto di spinte emotive, certamente comprensibili, ma pur sempre tali, legate ad azioni terribili, quali le stragi di Capaci e di Palermo. Basti pensare che il decreto-legge fu presentato al Senato, che la discussione in commissione duro' solo due giorni (22 e 23 luglio 1992); che il relatore (Pinto) fu autorizzato a riferire in aula soltanto oralmente (gli articoli sono 29, molti dei quali complessi, riguardanti riforme del codice di procedura penale, dell'ord. giud., ecc. oltre che all'ordinamento penitenziario); che gli emendamenti presentati per l'aula, diversi da quelli della Commissione e del Governo, non furono neppure stampati; che l'aula del Senato il giorno 24 luglio 1992 procedette alla discussione, molto breve, senza la presenza del Ministro per la giustizia (che era a Palermo per i funerali di Borsellino e dei componenti della sua scorta) ne' di altri Ministri; che fu posta la fiducia, concessa al Governo sul testo in blocco, con voti 163 favorevoli e 106 contrari; che il clima in aula era eccitato (battute, apostrofi, invettive, inutili richiami del Presidente, senatori che scendono nell'emiciclo, necessita' d'intervento dei questori e dei commessi per riportare l'ordine). Alla Camera la discussione fu altrettanto breve (sedute 30-31 luglio, 3 agosto, 4 agosto, relatore Gargani). Anche qui fu posta la fiducia (343 si', 51 no, 91 astenuti). D'altra parte, lo stesso relatore Pinto al Senato senti' la necessita' di presentare l'emendamento 1.1/161 all'art. 15 per "contemperare l'esigenza di severita' cui si esporra' il deceto-legge con quella di non dettare disposizioni criticabili sul piano della legittimita' costituzionale". L'emendamento fu ostacolato dal rappresentante del Governo (sottosegretario De Cinque) e riproposto in senso piu' restrittivo. Si tratta comunque dello stesso sistema, perche' "apre" solo ad alcune ipotesi attenuate (art. 62, n. 6, del c.p.) che devono essere gia' contenute nella sentenza di condanna. L'emendamento e', pertanto, un segnale delle stesse preoccupazioni del relatore, anche se sul piano concreto non altera affatto la scelta operata dal Governo. Tutti gli emendamenti proposti per salvaguardare la costituzionalita' del testo furono rapidamente respinti (Salvato, Berutti, ecc.). Il testo dell'intervento al Senato il 23 luglio 1992 del Ministro di grazia e giustizia e' del resto chiaramente preoccupato della situazione e degli avvenimenti di quei giorni (L'Italia e' stata profondamente scossa .. nuova percezione e consapevolezza del pericolo .. rafforzare e razionalizzare l'azione statale di repressione .. quadro legislativo sovraccarico di pastoie e di garanzie e di una disciplina penitenziaria eccessivamente e ingiustamente generosa .. rafforzare il controllo della popolazione penitenziaria ritenuta piu' pericolosa .. promuovere vero e proprio ribaltamento della tradizionale strategia di politica legislativa finora improntata ad astratto egualitarismo ..). Di fronte a tali affermazioni, appare veramente incredibile l'affermazione apodittica secondo cui "il Governo .. ha tenuto ben presente il dovere di rispettare rigorosamente i principi e le regole affermati dalla Costituzione .." (vedi resoconto Senato, seduta pomeridiana 23 luglio, pagg. 26 e segg.). Il Ministro di grazia e giustizia intervenne brevemente anche alla Camera nella seduta pomeridiana del 3 agosto 1992, con analoghe argomentazioni, concludendo che "e' obbligo del Ministro assicurare che la pena venga effettivamente scontata e che il recupero del condannato abbia luogo attraverso questa e non con indebite riduzioni" (Resoconto Camera, 3 agosto 1992, pagg. 36 e 37).