ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 425 del codice
 di procedura penale, promosso con ordinanza emessa  l'11  marzo  1992
 dalla  Corte di appello di Milano nel procedimento penale a carico di
 Ruzzante Reno Marco, iscritta al n. 249 del registro ordinanze 1992 e
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  20,  prima
 serie speciale, dell'anno 1992;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri;
    Udito nella camera di consiglio del 16 dicembre  1992  il  Giudice
 relatore Giuliano Vassalli;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  La  Corte  di  appello di Milano, nel corso del giudizio di
 impugnazione promosso dal Procuratore generale avverso  una  sentenza
 con  la quale il giudice per le indagini preliminari, all'esito della
 udienza preliminare, ha dichiarato non luogo a procedere "perche'  il
 fatto  non costituisce reato", ha sollevato questione di legittimita'
 costituzionale dell'art. 425 del codice di  procedura  penale,  nella
 parte in cui prevede, tra le diverse formule con le quali puo' essere
 adottata la sentenza di non luogo a procedere, anche quella del fatto
 che  non costituisce reato, deducendo, a tal proposito, la violazione
 dell'art. 76 della Costituzione, in quanto la norma delegata verrebbe
 a porsi in contrasto con la direttiva di cui al numero 52)  dell'art.
 2  della  legge-delega  16  febbraio 1987, n. 81, la quale "limita le
 ipotesi  di  emissione  di  sentenza  di  non   luogo   a   procedere
 all'estinzione   del  reato,  alla  mancanza  di  una  condizione  di
 procedibilita', al fatto non previsto dalla legge come  reato  ovvero
 ai  casi  di  evidenza  dell'insussistenza  del  fatto  e  della  non
 commissione del fatto da parte dell'imputato".
    2. - Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del  Consiglio  dei
 ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  Generale  dello
 Stato,  chiedendo  che  la  questione  sia  dichiarata  non  fondata.
 L'Avvocatura,  dopo  aver  premesso, alla luce delle affermazioni che
 questa  Corte  ha piu' volte enunciato in tema di raffronto fra legge
 di delega e legge delegata, che "il legislatore delegato non e' privo
 di poteri discrezionali nell'attuazione della delega e che il  limite
 non valicabile e' quello del rispetto dei princip/' e delle finalita'
 poste  dalla  legge  di  delega", ha osservato come nella vigenza del
 codice abrogato la formula "il fatto non e' previsto dalla legge come
 reato", che compariva in piu' disposizioni, avesse generato non pochi
 dubbi sulla  sua  portata.  Tali  dubbi,  peraltro,  sarebbero  stati
 dissolti  da  questa  Corte  con la sentenza n. 175 del 1971, essendo
 stato  ivi  affermato  che  la  formula   medesima   dovesse   essere
 interpretata   "come  comprensiva  di  tutte  le  situazioni  di  non
 punibilita' diverse dalla sussistenza o commissione del fatto". Ed e'
 proprio facendo leva su tale ultima interpretazione, dunque, ritenuta
 come quella costituzionalmente  piu'  corretta,  che  il  legislatore
 delegato  ha  incluso nell'art. 425 del codice di rito la formula "il
 fatto non costituisce reato", in  quanto  desumibile  da  quella  "il
 fatto  non  e'  previsto  dalla  legge  come reato" che compare nella
 direttiva di cui al numero 52) della legge-delega.
                        Considerato in diritto
    1. - Il dubbio di legittimita' costituzionale che solleva la Corte
 rimettente si incentra sulla compatibilita' tra l'art. 425 del codice
 di procedura penale, nella parte in cui  stabilisce  che  il  giudice
 pronuncia  sentenza di non luogo a procedere "quando risulta evidente
 .. che il fatto non costituisce reato", e l'art. 2, numero 52), sesto
 periodo, della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, ove  si  enuncia
 il  principio  che  il  giudice,  all'esito dell'udienza preliminare,
 pronuncia sentenza di non luogo a procedere allo stato degli atti .."
 se il fatto non e' previsto dalla legge  come  reato,  ovvero  quando
 risulta evidente che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha
 commesso".  Ponendo  cosi'  a  raffronto  i due enunciati normativi e
 sulla base del contrasto che, su di un piano squisitamente  testuale,
 e'  dato  cogliere  tra le formule "in fatto" che compaiono nell'art.
 425 del codice rispetto a quelle indicate dal legislatore  delegante,
 il  giudice a quo desume il mancato rispetto dei limiti imposti dalla
 legge-delega e, conseguentemente, la violazione  dell'art.  76  della
 Costituzione.
    All'assunto  del  rimettente  l'Avvocatura  oppone  argomentazioni
 anch'esse fondate sull'analisi testuale della direttiva della  legge-
 delega  che si assume violata: posto, infatti, sostiene l'Avvocatura,
 che tale direttiva espressamente prevede la  formula  del  fatto  non
 previsto  dalla  legge come reato, e tenuto conto che questa Corte ha
 avuto modo di affermare, nella sentenza n. 175 del 1971, che a  detta
 formula   dovesse   essere   attribuito   un   significato  generico,
 comprensivo anche delle ipotesi riconducibili alla formula del  fatto
 non  costituente  reato,  se  ne  deve  concludere  che, tale essendo
 l'interpretazione secundum Constitutionem, nessun eccesso  di  delega
 puo' ritenersi nella specie realizzato.
    2.  -  Cosi'  delineate  le  contrapposte tesi, va subito rilevato
 come, ai fini di una compiuta disamina della  questione  oggetto  del
 presente  giudizio,  non  possano  ritenersi in se' risolutive ne' le
 considerazioni di natura meramente formale che sostengono la  censura
 del  giudice  a  quo,  ne'  la  estensione interpretativa che propone
 l'Avvocatura estrapolando i dicta enunciati in  tema  di  formule  di
 proscioglimento  nella richiamata sentenza n. 175 del 1971. Quanto al
 primo aspetto, infatti, se, da un lato, la verifica della conformita'
 o meno delle disposizioni del codice  di  rito  ai  princip/'  ed  ai
 criteri formulati nella legge di delegazione non puo' prescindere dal
 dato  testuale  in cui risulta espressa la volonta' del delegante, e'
 altrettanto vero che l'analisi non puo' dirsi correttamente  esaurita
 ove al raffronto dei testi non si sovrapponga il necessario controllo
 circa la compatibilita' dei fini che fonte delegante e norma delegata
 hanno inteso perseguire, nel quadro di ciascun istituto e del sistema
 nel  suo  assieme.  In un tessuto cosi' composito, quale e' quello in
 cui risulta articolata la legge-delega  per  l'emanazione  del  nuovo
 codice di procedura penale, ove a previsioni di carattere generale si
 trovano non di rado affiancati criteri di dettaglio che circoscrivono
 in  confini  assai  ristretti  i  margini  entro  i quali puo' essere
 esercitata la discrezionalita' del legislatore  delegato,  le  scelte
 operate  dal  Parlamento  possono  pertanto ricevere coerente lettura
 solo nei limiti in cui ogni singola "prescrizione", impartita a norma
 dell'art.  76  della  Costituzione,  venga  interpretata  in  stretta
 aderenza  alla  funzione  che  la  stessa  e'  destinata  a  svolgere
 nell'ambito di quello specifico modello processuale che il  delegante
 stesso ha inteso tracciare.
    D'altra parte, per giungere alla soluzione del dubbio avanzato dal
 giudice  a  quo,  non  puo' neppure ritenersi sufficiente un generico
 rinvio a quanto  questa  Corte  ha  avuto  modo  di  affermare  nella
 sentenza  n.  175  del  1971  circa  l'equivalenza  delle formule che
 vengono qui in discorso, posto che le considerazioni  ivi  svolte  si
 riferivano  alla  portata  da annettere alla regola dettata dall'art.
 152 cpv. del codice di rito abrogato, la cui  ratio  era  "quella  di
 evitare, di fronte all'evidenza delle prove, l'adozione della formula
 di  proscioglimento per cause di estinzione del reato, che presuppone
 o  puo'  far  presupporre  l'esistenza,  o  per  lo  meno  l'astratta
 possibilita',  di  fatti  in se' suscettibili di sanzione penale". Un
 contesto,  dunque,  troppo  specifico  per  poter   desumere,   senza
 ulteriore    verifica,    l'automatica   estensibilita'   di   quelle
 affermazioni ad un istituto che, come l'udienza preliminare, presenta
 anch'esso una fisionomia del tutto peculiare.
    3. - Assorbente diviene, allora, l'esame di quale sia la  funzione
 che  l'udienza  preliminare  e'  destinata  a svolgere nel quadro del
 sistema delineato dalla delega,  per  verificare,  all'esito,  se  la
 mancata  previsione  della  formula "il fatto non costituisce reato",
 tra quelle che la direttiva di cui al numero 52) enuncia in  tema  di
 sentenza  di non luogo a procedere, possa intendersi come espressione
 di una volonta' del legislatore intesa ad escluderla dal novero delle
 cause che legittimano il giudice ad adottare quella pronuncia che  si
 pone come alternativa al rinvio a giudizio.
    Non  v'e'  dubbio,  al riguardo, che nella sequenza procedimentale
 scandita dalla legge di delegazione l'udienza preliminare  sia  stata
 contrassegnata  dai  caratteri  tipici della fase giurisdizionale, in
 cui le  parti,  in  contraddittorio  fra  loro,  si  misurano  su  un
 determinato  thema  decidendum,  la cui delibazione e' affidata ad un
 giudice di regola estraneo alla raccolta  degli  elementi  sulla  cui
 base  e' chiamato ad adottare la pronuncia conclusiva. Cio' significa
 che l'udienza, proprio perche' e' la sede in cui si introduce per  la
 prima  volta  la  dialettica processuale dinanzi ad un giudice che si
 colloca  in  una  funzione  di  sostanziale terzieta', e' destinata a
 svolgere essenzialmente una funzione di garanzia, quale certamente e'
 quella di consentire all'imputato  di  difendersi  e  contrastare  la
 richiesta  di rinvio a giudizio formulata dal pubblico ministero. Che
 l'udienza preliminare possa poi concludersi con una sentenza  di  non
 luogo  a  procedere, e quindi svolgere anche una funzione di economia
 processuale, e' aspetto che non interferisce con quanto si e'  detto,
 rappresentandone,  semmai,  il  naturale  corollario:  a fronte della
 domanda di giudizio infondata, infatti, sta anzitutto  l'esigenza  di
 assicurare  il pronto ristoro dei diritti dell'inquisito, e non certo
 quella,  secondaria  e  conseguenziale,  di  impedire  una  superflua
 prosecuzione  dell'attivita'  processuale.  D'altra parte, che questa
 sia stata la linea  prescelta  dal  legislatore,  lo  si  desume  con
 certezza   dalla   stessa   direttiva   52),  la  quale,  assicurando
 all'imputato  la  facolta'  "di  chiedere   il   giudizio   immediato
 rinunciando  all'udienza  preliminare",  pone in evidenza come, anche
 nella ipotesi di imputazione  priva  di  fondamento  e  che  pertanto
 avrebbe  potuto rinvenire una "economica" soluzione all'interno della
 udienza preliminare, sia  assegnato  risalto  esclusivo  alla  scelta
 dell'imputato di esercitare in sede dibattimentale la propria difesa.
    4.  -  Tale essendo, dunque, la funzione che l'udienza preliminare
 e' destinata a svolgere nel sistema, e considerato che  gli  epiloghi
 cui  l'udienza  stessa  e'  volta non possono prescindere dalla ratio
 dell'istituto,   costituendone,   anzi,   l'emblematica    proiezione
 attuativa,  l'analisi delle formule con le quali puo' essere adottata
 la sentenza di non luogo a procedere e la  correlativa  ricostruzione
 della  volonta'  del  delegante  andra'  condotta sulla falsariga dei
 "diritti" e dei "poteri" che i soggetti dell'udienza sono chiamati ad
 esercitare, nel quadro dei profili funzionali  che,  come  accennato,
 caratterizzano quella specifica fase del processo.
    La   sentenza   di   non  luogo  a  procedere,  si  e'  detto,  e'
 l'alternativa decisoria offerta al giudice rispetto all'adozione  del
 provvedimento che dispone il giudizio: entrambe le opzioni, peraltro,
 assumono  a  comune  denominatore  l'atto  di  esercizio della azione
 penale che si esprime attraverso la richiesta di rinvio  a  giudizio.
 La  domanda del pubblico ministero, dunque, evocando l'intervento del
 giudice, per un verso soddisfa il presupposto in rito che consente la
 celebrazione dell'udienza, mentre, sotto  altro  profilo,  traccia  i
 confini  del  "merito"  sul  quale  il  giudice  stesso e' chiamato a
 pronunciarsi.  Come  recita,  infatti,  la  direttiva  48),  e   come
 ribadisce  quella  di  cui al numero 52), alla richiesta del pubblico
 ministero e' coessenziale la formulazione della imputazione,  sicche'
 e'  proprio  quest'ultima  a  costituire  "l'oggetto"  sul  quale  si
 misurano il contraddittorio  e  il  tema  devoluto  all'organo  della
 giurisdizione. Il diritto dell'imputato, quindi, deve necessariamente
 calibrarsi  in  funzione  di  tutto  cio'  che  l'atto di imputazione
 enuncia a suo carico, senza  potersi  a  tal  fine  parcellizzare  o,
 peggio,   dissolvere,   prendendo  a  riferimento  aspetti  che  solo
 parzialmente  esauriscono  il  fatto   ed   i   suoi   connotati   di
 antigiuridicita'.  Se l'udienza preliminare e' sede di garanzia e se,
 ancora, quest'ultima e' naturale espressione dell'inviolabile diritto
 di difesa che l'art. 24 della Costituzione riconosce in ogni stato  e
 grado  del  procedimento,  e'  di  tutta evidenza, allora, che ne' di
 garanzia  ne'  di  difesa   potrebbe   correttamente   parlarsi   ove
 all'imputato  fosse  consentito  di  contrastare  alcuni soltanto dei
 profili in cui si articola l'atto contestativo: tra  contestazione  e
 difesa,  dunque, corre un nesso di corrispondenza biunivoca che rende
 l'una funzionale all'altra.
    Cosi' ricostruiti i contrapposti diritti e poteri delle parti,  ad
 essi  dovra'  quindi  necessariamente  saldarsi  la  tipologia  degli
 epiloghi cui l'udienza preliminare puo' pervenire, posto che,  se  la
 difesa e' destinata a svolgersi sulla integralita' della imputazione,
 la  stessa  risulterebbe  del  tutto sterile ove al giudice fosse poi
 inibito di raccoglierne i risultati. Se,  pertanto,  la  legge-delega
 espressamente  abilita il giudice a pronunciare sentenza di non luogo
 a procedere quando risulta evidente  che  il  fatto  non  sussiste  o
 l'imputato non lo ha commesso, cio' non equivale affatto ad escludere
 dalla  sfera  delibativa quelle restanti cause che parimenti incidono
 sul fatto contestato e che il legislatore delegato ha sussunto  sotto
 la  formula  del  fatto  che  non  costituisce  reato.  Ove, infatti,
 l'enunciato della delega ricevesse una lettura riduttiva al punto  da
 far  desumere  che  il  controllo  del  giudice  debba  limitarsi  al
 controllo dei soli elementi materiali del reato, della ascrivibilita'
 del fatto all'imputato, e della riconducibilita' del  fatto  medesimo
 alla   ipotesi-tipo  legalmente  determinata,  qualsiasi  difesa  che
 intendesse  contestare,   ad   esempio,   l'esistenza   dell'elemento
 psicologico  del  reato  o  dedurre  la  presenza  di  una  causa  di
 giustificazione   sarebbe    privata    di    qualsiasi    "risposta"
 giurisdizionale,  proprio  perche'  -  come  mostra  di  ritenere  il
 rimettente - mancherebbe nella delega una previsione esplicita  circa
 la  corrispondente formula. Ma una simile conclusione, palesemente in
 contrasto con  i  piu'  elementari  princip/'  di  garanzia,  non  e'
 consentita  ne'  dalla  lettera  ne'  dallo  spirito  della  legge di
 delegazione, che, anzi, si e' sforzata di modellare  l'intero  quadro
 del  processo  e  la stessa udienza preliminare in funzione di quelle
 esigenze di parita' tra accusa e difesa che rappresentano un  aspetto
 essenziale del prescelto modello accusatorio.
    La  previsione  della  delega  che assegna al giudice il potere di
 pronunciare sentenza di non luogo a procedere quando risulta evidente
 che il fatto non sussiste,  non  comporta,  infatti,  ne'  sul  piano
 logico  ne' su quello lessicale, l'automatica esclusione di qualsiasi
 potere del delegato di scandire in autonome formule le ipotesi in cui
 quel fatto, cosi' come contestato, risulta essere privo dei requisiti
 propri della fattispecie dedotta nella  imputazione.  Se  difetta  il
 dolo  o  la colpa e l'ipotesi contestata e' rispettivamente di natura
 dolosa o colposa, e' il fatto in se' a non potersi dire  conforme  al
 modello  legale,  sicche'  l'insussistenza del fatto ipotizzata dalla
 delega certamente consentiva, anche sul piano  letterale,  la  scelta
 del  legislatore  delegato di ricondurre quelle ipotesi nella formula
 che, per tradizione,  e'  loro  propria.  Allo  stesso  modo,  se  e'
 l'antigiuridicita'  del fatto a venire in discussione per la presenza
 di una scriminante, e'  il  fatto  "colpevole"  a  non  potersi  dire
 sussistente,  con  l'ovvio  corollario  di  rendere pure sotto questo
 profilo conforme alla delega la norma impugnata.  Ma  al  di  la'  di
 qualsiasi  teorizzazione circa la reale portata da annettersi all'una
 o all'altra formula, sta il dato incontrovertibile che, essendo enun-
 ciate per la sentenza di non luogo a  procedere  talune  ipotesi  "in
 fatto",  la  legge di delega ha con esse certamente inteso consentire
 all'imputato di difendersi sulla integralita' del fatto contestato ed
 al  giudice  di  pronunciarsi  in  conformita'.  D'altra parte, se si
 ammette, come si ammetteva sotto la vigenza del codice abrogato,  che
 il  difetto  dell'elemento psicologico del reato o la presenza di una
 causa  di  giustificazione  legittimino  il  pubblico   ministero   a
 richiedere  l'archiviazione,  sarebbe  del tutto incoerente escludere
 qualsiasi rilevanza delle  medesime  situazioni  sol  perche'  emerse
 nella  udienza  preliminare,  giacche' si perverrebbe al paradosso di
 imporre un dibattimento negli stessi  casi  in  cui  non  e'  imposta
 neppure l'azione penale.
    Da quanto detto, peraltro, non consegue che alla valutazione della
 integralita'   del   fatto  debba  necessariamente  corrispondere  un
 giudizio di pieno merito, fondato sugli stessi  parametri  delibativi
 alla  stregua  dei  quali  il  giudice del dibattimento e' chiamato a
 decidere se pronunciare sentenza di proscioglimento o di condanna.
    Diverse sono, infatti, la struttura e la  funzione  della  udienza
 preliminare   rispetto  a  quelle  che  caratterizzano  la  fase  del
 dibattimento, cosi' come diversi sono, per tipologia e denominazione,
 i relativi epiloghi decisor/'. Cio' spiega la ragione per la quale il
 legislatore delegante  ha  ritenuto  di  limitare  ai  soli  casi  di
 "evidenza"   le   ipotesi   in   cui   il   giudice  puo'  apprezzare
 l'infondatezza della imputazione e pronunciare sentenza di non  luogo
 a  procedere  con le formule in fatto, cosi' precludendo una sorta di
 giudizio  anticipato  che  incrinerebbe  non  poco   quella   marcata
 "autonomia"  del  dibattimento  che  lo  stesso  sistema  accusatorio
 ontologicamente  postula.  Ma  la   diversita'   "quantitativa"   che
 caratterizza  l'apprezzamento  del merito che si compie nella udienza
 preliminare rispetto a quello riservato all'organo del  dibattimento,
 e che si esprime attraverso la peculiare regola di giudizio di cui si
 e'  detto,  non  solo  non esclude ma, anzi, dimostra che e' l'intero
 merito a dover essere valutato dal giudice, giacche'  altrimenti  non
 sarebbe l'imputazione a costituire il tema del giudizio ma solo parti
 della stessa che sarebbe arbitrario enucleare.
    In  un  simile  quadro  d'assieme,  finisce  allora  per  divenire
 superfluo  esaminare  se  ed  in  quale  misura   possano   utilmente
 soccorrere  i princip/' affermati nella sentenza n. 175 del 1971, sui
 quali, invece, si e' integralmente attestata l'Avvocatura.
    Puo' semmai  osservarsi  che  la  regola  della  prevalenza  delle
 formule  di merito rispetto alla causa estintiva del reato ha trovato
 puntuale recepimento nella direttiva di cui  al  numero  11),  ultima
 parte,  dell'art.  2  della legge-delega, cosicche', assumendo quella
 regola connotazioni tali da farla assurgere  a  valore  di  principio
 generale,  se  ne puo' trarre il convincimento che la stessa si renda
 applicabile in tutte le ipotesi in cui il  medesimo  delegante  ha  -
 come  nel  caso  dell'udienza  preliminare  -  affidato al giudice il
 compito di pronunciarsi sul merito e sulla causa  estintiva.  Essendo
 dunque  "merito",  per  stare  agli  esempi  gia'  fatti, l'accertata
 inesistenza dell'elemento psicologico del reato o la presenza di  una
 causa di giustificazione, e dovendo queste situazioni prevalere sulla
 eventuale  causa di estinzione del reato, sempre che si propongano in
 termini di "evidenza", puo'  desumersi,  anche  per  questa  via,  la
 compatibilita'  della  norma impugnata con le direttive tracciate dal
 legislatore delegante.