Ricorso della regione Veneto  nella  persona  del  presidente  pro-
 tempore  della  giunta regionale debitamente autorizzato con delibera
 della giunta n. 839 del  1½  marzo  1993,  immediatamente  esecutiva,
 rappresentata  e  difesa  giusta  mandato a margine del presente atto
 dagli avvocati prof. Giorgio Orsoni e Romano Morra in Venezia e Fabio
 Lorenzoni  di  Roma,  con  domicilio  eletto  presso  lo  studio   di
 quest'ultimo  in Roma, via Alessandria, 130, contro il Presidente del
 Consiglio dei  Ministri  in  punto  dichiarazione  di  illegittimita'
 costituzionale degli artt. 50, 51 e 52 del d.lgs. 3 febbraio 1993, n.
 29, pubblicato nel supplemento ordinario della Gazzetta Ufficiale del
 6  febbraio  1993  recante  "Norme in materia di organizzazione nelle
 amministrazioni pubbliche, in attuazione dell'art. 2 della  legge  23
 ottobre 1992, n. 421".
                               F A T T O
    Con la legge di delega al Governo n. 421 del 23 ottobre 1992, sono
 state  dettate  norme  per  la razionalizzazione e la revisione delle
 discipline in materia di  sanita',  pubblico  impiego,  previdenza  e
 finanza territoriale.
    In  particolare,  nell'art.  2  di  detta  legge  al  punto  b) si
 autorizza, tra l'altro il Governo a prevedere: " .. strumenti per  la
 rappresentanza   negoziale   della   parte   pubblica,   autonoma  ed
 obbligatoria, mediante  un  apposito  organismo  tecnico,  dotato  di
 personalita'  giuridica,  sottoposto  alla vigilanza della Presidenza
 del Consiglio dei Ministri ..".
    La norma in questione, in sostanza,  prevede  che  l'organismo  di
 carattere tecnico e dotato di personalita' giuridica, cui partecipano
 le  rappresentanza  delle  Regione  per  la  formazione  dell'accordo
 sindacale  in  sede  di  contrattazione  collettiva,   puo'   operare
 unicamente  "in  conformita'  alle direttive impartite dal Presidente
 del Consiglio dei Ministri".
    Tale vincolo e' in contrasto con l'art. 117 della Costituzione che
 attribuisce  alle  regioni  la  potesta'  di  emanare, nei limiti dei
 principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, norme legis-
 lative relative agli ordinamenti degli uffici, e con l'art. 97  della
 Costituzione   che  assicura  il  buon  andamento  e  l'imparzialita'
 dell'amministrazione.
    La norma di cui all'art. 2, primo comma, punto d), della legge  23
 ottobre  1992, n. 421, e' stata impugnata avanti Codesta ecc.ma Corte
 per la dichiarazione di incostituzionalita' della medesima in  quanto
 in contrasto con l'art. 117 della Costituzione.
    Il  d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, in attuazione dell'art. 2 della
 legge 23 ottobre 1992, n.  421,  ha  dettato  "Norme  in  materia  di
 organizzazione e rapporto di lavoro nelle amministrazioni pubbliche".
 Le  norme  di  cui  agli  articoli 50, 51 e 52 del richiamato decreto
 legislativo sono in contrasto con l'art. 117 e 97 della  Costituzione
 per  gli stessi motivi dedotti con il ricorso avverso l'art. 2, primo
 comma, punto d), della legge 23 ottobre 1992, n.  421,  che,  quindi,
 integralmente si riporta.
                             D I R I T T O
    Un  costante  orientamento della Corte costituzionale manifesta la
 prioritaria  e  inderogabile  necessita'  di  garantire   l'autonomia
 regionale  nelle  materie  di propria competenza, di cui all'art. 117
 della Costituzione.
    Con sentenza n. 219 del 25 luglio 1984 la Corte  ha  affrontato  i
 problemi di costituzionalita' della legge 29 marzo 1983, n. 93 (legge
 quadro  sul  pubblico  impiego)  dal punto di vista delle garanzie di
 autonomia delle regioni a statuto ordinario.
    In   quella   occasione   e'   stato   affrontato   il    problema
 dell'incompatibilita'  con  il  principio costituzionale di autonomia
 regionale dell'art. 10, ultimo comma, della legge  n.  93/1983  nella
 parte  in cui imponeva alle regioni una perfetta corrispondenza delle
 leggi regionali di recepimento dell'accordo  sindacale  al  contenuto
 dello     stesso,     dichiarando    fondata    la    questione    di
 incostituzionalita'.
    La  norma,  infatti,  non  lasciava  alcuno  spazio  all'autonomia
 regionale  in  sede di formulazione della legge di approvazione degli
 esiti della contrattazione collettiva.
    In seguito  a  tale  pronuncia  la  disposizione  veniva  pertanto
 modificata  nel senso indicato dalla Corte costituzionale con legge 8
 agosto 1985, n. 426. L'art. 10 cosi'  novellato,  infatti,  fa  salvo
 che,   la   disciplina   contenuta   nell'accordo   e  approvata  con
 provvedimento regionale in conformita' ai sigoli  orientamenti,  puo'
 esere   oggetto   dei   necessari   adeguamenti   alle   peculiarita'
 dell'ordinamento degli uffici regionali e  degli  enti  pubblici  non
 economici   dipendenti   dalle   regioni   entro   il   limite  delle
 disponibilita' finanziarie all'uopo stanziate nel bilancio regionale.
    L'imposizione,  contenuta  nella  norma  impugnata   all'organismo
 tecnico  di  operare  in  conforita'  alle  direttive  impartite  dal
 Presidente del Consiglio dei  Ministri,  in  sede  di  contrattazione
 collettiva,  ripropone ora una inammissibile ingerenza nell'autonomia
 regionale in materia ad essa devoluta dalla Costituzione.
    Ancor  piu'  evidente  e' l'incostituzionalita' dell'art. 50 della
 normativa delegata qui impugnata che avrebbe dovuto  disciplinare  la
 costituzione  di un organismo tecnico per la rappresentanza negoziale
 della parte pubblica, mentre di fatto  si  limita  a  disciplinare  i
 rapporti  tra  questo  e la Presidenza del Consiglio dei Ministri. In
 tal modo l'agenzia non e' organicamente collegata al sistema regioni-
 enti  locali  per  la  contrattazione  che  li  riguarda.  Ne'   tale
 articolazione puo' essere demandata a quell'atto regolamentare che la
 norma  delegata  riserva alla stessa agenzia, giacche' se le garanzie
 delle prerogative regionali fossero affidate ad un  atto  interno  di
 autoorganizzazione  dell'agenzia,  la  stessa  previsione  di  questo
 potere regolamentare confliggerebbe con la Costituzione.
    La  Corte  costituzionale  ebbe  successivamente  a   pronunciarsi
 confermando,  con  sentenza  n.  1003 del 27 ottobre 1988, il proprio
 precedente orientamento di tutela delle prerogative regionali.
    La stessa dichiarava, infatti, che non spetta allo Stato  recepire
 nel  d.P.R.  13  maggio 1987, n. 268, le norme dell'accordo sindacale
 stipulato il 28 aprile 1987 per la  parte  concernente  il  personale
 delle  regioni  e conseguentemente annullava lo stesso decreto, nella
 parte in cui estendeva la propria efficacia a tale personale.
    La Corte ha voluto, con tale  sentenza,  riaffermare  con  estrema
 incisivita'  che  si  deve  escludere  in ogni caso un intervento del
 Governo o di  altri  organi  che  si  interpongano  tra  gli  accordi
 sindacali ed il provedimento di approvazione regionale.
    La   Corte  ha  affermato,  infatti,  che  questa  ingerenza  puo'
 condizionare indebitamente la sfera di  autonomia  costituzionalmente
 garantita alle regioni attraverso vincoli di contenuto che un decreto
 presidenziale o un altro atto puo' essere in grado di determinare nei
 confronti del successivo provvedimento regionale.
    Tale  possibilita'  viene  attribuita  dalla  norma  impugnata con
 particolare incisivita'; vista la speciale  prerogativa  riconosciuta
 al  Presidente  del  Consiglio  in  sede di definizione del contenuto
 dell'accordo collettivo. Anche qui la normativa delegata all'art.  51
 riserva  al  Governo  la  decisione  finale  circa l'approvazione dei
 contratti stipulati dall'agenzia anche per le regioni, per  un  verso
 confermando  la  illegittimita'  della legge delegante gia' impugnata
 dalla regione Veneto, e per  altro  rinnovando  la  violazione  della
 Costituzione che qui appunto si eccepisce.
    Con ulteriori sentenze nn. 217 e 1001 rispettivamente del 3 giugno
 1987  e  del  27  ottobre  1988  la  Corte costituzionale ha posto in
 rilievo come l'accordo collettivo ha  la  rilevanza  di  un  atto  di
 cooperazione  fra  le parti sociali e le parti pubbliche direttamente
 interessate alla disciplina normativa del personale e degli uffici.
    Nell'operare  il  delicato  bilanciamento  delle  forze  e   degli
 interessi  in gioco, la legge quadro sul pubblico impiego ha previsto
 una serie di  garanzie  attinenti  alle  condizioni,  alle  modalita'
 procedurali  ed ai tempi degli accordi, nonche' alla formazione delle
 delegazioni stipulanti, affinche' quegli accordi siano  in  grado  di
 assolvere  alla  complessa  funzione  politica  e costituzionale loro
 demandata.
    La necessita' di realizzare sia  il  principio  di  contrattazione
 collettiva  sia il principio dell'autonomia legislativa delle regioni
 ha portato ad una procedura in cui ciascuna  regione  e'  legittimata
 dalla  legge  a  partecipare,  in piena autonomia, ad ambedue le fasi
 fondamentali del procedimento: sia alla fase  contrattuale,  mediante
 la  presenza  di un proprio rappresentante nella delegazione di parte
 pubblica costituita per la  stipula  degli  accordi,  sia  alla  fase
 normativa,  mediante l'approvazione con provvedimento regionale degli
 accordi stipulati.
    La norma di cui all'art. 2, lett. b),  della  legge  n.  421/1992,
 invece,  vuole  condizionare  la legge regionale di recepimento ad un
 previo  procedimento  che  non  e'  di  per  se'  ne'  regionale  ne'
 legislativo.
    Gia'  una  precedente  bozza  di disegno di legge, presentata alla
 Camera dei deputati dal competente Ministro, riconosceva un  limitato
 intervento  di  direttiva  al  Presidente  del  Consiglio, compensato
 tuttavia da un altrettanto valido e quanto mai necessario  potere  di
 direttiva  riconosciuta  alle  rappresentanze delle amministrazioni e
 degli enti interessati.
    Tale disegno faceva proprie le pronunce della Corte costituzionale
 in materia e contemperava i diversi poteri di intervento cercando  di
 salvaguardare, almeno in parte, l'autonomia regionale.
    Nell'attuale  legge  di  delega  al  Governo,  e  nella  normativa
 delegata, invece, ogni garanzia  di  tale  autonomia  risulta  essere
 vanificata.
    Da  ultimo  si  rileva  che  la  legge quadro sul pubblico impiego
 attribuisce  al  Consiglio  dei  Ministri  solo  ed   unicamente   la
 possibilita'  di  autorizzare  o  meno la sottoscrizione dell'accordo
 confermando  al  suo  Presidente  una  mera  funzione  "notarile"  di
 presentazione  dello  stesso,  sotto  forma di decreto, al Presidente
 della Repubblica per la sua promulgazione.
    L'art. 6 della legge n. 93/1983 prevede, infatti, che l'intervento
 del  Consiglio  dei  Ministri  non  si  estende  alla  procedura   di
 formazione dell'accordo e di definizione del suo contenuto.
    La  legge  di  delega  impugnata dalla regione Veneto attribuisce,
 invece, al Presidente del Consiglio dei Ministri un  duplice  potere:
 uno  di impartire delle direttive vincolanti e l'altro di intervenire
 ed ingerirsi durante la formazione dell'accordo collettivo.
    Tale previsione si pone in contrasto con la legge 23 agosto  1988,
 n.  400,  contenente  la  disciplina  dell'attivita'  del  Governo  e
 l'ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in  quanto
 la  stessa  non riconosce a tale organo monocratico una competenza ad
 emanare direttive vincolanti.
    Vi e' inoltre un  conflitto  con  la  legge  quadro  sul  pubblico
 impiego  in  quanto  la  stessa  escludeva  che addirittura lo stesso
 organo collegiale del Consiglio  dei  Ministri  potesse  influire  in
 qualunque forma sulla libera contrattazione collettiva.
    Si  puo'  pertanto  ravvisare  in  cio'  un  ulteriore  motivo  di
 ingerenza e violazione dell'autonomia regionale  in  materia  di  sua
 esclusiva competenza.
    Infine,  con  l'art. 52 si disciplina al quarto comma una forma di
 concorso nelle spese da parte di altre amministrazioni pubbliche  con
 i  rispettivi  bilanci  senza  rispettare  l'insegnamento  di Codesta
 ecc.ma Corte di cui alla sentenza n. 369 del 27 luglio 1992.