ha pronunciato la seguente
                               ORDINANZA
 nel  giudizio  di  legittimita' costituzionale dell'art. 640, secondo
 comma, numero 1, del codice penale, promosso con ordinanza emessa  il
 12  maggio  1992  dal  Tribunale  di  Rieti nel procedimento penale a
 carico di Volpe Sergio ed altri, iscritta  al  n.  484  del  registro
 ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
 n. 39, prima serie speciale, dell'anno 1992;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri;
    Udito nella camera di consiglio del 10 febbraio  1993  il  Giudice
 relatore Giuliano Vassalli;
    Ritenuto  che il Tribunale di Rieti, dopo aver premesso come, alla
 luce   della   evoluzione   subita    dal    quadro    normativo    e
 giurisprudenziale,  abbia finito per prevalere la "tesi privatistica"
 che assegna  carattere  d'impresa  alla  attivita'  di  raccolta  del
 risparmio  e di esercizio del credito, indipendentemente dalla natura
 pubblica o privata degli enti che la  esercitano,  cosicche'  risulta
 parificata  "la  qualificazione  soggettiva  dei  dipendenti bancari"
 essendo ormai priva di rilievo, a tal fine, la  natura  dell'istituto
 cui   fanno   capo,   ha  osservato  che,  mentre  nella  ipotesi  di
 appropriazione  indebita  il  patrimonio  dell'ente   creditizio   e'
 garantito  allo  stesso  modo  a  prescindere dalla natura pubblica o
 privata dell'ente,
   ove l'aggressione sia stata realizzata mediante frode il patrimonio
 della banca e' diversamente tutelato sul piano penale a  seconda  che
 si  tratti di ente pubblico o privato, anche se nelle due fattispecie
 poste a raffronto (appropriazione indebita e truffa) identica e'  "la
 natura   del   bene   protetto   (l'integrita'  del  patrimonio),  la
 qualificazione soggettiva dell'autore del reato (operatore  bancario)
 e   la   natura   privatistica   e   imprenditoriale   dell'attivita'
 esercitata";
      che, alla stregua delle riferite considerazioni,  il  giudice  a
 quo  solleva, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione
 di legittimita' dell'art. 640, secondo comma, numero  1,  del  codice
 penale,  ponendo  a  fondamento della propria censura l'irragionevole
 disparita' di trattamento sanzionatorio tra l'operatore bancario  che
 risponde  di  truffa in danno di un istituto di credito privato (art.
 640, primo comma, del codice penale) e  quello  che  ha  commesso  il
 medesimo  reato  ai  danni  di un ente creditizio pubblico (art. 640,
 secondo comma, n. 1, dello stesso codice),  in  relazione,  altresi',
 all'identico  trattamento  che  viene  invece riservato ad entrambi i
 soggetti  nella  distinta  ipotesi  della  appropriazione   indebita,
 parimenti  iscritta  nel  Capo  II, Titolo XIII, Libro II, del codice
 penale, dedicato ai "delitti contro il patrimonio mediante frode";
      che nel giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio  dei
 ministri,  rappresentato  e  difeso  dalla  Avvocatura Generale dello
 Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o  non
 fondata;
    Considerato  che  se,  da un lato, l'inquadramento della ordinaria
 attivita' bancaria nella sfera del privato si e' rivelata  produttiva
 di  immediati  effetti in ordine alla configurabilita' di determinate
 fattispecie che si tipizzano in ragione  della  particolare  qualita'
 del   soggetto   attivo   del   reato,   cosicche'   si   e'  esclusa
 l'applicabilita', nei  confronti  dei  dipendenti  delle  aziende  di
 credito  di diritto pubblico, "delle norme penali previste dal Capo I
 del Titolo Secondo del codice penale,  perche'  gli  impiegati  degli
 enti  creditizi  pubblici,  quando  esercitano  detta  attivita', non
 esercitano una pubblica funzione amministrativa" (v. Sentenza n.  309
 del 1988), deve per altro verso rilevarsi come la natura privatistica
 che  caratterizza  l'attivita' del credito non possa ritenersi in se'
 idonea ad escludere la qualita' pubblica dell'ente che  la  esercita,
 ove  tale  qualita'  risalti,  come nella specie, ai fini di una piu'
 penetrante tutela che l'ordinamento  appresta  quando  gli  interessi
 generali di cui l'ente e' portatore sono offesi dal reato;
      che  la ontologica ragionevolezza della tutela rafforzata di cui
 l'ente pubblico gode svela, pertanto, l'infondatezza della doglianza,
 la  quale  pretende  di  assumere  a  fondamento  della  censura  una
 disparita'  di  trattamento che trova invece adeguata giustificazione
 nella diversa qualita', non  dei  soggetti  attivi,  ma  delle  parti
 offese dal delitto di truffa;
      che,  d'altra parte, non potendosi il delitto previsto dall'art.
 640 del codice penale  iscrivere  nel  novero  dei  cosiddetti  reati
 propri,  la circostanza che il delitto stesso sia stato realizzato da
 un dipendente di una azienda di credito evoca una questione  di  mero
 fatto  che  non  incide  sulla  struttura della fattispecie, giacche'
 identico permane il trattamento sanzionatorio anche nella ipotesi  in
 cui il reato sia commesso da un "estraneo" alla azienda;
      e  che,  di  conseguenza,  la  questione  deve essere dichiarata
 manifestamente infondata;
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo  1953,  n.
 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti
 alla Corte costituzionale;