IL TRIBUNALE
   Ha  pronunziato  la  seguente  ordinanza sulla richiesta di riesame
 proposta in data 25 marzo 1993 da Mamone Francesco nato a Drapia il 6
 giugno 1928, avverso il decreto in data 12 marzo 1993, con  il  quale
 il  giudice  per  le  indagini  preliminari  del  tribunale  di  Vibo
 Valentia, su richiesta del procuratore della Repubblica, ha  disposto
 il  sequestro preventivo ex art. 321 del c.p.p. di beni mobili, conti
 correnti  bancari  e  beni  immobili  appartenenti  ad  esso  Mamone,
 indagato  per "il reato p. e p. dell'art. 12-quinquies della legge n.
 356/1992 e succ. modd. perche', essendo gia' indagato per i reati  di
 cui  agli  artt.  644 e 648- ter del c.p., risulta essere titolare ed
 avere la disponibilita' di denaro e beni di valore sproporzionato  al
 proprio  reddito,  dichiarato ai fini delle relative imposte, ed alla
 propria attivita' economica,  dei  quali  non  puo'  giustificare  la
 legittima provenienza. Accertato in Tropea sino al 17 novembre 1992";
    Sentita la relazione del presidente e le conclusioni del p.m.;
    Considerato  che  con  i  motivi  della  richiesta  in  Mamome  ha
 sollevato  questione  di  legittimita'  costituzionale  della   norma
 incriminatoria  di  cui  all'artt.  12-quinquies della legge 7 agosto
 1992, n. 356 e ss. mm., sulla quale il sequestro e': fondato;
                              R I L E V A
    Vi e' prova documentabile in atti:
      1) che negli ultimi sei anni Mamone Francesco ha  dichiarato  al
 competente  ufficio  delle  imposte,  ai  fini Irpef un reddito medio
 imponibile di L. 13.000.000 mentre la  moglie,  Mamone  Vittoria,  un
 reddito  di L. 8.000.000 (cfr. rapporto del n.r.c.t. della guardia di
 finanza  e  relativi  allegati),  pur  essendo  risultato  il  Mamone
 proprietario,  almeno  alla  strgua  delle  prime  indagini, di n. 19
 appezzamenti  di  terreno  e  di  n.  58  appartamenti   e/o   unita'
 immobiliari   nonche'   titolare   di   liquidita'  bancarie  e/o  di
 partecipazione societaria valutabili in oltre  L.  700.000.000  (cfr.
 sempre  rapporto della guardia di finanza e relativi allegati nonche'
 verbali di interrogatorio dell'indagato al p.m. del  24  marzo  1993,
 nel  corso  del  quale  questi  ha  ammesso  di  avere,  in  corso di
 restituzione, mutui bancari ipotecari per L. 1.200.000.000;  elemento
 univocamente  sintomatico  di  un  sua  solida  posizione  economca e
 patrimoniale);
      2) che nei confronti del Mamone "pende procedimento penale"  per
 i  delitti di cui agli artt. 644 (usura) e 648- ter del c.p. (impiego
 di denaro, beni o utilita' di provenienza illecita).
    Non vi e' dubbio, pertanto  che  ricorrano  nella  fattispecie  le
 condizioni   per  l'emissione  dell'impugnato  decreto  di  sequestro
 preventivo di  beni  che  si  assumono  essere  nella  disponibilita'
 dell'indagato   e   la   cui   legittima   provenienza  sia  ritenuta
 fondatamente, in ragione della palese gravissima sproporzione fra  il
 loro valore ed il reddito dal prevenuto dichiarato, non giustificata;
 trattandosi, tra l'altro, di cose costituenti corpo di reato e di cui
 e'  obbligatoria  la  confisca  a  norma dell'ultima alinea dell'art.
 12-quinquies della legge n. 356/92 e succ. modd.
    Ne',  per  quanto  qui  interessa,  puo'  ritenersi  di   quanlche
 fondatezza  la  tesi prospettata dalla difesa dell'indagato col primo
 motivo di riesame, secondo cui "l'imputazione  ex  art.  12-quinquies
 della legge n. 356/1992 e succ. modd. ruoterebbe - nel caso - intorno
 al   concetto   di   quella   stessa   presunta   impossibilita'   di
 giustificazione  della  provenienza dei beni che era stata assunta in
 pregressi  procedimenti  penali  come  spia  dell'allora   contestato
 coinvolgimento del Mamone Francesco in attivita' penalmente rilevanti
 ai  sensi  degli artt. 416- bis e 644 del c.p." (cosi' testualmente),
 con conseguente violazione del principio del ne bis in idem enunciato
 dall'art. 649 del c.p.p.
    Puo' osservarsi, infatti, a  tale  specifico  proposito,  come,  a
 prescindere  da ogni altra pur possibile considerazione di diritto, i
 procedimenti sia di cognizione che di prevenzione ai quali  in  tempi
 precorsi il Mamone e' stato sottoposto e conclusisi con provvedimenti
 oramai  definitivi  a  lui ampiamente favorevoli (cfr. documentazione
 prodotta dalla difesa), si riferiscono a  condotte  consumatesi  sino
 agli   anni  1984/85,  mentre  le  indagini  relative  sia  ai  reati
 presupposti di cui agli artt. 644 e 648- ter del c.p., che  a  quello
 derivato  di cui all'art. 12-quinquies della legge n. 356/1992, poste
 a fondamento della misura cauatelare reale impugnata col  reclamo  di
 cui  ci  si  occupa concernono attivita', ipotizzate come delittuose,
 compiute dal Mamone anche in epoca  sucessiva  agli  anni  1984/85  e
 perduranti sino al novembre 1992. Dovendosi inoltre rimarcare che dai
 dati  documentali  acquisiti  agli  atti  d'indagine sulla situazione
 patrimoniale immobiliare del prevenuto non e' possibile ricavare se i
 beni sequestrati si identifichino sia pure parzialmente  o  meno  con
 quelli  considerati  nei  precorsi  provvedimenti  in data 9 dicembre
 1987, 5 maggio 1988 del tribunale di Catanzaro ed in quello in data 8
 novembre 1989 della corte di appello di Catanzaro.
    Tutto quanto sopra premesso conduce  il  collegio  a  ritenere  la
 evidente   rilevanza   della   sollevata  questione  di  legittimita'
 costituzionale giache' il presente procedimento di riesame  non  puo'
 essere definito indipendentemente dalla sua risoluzione.
    La questione, per altro, non e' manifestamente infondata.
    Invero,  come e' stato gia' osservato dal tribunale di Salerno con
 ordinanza del 2 novembre 1992  pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale
 della  Repubblica  n.  5  del 3 febbraio 1993 ma anche dalla Corte di
 cassazione (ordinanza n. 746 del 22 febbraio 1993  depositata  il  12
 marzo  1993)  l'art.  12-quinquies  del  d.l. 8 giugno 1992, n. 306,
 coordinato con la legge di conversione 7 agosto 1992, n. 356, con  la
 modificazione  di  cui  all'art.  5 del d.l. 21 gennaio 1993, n. 14,
 reiterato dal d.l. 23 marzo 1993, n. 73,  prevede  come  ipotesi  di
 illecito   penale   perseguibile  il  possesso  o  in  ogni  caso  la
 disponibilita' ingiustificata di denaro, beni  o  altre  utilita'  di
 valore sproporzionato al reddito dichiarato o all'attivita' economica
 esercitata   da  parte  di  colui  nei  cui  confronti  sia  pendente
 procedimento penale per determinati delitti - fra i quali  quelli  di
 cui agli artt. 644 e 648- ter del c.p. - delineando quindi una figura
 di  reato  "proprio"  del quale soggetto attivo puo' essere colui che
 venga a trovarsi nella posizione processuale di imputato  o  anche  -
 come  nel caso - solamente di indagato, per alcuni fatti illeciti che
 si ritiene siano stati commessi dallo stesso sulla base  di  elementi
 indizianti  ancora  non sottoposti alla verifica del giudice circa la
 loro effettiva sussistenza, la loro idoneita' probatoria  e  la  loro
 riferibilita'  al  soggetto,  la  cui responsabilita' in relazione ai
 fatti che gli si addebitano in ogni caso  non  si  e'  accertata  con
 sentenza  definitiva  nel  momento  nel  quale sorge il sospetto e si
 consolida la condotta che  si  decrive  come  illecita  e  che  viene
 ancorata, da un lato, ad una sistuazione personale che potrebbe anche
 vanificarsi  nel  corso  del procedimento e, dall'altro, al parametro
 oggettivo della sproporzione tra il valore della disponibilita' e  il
 reddito  dichiarato  ai fini delle imposte sul reddito, richiedendosi
 al soggetto di fornire in tale ipotesi  la  prova  della  provenienza
 legittima dei beni (cosi' esaurientemente Cass. pen. sopra cit.).
    Puo' osservarsi che trattasi, in effetti di un paradigma criminoso
 che   suscita  e  fondate  perplessita'  prime  face,  circa  la  sua
 conformita' quanto meno ai principi:
       a) di ragionevolezza sottesa all'art. 3 della Costituzione;
       b) dell'inviolabilita' del diritto di difesa (art. 24,  secondo
 comma, della Costituzione);
       c)  della presunzione d'innocenza sino alla condanna definitiva
 (art. 27, secondo comma, della Costituzione).
    Cio'  ove  si  ponga  mentre,  in  riferimento  al  primo  profilo
 (possibile  contrasto  con  l'art.  3),  che  lo  stato soggettivo di
 indagato per taluni reati, che e' elemento costitutivo del delitto in
 questione,  prescinde  irragionevolmente  dagli  esiti   processuali,
 potenzialmente  opposti  (assoluzione/condanna) del reato o dei reati
 presupposti, di tal che il  colpevole  e  l'innocente  dei  "delitti-
 sorgente",  subiscono il medesimo trattamento processual-penalistico,
 con risultati palesemente aberranti ed ab intrinseco ingiusti.
    Sotto gli altri due profili appare  sufficiente  rilevare  che  la
 norma  incriminatrice  sembra  costringere  il  soggeto  che  intende
 sottrarsi  al  procedimento,  ad   abbandonare   ogni   comportamento
 processualmente passivo, pur garantito dall'ordinamento ad ogni altro
 imputato  - il quale ha diritto di attendere inerte che il p.m. provi
 l'accusa - obbligandolo ad attivarsi per giustificare la legittimita'
 della accumulazione  patrimoniale  sospetta,  in  contrasto  sia  col
 diritto  del cittadino di difendersi anche con il silenzio - art. 24,
 secondo comma - sia  con  la  presunzione  di  non  colpevolezza  che
 assiste  ogni imputato ed a fortiori ogni indagato sino alla condanna
 definitiva (cosi' sostanzialmente anche Cass. pen., sezione  seconda,
 ord. del 17 febbraio 1993).