ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 15 della  legge
 19  marzo  1990,  n.  55, cosi' come modificato dall'art. 1, commi 1,
 lett. b, e 4- bis, della legge 18 gennaio  1992,  n.  16  -  rectius,
 dell'art.  15, commi 1, lett. b, e 4- bis, della legge 19 marzo 1990,
 n. 55, come modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16
 - (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti
 locali), promosso con ordinanza emessa il  14  luglio  1992  dal  TAR
 della Calabria sul ricorso proposto da Tursi Prato Giuseppe contro la
 Presidenza del Consiglio dei ministri ed altri, iscritta al n. 27 del
 registro  ordinanze  1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
 Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell'anno 1993;
    Visto l'atto di costituzione  di  Tursi  Prato  Giuseppe,  nonche'
 l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
    Udito nell'udienza pubblica del 25 maggio 1993 il Giudice relatore
 Mauro Ferri;
    Uditi  l'avvocato  Mauro  Leporace  per  Tursi  Prato  Giuseppe  e
 l'Avvocato dello Stato Gaetano Zotta per il Presidente del  Consiglio
 dei ministri.
                           Ritenuto in fatto
    1. - Con ordinanza del 14 luglio 1992, il Tribunale amministrativo
 regionale  della  Calabria  ha  sollevato,  in riferimento all'art. 3
 della  Costituzione,   questione   di   legittimita'   costituzionale
 "dell'art.  15  legge  19  marzo  1990,  n. 55, cosi' come modificato
 dall'art. 1, commi 1, lett. b) e 4- bis, della legge 18 gennaio 1992,
 n. 16" (rectius, dell'art. 15, commi 1, lett.  b,  e  4-  bis,  della
 legge  19  marzo 1990, n. 55, cosi' come modificato dall'art. 1 della
 legge 18 gennaio 1992, n. 16), "nella parte in cui, per le ipotesi di
 reato ivi descritte, viene determinata la sospensione  dalle  cariche
 pubbliche  elettive  pure  ivi  elencate  dei  soggetti  che  abbiano
 riportato condanna penale anche non definitiva, senza che al riguardo
 venga operata  alcuna  distinzione,  in  relazione  alle  fattispecie
 penali  previste, fra condanne per reato tentato e condanne per reato
 consumato".
    Il  giudice  remittente  premette  che   il   ricorrente,   eletto
 consigliere  della Regione Calabria a seguito delle consultazioni del
 giugno 1990, ha impugnato il decreto del Presidente del Consiglio dei
 ministri del 10 giugno 1992 con il  quale  e'  stata  disposta  -  in
 applicazione  delle norme sopra menzionate - la sua sospensione dalla
 predetta  carica  per  essere  stato  condannato  (con  sentenza  del
 Tribunale di Cosenza) alla pena di due anni e otto mesi di reclusione
 per  il  reato  di  tentata concussione (sentenza avverso la quale il
 ricorrente ha proposto appello, giudizio tuttora pendente).
   Cio' posto, l'art. 1 della legge n. 16 del 1992 sancisce  al  primo
 comma    l'impossibilita'   di   essere   candidati   alle   elezioni
 amministrative - e comunque di ricoprire talune cariche elettive, fra
 le quali quella di consigliere regionale, rilevante nel caso di  spe-
 cie  -  per  coloro  che abbiano riportato condanna penale, anche non
 definitiva, per delitti fra i quali e' ricompresa la  fattispecie  di
 cui  all'art.  317  del  codice  penale (concussione); statuendosi al
 successivo comma 4- bis che, ove alcuna delle condizioni  di  cui  al
 comma  1,  intervenga  dopo  l'elezione  o  la nomina, essa "comporta
 l'immediata sospensione dalle cariche sopra indicate".
    Riveste dunque fondamentale importanza - prosegue il remittente  -
 la  problematica  della  interpretabilita'  o  meno delle fattispecie
 criminose previste dal legislatore non  soltanto  con  riguardo  alle
 ipotesi di reato consumato, bensi' anche a quelle di tentativo.
    Per  quanto  riguarda  il  tenore letterale della norma de qua, si
 rileva come alla  elencazione  dei  riferimenti  codicistici  recanti
 l'individuazione  delle  figurae criminis per le quali il legislatore
 ha ritenuto applicabile la misura sospensiva sopra ricordata sia  del
 tutto  estranea  la  esplicitazione del "tentativo" (e della relativa
 coordinata normativa, rappresentanta dall'art. 56 del codice penale).
    Il Collegio remittente afferma tuttavia di essere ben  consapevole
 della  intrinseca  fragilita'  argomentativa rappresentata da un iter
 logico unicamente svolgentesi attorno al rilevato dato  testuale.  Ed
 anzi  osserva  che  e'  proprio  la  letterale  non riscontrabilita',
 accanto alle figure  che  rappresentano  lo  stadio  consumativo  del
 reato, anche delle fattispecie di tentativo, a far ritenere possibile
 (e,  nel  caso  in esame, a valutare come positivamente realizzatasi)
 un'operazione di "apertura"  del  contenuto  della  norma,  idonea  a
 ricomprendervi anche le fattispecie criminose non perfezionatesi: con
 conseguente    omogenea   irrogabilita'   della   misura   afflittiva
 (sospensione dalla carica elettiva) a fronte  di  presupposti  penali
 (sia  pur  di  accertata  consistenza,  ma  pur  sempre)  di  diversa
 gravita', alla  quale  accederebbe  la  violazione  del  fondamentale
 principio  di eguaglianza, sancito all'art. 3 della Costituzione.  Il
 TAR, dopo aver richiamato le  argomentazioni  svolte  dalla  Adunanza
 Plenaria   del   Consiglio   di   Stato   nel  rimettere  alla  Corte
 Costituzionale - con  ordinanza  n.  15  del  29  giugno  1984  -  la
 questione  di  legittimita' dell'art. 85, lett. a) parte seconda, del
 d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 (nella  parte  in  cui  era  prevista  la
 destituzione  del  pubblico  dipendente a seguito di condanna in sede
 penale, senza distinguere a seconda che si fosse trattato di condanna
 per un delitto tentato o  consumato),  ribadisce  in  particolare  la
 configurazione  del  tentativo  in termini di alterita' rispetto alle
 fattispecie criminose  in  ordine  alle  quali,  di  volta  in  volta
 "aderendo"  la  norma  ex  art. 56 del codice penale (e per l'effetto
 venendosi  a  delineare   un'ipotesi   complessa   risultante   dalla
 combinazione  di  distinte  previsioni),  viene  appunto  ad assumere
 giuridico  rilievo  -  e  concreta  attitudine  sanzionatoria  -   la
 fattispecie  del  delitto  tentato.    Va poi osservato - prosegue il
 giudice a quo - come la punibilita' stessa del  delitto  tentato  non
 possa  comprendersi  disgiuntamente dalla volonta' del legislatore di
 reprimere comportamenti che, lungi dal rappresentare una  fattispecie
 direttamente  lesiva  per  l'ordinamento, si configurano invece quali
 evidenze di mero pericolo (e, quindi, di sola accentuata probabilita'
 di attitudine lesiva), senza che si sia ritenuta necessaria (ai  fini
 della  irrogazione  di  una  pur  attenuata  pena)  la  ricorrenza di
 quell'evento che pienamente integra la consumazione del reato.
    Tale ragionamento - e, con esso, la  evidente  distinguibilita'  a
 livello   stesso   di   allarme  o  danno  sociale  conseguente  alla
 commissione  di  fattispecie  delittuose  -  necessariamente   induce
 l'esigenza   di   differenziazione  del  reato  consumato  da  quello
 (semplicemente)   tentato:   laddove   tale   necessita'   e'   stata
 evidentemente  ritenuta  dal  legislatore  penale,  irragionevole  si
 manifesterebbe   la   reductio   ad   unum    operabile    attraverso
 l'omogeneizzazione  di  condotte  che,  diversificandosi  quanto alla
 percorrenza  dell'iter  consumativo  (o  di   perfezionamento   della
 fattispecie)  risultino  egualmente  idonee  a  condurre  a  medesime
 conseguenze afflittive.  Brevi considerazioni vanno infine condotte -
 conclude il remittente - in relazione  alla  peculiarita'  afflittiva
 recata dalle disposizioni in esame.
    Con esse, infatti, viene ad operarsi una pratica "sterilizzazione"
 (ancorche'  non  necessariamente definitiva) del mandato elettivo dai
 cittadini conferito mediante lo svolgimento di libere elezioni.
    La gravita' dell'atto che determina la sospensione dalla carica di
 un   rappresentante   elettivo   della   collettivita',   da   questa
 democraticamente   e  liberamente  designato  in  seno  al  Consiglio
 regionale, non puo' trovare conforto che nel  ristretto  e  tassativo
 ambito  discrezionalmente  disegnato  dal  legislatore  a presidio di
 superiori pubblici interessi che appunto consentono  di  disporre  la
 misura  della  temporanea  inibizione allo svolgimento della funzione
 pubblica elettiva.
    Se pertanto  l'assimilabilita'  di  conseguenze  sanzionatorie  si
 dimostra   irragionevole   e  lesiva  del  principio  di  trattamento
 paritario ove conseguente ad  accertate  responsabilita'  penali  per
 reati   consumati   o   (solamente)  tentati,  rincarata  valenza  di
 opinabilita', sotto il  profilo  della  legittimita'  costituzionale,
 riveste  una  siffatta  (consentita)  applicazione afflittiva ove con
 essa si vengano ad incidere, in maniera cosi' accentuata e pervasiva,
 i  diritti  di  elettorato attivo e passivo.   2. - E' intervenuto in
 giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  concludendo  per
 l'inammissibilita' o, comunque, l'infondatezza della questione.
    In  primo luogo, osserva l'Avvocatura dello Stato, la questione e'
 inammissibile per difetto di rilevanza,  in  quanto  dinanzi  al  TAR
 remittente  e'  stato chiesto l'annullamento del d.P.C.M. che avrebbe
 "sospeso" il ricorrente dalla carica: la sospensione, pero',  non  e'
 conseguita  al  decreto in parola, ma direttamente al verificarsi dei
 presupposti di  legge.  Quando,  pertanto,  l'interessato  agisce  in
 giudizio  per  vedere riconosciuto il proprio diritto a conservare la
 carica rivestita, agisce a tutela di un diritto soggettivo e  non  di
 un  interesse  legittimo,  con  conseguente giurisdizione del giudice
 ordinario.
    La   questione   e',   comunque,   ad   avviso    dell'Avvocatura,
 manifestamente infondata.
    La  tesi del giudice remittente si fonda tutta sul presupposto che
 la sospensione (e poi la decadenza) di cui all'art. 1 della legge  n.
 16/1992  abbia  natura  sanzionatoria in relazione a comportamenti di
 rilevanza penale, elencati al primo comma, per i quali  l'autore  sia
 stato riconosciuto colpevole in sede giudiziaria.
    Cio' non e' esatto.
    Le ipotesi previste nella norma in questione prevedono casi di non
 "candidabilita'"   (e   quindi,   in   definitiva,   nuovi   casi  di
 ineleggibilita') che il legislatore ha  ritenuto  di  configurare  in
 relazione  al fatto che l'aspirante candidato abbia subito condanne o
 misure  di  prevenzione  per  delitti  connotati  da  una   specifica
 capacita'  criminale  e/o  di  particolare  gravita'  (cfr.  sent. n.
 407/1992).   Si tratta,  in  sostanza,  di  "qualifiche  negative"  o
 "requisiti  negativi"  che  il legislatore ha ritenuto di individuare
 come cause ostative finanche alla  partecipazione  alla  competizione
 elettorale:   ovvio che, se seguono alla elezione, devono logicamente
 tradursi in decadenza dalle cariche conseguite (la  sospensione,  per
 suo  verso, non e' altro che la cautela acche' chi ha subito condanne
 non definitive non continui a  svolgere  le  funzioni  connesse  alla
 carica  di  cui e' titolare, in attesa del provvedimento definitivo).
 La decadenza (e la preordinata sospensione), dunque, non hanno natura
 di sanzione amministrativa che consegua al riconoscimento  giudiziale
 di  colpevolezza  in  relazione  a  talune ipotesi delittuose, bensi'
 costituiscono una nuova categoria di cause di ineleggibilita', che se
 sopravvengono alla elezione, si trasformano in cause di decadenza.
    La ragione cui si e' ispirato  il  legislatore  nel  delineare  la
 nuova  categoria della "non candidabilita'" e' quella di impedire che
 gli organi di governo delle amministrazioni locali  siano  "occupati"
 da  personaggi  che  abbiano conseguito condanne penali che rivestano
 particolare  qualificazione   negativa,   rilevando   una   capacita'
 criminale  che potrebbe mettere in pericolo il regolare funzionamento
 degli organi medesimi.
    Sotto  questo  profilo,  dunque,  non  interessa   che   i   reati
 contemplati  dal  primo comma dell'art. 1 in esame siano equiparabili
 quanto  a  gravita'  -  dato  che  per  tutti  e'  prevista  la   non
 candidabilita'   e   quindi   la  decadenza  ove  la  condanna  segue
 all'elezione -, quanto piuttosto, non avendo la non candidabilita'  o
 la  decadenza  natura sanzionatoria, che essi rivelino, a prescindere
 dalla loro gravita', una capacita' criminale tale che, a giudizio del
 legislatore,   il   soggetto   non  debba  neppure  partecipare  alla
 competizione elettorale o comunque non  debba  essere  eletto,  e  se
 eletto,  debba essere automaticamente privato della titolarita' della
 carica,  in  modo  tale  da  evitare   il   pericolo   che   l'azione
 amministrativa   possa   essere   inquinata   dalle   sue  pericolose
 inclinazioni a delinquere.
    In questa prospettiva e' di assoluta evidenza come il  peculatore,
 il  malversatore,  il  corruttore o il corrotto ecc. assolutamente in
 nulla differiscono da chi  abbia  tentato  di  peculare,  malversare,
 corrompere  ecc.,  ma sia stato impedito dal portare a termine il suo
 disegno criminoso da un intervento esterno.
    Quindi, non irragionevole trattamento eguale di due situazione di-
 verse, ma, al contrario, del tutto ragionevole trattamento eguale  di
 due situazioni che non differiscono.
    Osserva,  infine,  l'Avvocatura  dello Stato che l'interesse della
 collettivita' a vedere eliminata sul  nascere  ogni  possibilita'  di
 inquinamento  dell'azione  degli  organi  di governo locali supera di
 gran lunga l'interesse degli elettori  a  vedersi  rappresentati  dai
 propri  eletti.  E  poi,  e soprattutto, e' da ritenere che il legame
 fiduciario fra il corpo  elettorale  e  gli  eletti  viene  meno  nel
 momento  in  cui  questi  manifestino una capacita' criminale tale da
 tradire  la  fiducia  ottenuta  e  da   compromettere   il   corretto
 funzionamento dell'amministrazione pubblica.
    3. - Si e' costituito in giudizio il ricorrente nel giudizio a quo
 Tursi Prato Giuseppe, osservando principalmente che l'interpretazione
 data    dal    giudice    remittente   alla   norma   denunciata   di
 incostituzionalita' non puo' essere condivisa.
    Invero la mancata esplicita previsione  del  reato  tentato  nella
 elencazione  dei  reati  che  legittimano la sospensione dalla carica
 elettiva  impedisce  che  si  possa  ritenere   compresa   in   detta
 elencazione  la  figura  del  tentativo.  E' noto, infatti, che dalla
 combinazione della norma generale sul tentativo (art. 56  del  codice
 penale)  con le singole norme incriminatrici speciali derivano figure
 di reato  (quelle  appunto  dei  reati  tentati)  nuove  ed  autonome
 rispetto  a  quelle  dei  reati consumati. Figure nuove ed autonome a
 cui, pertanto, non si estendono automaticamente gli effetti giuridici
 sfavorevoli previsti dall'ordinamento  con  esplicito  richiamo  alle
 sole  ipotesi  di  reato  consumato,  a  meno  di  espressa contraria
 previsione, certamente necessaria in presenza  di  norme  di  stretta
 interpretazione qual e' quella in esame.
   Per contro, conclude la difesa della parte privata, la diversa tesi
 secondo  cui  anche  la  condanna non definitiva per il reato tentato
 legittimerebbe l'automatica  sospensione  da  consigliere  regionale,
 renderebbe  palesemente  fondata la questione di costituzionalita' di
 cui si tratta, in  quanto  verrebbe  il  legislatore  ad  equiparare,
 nell'adozione  di un identico provvedimento afflittivo cosi' grave (e
 di  dubbia   costituzionalita'   sotto   altri   profili),   soggetti
 responsabili  (rectius presumibilmente responsabili) di comportamenti
 considerati dall'ordinamento di gravita' assai diversa.
    4.  -  In  una  successiva  memoria,  la  parte  privata  contesta
 innanzitutto  la  eccezione  di  inammissibilita' della questione per
 difetto di rilevanza sollevata dall'Avvocatura Generale dello  Stato,
 e,  quanto al merito, ribadisce le argomentazioni svolte nell'atto di
 costituzione.
                        Considerato in diritto
    1.  - Il Tribunale amministrativo regionale della Calabria solleva
 questione di legittimita' costituzionale dell'art. 15, commi 1, lett.
 b), e 4- bis, della legge 19  marzo  1990,  n.  55  (come  modificato
 dall'art.  1  della legge 18 gennaio 1992, n. 16), nella parte in cui
 dette norme prevedono l'immediata sospensione dalla  carica  elettiva
 ricoperta  dei  soggetti  che  abbiano  riportato,  dopo  l'elezione,
 condanna non definitiva per alcuni delitti  specificamente  indicati,
 "senza che al riguardo venga operata alcuna distinzione, in relazione
 alle  fattispecie  penali  previste, fra condanne per reato tentato e
 condanne per reato consumato".
    Ad avviso del remittente, le norme impugnate violano il  principio
 di eguaglianza (art. 3 della Costituzione), in quanto irrazionalmente
 parificano,   assoggettandole   alla   identica   conseguenza   della
 automatica adozione del provvedimento di  sospensione  dalla  carica,
 situazioni   indubbiamente   differenziate,   essendo   evidente   la
 "alterita'" e minore gravita' delle  fattispecie  di  reato  (rectius
 delitto)  tentato  rispetto  alle corrispondenti fattispecie di reato
 consumato, come si evince dal fatto che lo stesso legislatore  penale
 ha previsto per le prime una norma di carattere generale (art. 56 del
 codice  penale)  che, di volta in volta "aderendo" alle varie ipotesi
 criminose tipiche, da' luogo ad una figura complessa ed autonoma  con
 pena diminuita.
    Tale denunciata equiparazione appare, poi, conclude il remittente,
 ancor  piu'  irragionevole nei casi in cui, come in quello sottoposto
 al suo giudizio, il provvedimento di  sospensione  colpisce  soggetti
 titolari di cariche elettive di diretta investitura popolare.
    2.  -  Il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  ha sollevato
 un'eccezione di inammissibilita',  basata  sull'asserito  difetto  di
 giurisdizione  del  TAR  remittente:  ad avviso dell'Avvocatura dello
 Stato l'impugnato provvedimento di sospensione  ha  natura  meramente
 dichiarativa   e   il  ricorrente  agisce  a  tutela  di  un  diritto
 soggettivo, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario.
    L'eccezione va rigettata.
    Secondo   la   consolidata   giurisprudenza   di   questa   Corte,
 dall'autonomia del giudizio incidentale di costituzionalita' rispetto
 a   quello   principale   discende   che,   in   sede   di   verifica
 dell'ammissibilita' della questione, la Corte medesima puo'  rilevare
 il  difetto  di  giurisdizione soltanto nei casi in cui questo appaia
 macroscopico,  cosi'  che  nessun  dubbio  possa  aversi  sulla   sua
 sussistenza  (cfr., da ultimo, sent. n. 163 del 1993 e precedenti ivi
 richiamati). Ora, non puo' ritenersi che nella fattispecie  in  esame
 ricorrano tali estremi, sol che si consideri la novita' ed atipicita'
 (almeno   quanto  ai  consiglieri  regionali)  del  provvedimento  di
 sospensione introdotto dalla normativa impugnata, provvedimento  che,
 inoltre, e' adottato non dall'organo cui l'interessato appartiene, ma
 con  "decreto  del  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  .. su
 proposta del Ministro dell'interno, di concerto con il  Ministro  per
 le riforme istituzionali e gli affari regionali, previa deliberazione
 del Consiglio dei ministri.".
    3.1.  -  Passando all'esame del merito, la Corte ritiene, in primo
 luogo, di doversi attenere  -  in  conformita'  al  proprio  costante
 orientamento - alla interpretazione della normativa impugnata fornita
 dal  giudice  a  quo  (e  contestata dalla difesa della parte privata
 costituita), nel senso della sua applicabilita' anche alle ipotesi di
 condanna per delitto tentato: e cio' in quanto tale interpretazione -
 cui il remittente e' pervenuto dopo ampia motivazione -  da  un  lato
 non  risulta  contraddetta  da  giurisprudenza  consolidata  di segno
 opposto, e, dall'altro, certamente non  puo'  giudicarsi  palesemente
 erronea,  tenuto  anche conto del fatto che la Corte di cassazione ha
 ribadito anche di recente il  principio  generale  secondo  cui,  pur
 costituendo  il  delitto  tentato  una figura criminosa autonoma, non
 puo' ritenersi che in ogni caso, quando la legge  si  limita  a  fare
 riferimento  alla  ipotesi  tipica, debba considerarsi esclusa quella
 tentata, dovendosi invece avere riguardo alla materia cui la legge si
 riferisce ed alla sua ratio onde stabilire se  sia  compresa  o  meno
 l'ipotesi del tentativo.
    3.2. - La questione non e' fondata.
    E'  utile  premettere  che  questa  Corte  ha ritenuto che persino
 l'equiparazione quoad poenam tra delitti consumati e delitti  tentati
 non  sia  di  per  se'  lesiva  del  principio  di  eguaglianza  (pur
 costituendo indubbiamente un'eccezione  ai  principi  ispiratori  del
 diritto  penale),  ma  che  rientri  nell'ambito  della discrezionale
 valutazione di politica criminale del legislatore, salvo, ovviamente,
 il limite della ragionevolezza (cfr. sentt. nn. 144 del 1974 e 26 del
 1979).
   Cio' posto, si e' gia' avuto modo piu' volte di evidenziare che  la
 ratio  posta a fondamento della legge 18 gennaio 1992 n. 16 (la quale
 ha,  in  sintesi,  introdotto  un'ampia   disciplina   in   tema   di
 eleggibilita'  e, in genere, di capacita' di assumere e mantenere una
 serie di cariche o incarichi di varia natura nelle  regioni  e  negli
 enti  locali)  e'  quella di assicurare la salvaguardia dell'ordine e
 della sicurezza pubblica, la tutela della libera determinazione degli
 organi  elettivi,  il  buon  andamento   e   la   trasparenza   delle
 amministrazioni  pubbliche, allo scopo di fronteggiare una situazione
 di  grave  emergenza  nazionale  coinvolgente  interessi  dell'intera
 collettivita',  connessi  a valori costituzionali di primario rilievo
 (cfr. sentt. nn. 407 del 1992, 197 e 218 del 1993).
    Appare pertanto evidente che la scelta discrezionale  operata  dal
 legislatore  di  equiparare - ai fini dell'adozione del provvedimento
 contemplato nelle norme impugnate - i soggetti condannati per delitto
 tentato  a  quelli  condannati  per  delitto  consumato   non   possa
 considerarsi   irragionevole:   considerate,   infatti,  le  indicate
 finalita' che la  legge  in  esame  intende  perseguire  e  il  ruolo
 ricoperto  dai soggetti interessati, non illogicamente si e' ritenuto
 di dare esclusivo rilievo alla capacita' criminale di questi  ultimi,
 a  prescindere dall'effettivo verificarsi dell'evento lesivo del bene
 giuridicamente protetto. Ne', ai fini della proposta  questione,  as-
 sume  alcun rilievo il fatto che possa trattarsi di soggetti titolari
 di cariche elettive di diretta investitura popolare, circostanza  cui
 il giudice a quo accenna non come autonoma censura, ma quale elemento
 di  accentuazione della presunta irragionevolezza della equiparazione
 operata dalla normativa in esame.