IL VICE PRETORE ORDINARIO
   Ha  pronunziato  in  data  12 maggio 1993 la seguente ordinanza nel
 procedimento esecutivo, iscritto nel r.g. es.  al  n.  237/19/91  tra
 Dinacci  Filippo,  quale  procuratore  di  se  stesso,  con studio in
 Napoli, alla via F.S. Lomonaco, 3, esecutante, contro  il  comune  di
 Procida,  in  persona del suo sindaco pro-tempore, domiciliato presso
 la casa municipale dell'ente, assistito dall'avv.  Enrico  Scotto  di
 Carlo, con studio in Procida alla via G. da Procida, 20, esecutato, e
 S.p.a.  Banco  di  Napoli,  agenzia  di  Procida,  nella  qualita' di
 tesoriere, in persona del suo legale rapp.te pro-tempore con sede  in
 Procida, terzo;
    Premesso che il creditore procedente, in forza di titolo esecutivo
 con  fonte  giudiziale  -  giudicato  -,  di  condanna  del comune di
 Procida, con atto del 29 gennaio 1991, assoggettava a pignoramento le
 somme in  possesso  del  tesoriere,  appartenenti  all'ente  comunale
 debitore detto; che questo giudice s'e' riservato di provvedere nella
 presente procedura, come in altre, contro la medesima p.a. debitrice;
 che  il  comune  di  Procida,  mentre  nella  presente  procedura  e'
 comparso, senza opporsi, in altre ha proposto opposizione (  ex  art.
 615,  secondo  comma, del c.p.c.) invocando, l'applicazione dell'art.
 25 della legge n. 144/1989 e dell'art. 16 del d.l.  n.  440  del  19
 novembre  1992,  avendo  gia'  deliberato il piano di risanamento, ex
 art. 25 citato;
    Rilevato che i giudici di questa pretura, in  altre  controversie,
 in  applicazione  del  combinato  disposto  di cui alle citate norme,
 nonche' dell'art. 12- bis della legge n. 80/1991  e  della  circolare
 ministeriale  del  15  maggio  1991,  f.l.  n.  19/1991  del Ministro
 dell'interno hanno ritenuto: a) l'obbligo, per la p.a. debitrice,  di
 procedere  al  riconoscimento  del  debito portato dal giudicato ( ex
 art. 12- bis della legge n. 80/1991), e, conseguentemente, quello  di
 inserimento  del  debito nella massa passiva del piano di estinzione;
 b) che solo in presenza di tale riconoscimento e dell'inserimento del
 debito nel piano detto, puo'  pararsi  di  fronte  la  necessita'  di
 valutare l'istanza, avanzata dal debitore, volta alla declaratoria di
 "cessazione"  della  procedura esecutiva, secondo l'art. 16 del d.l.
 n. 440/1992;
    Rilevato   che  detta  disposizione  (art.  16)  e'  stata,  prima
 riprodotta con il d.l. n. 8/1993 (art. 21) e, quindi, convertita  in
 legge  (legge n. 68/1993) ma con modificazioni e che, per il richiamo
 contenuto all'ottavo comma, le previsioni dell'art. 21  si  applicano
 anche   al   comune  di  Procida,  debitore  escusso,  che  delibero'
 l'adozione del piano di risanamento,  prima  dell'entrata  in  vigore
 dell'art. 21 citato;
    Rilevato che il terzo, all'udienza fissata per la sua comparizione
 (4-5-92),  ha  dedotto  sullo stato di dissesto della p.a. ed ha reso
 una dichiarazione di quantita' (che va interpretata  come)  positiva,
 mentre  la p.a. debitrice (comparsa con l'assistenza di un difensore)
 non ha comunicato se abbia o meno inserito, previo riconoscimento, il
 debito nel piano di estinzione;
    Rilevato che l'art. 21 della legge n. 68/1993, con la  previsione:
 "sono   dichiarate   estinte   dal   giudice,   previa   liquidazione
 dell'importo dovuto per capitale, accessori  e  spese,  le  procedure
 esecutive  pendenti  e  non  possono  essere  promosse  nuove  azioni
 esecutive" (a differenza dalla previsione  di  cui  all'art.  21  del
 d.l.  n. 8/1993, secondo cui dalla data di deliberazione di dissesto
 "cessano  le   azioni   esecutive"),   esclude   categoricamente   la
 possibilita'   di   interpretare   la  norma,  nel  senso  di  potere
 subordinare la declaratoria di "cessazione" della procedura esecutiva
 alla verifica dell'inserimento del debito nel piano di  estinzione  e
 lascia  intendere  che  i conseguenti rilievi possano essere tutti di
 "ufficio"; e  cio'  perche'  pare  chiaro  che  la  norma,  oggi,  ed
 inequivocabilmente,  instituisce  il  principio dell'inammissibilita'
 assoluta delle azioni esecutive individuali,  mentre  l'art.  21  del
 d.l.  n. 8/1993, da un lato, si limitava a prevedere la "cessazione"
 delle procedure esecutive, sicche', non potendo cessare cio' che  non
 aveva  avuto  inizio,  ne  legittimava  la  promuovibilita': (cfr. al
 riguardo i precedenti giurisprudenziali  di  questa  stessa  pretura:
 ord.  14  gennaio  1993, r.g. es. 178/19/92 in proc. IdealFood/comune
 Procida; ordinanza 15-18 marzo 1993, r.g. es.   1080-1081-1082/19/9z2
 in  proc.  Edilsigma/comune  Procida)  e,  dall'altro, subordinava la
 declaratoria di cessazione detta all'inserimento del debito del piano
 di estinzione, per effettuare il  quale  l'ente  poteva  invocare  la
 sospensione  della  procedura  esecutiva  (art.  25  della  legge  n.
 144/1989);
    Rilevato  che,  alla  luce  delle  modificazioni   apportate   dal
 legislatore  all'art.  21 citato, in sede di conversione in legge del
 d.l. n. 8/1993, va rivisitata l'intera  impostazione  interpretativa
 della  norma  che,  in  punto  di ammissibilita' dell'esecuzione, nei
 confronti  di  una  p.a.  debitrice,  incide   sino   a   sconvolgere
 l'orientamento giurisprudenziale sviluppatosi sulla materia (compreso
 quello  dei  giudici  di  questa  pretura;  vedi  i riferimenti sopra
 citati) ed i principi espressi dalla Corte costituzionale; sicche' si
 impone un approfondimento che, come  si  vedra',  pero',  non  potra'
 condurre    a    definitive   interpretazioni,   senza   l'intervento
 indispensabile della Corte costituzionale al riguardo e sotto i  piu'
 profili  della  norma che l'interpretazione induce a ritenere che sia
 sospetta di incostituzionalita', emergendo chiara la rilevanza  delle
 questioni,  sul  giudizio  in  corso;  giudizio  che l'art. 21 citato
 imporrebbe di definire con una mera pronunzia (di rito) di estinzione
 del processo, seppure in mancanza di opposizione o anche di  semplici
 istanze al riguardo.
             Primo profilo di sospetta incostituzionalita'
    Non  si  e'  mai sospettato (anzi e' stato sempre escluso) che una
 p.a. potesse, pur trovandosi in uno  stato  di  definitiva  impotenza
 patrimoniale  ad adempiere integralmente ed immediatamente le proprie
 obbligazioni, essere soggetta ad una esecuzione  collettiva  e,  meno
 che mai, ad una procedura di tipo concorsuale.
    La  ratio  di  tale  principio  si  collega  alla  logica  che, se
 l'inadempienza  e'  un  fatto  illecito,  che  lede  l'interesse  del
 creditore insoddisfatto, non e' tollerabile che una p.a. possa essere
 protagonista del fatto illecito detto, visto che la stessa (p.a.) e',
 poi, preposta istituzionalmente ad evitare che vengano commessi fatti
 illeciti e, quindi, a garantire che non vengano commessi tali fatti.
    La  norma  in  esame, invece, collide con i principi, espressi sul
 tema in numerose decisioni dalla  Corte  costituzionale,  sottrae  la
 p.a.  dalla  posizione istituzionale di garante ed assimila (rectius:
 tenta di assimilare) addirittura l'attivita' della stessa a quella di
 un soggetto-imprenditore privato debitore;  cio'  ingiustificatamente
 e,  per  giunta,  con  una  serie  di privilegi, per la p.a., che non
 trovano giustificazione alcuna, come appresso dovra' dirsi.
    Ripugna, peraltro, alla coscienza giuridica l'idea  che  una  p.a.
 possa "dissestare" (rectius: fallire o liquidare) in senso stretto.
    Sotto    tale    profilo    e    cioe'    quanto   alla   verifica
 dell'assoggettabilita' ad un'esecuzione collettiva di  una  p.a.,  la
 norma  pare,  dunque,  che violi gli artt. 2 e 3, secondo comma della
 Costituzione, attinenti le  garanzie  e  l'obbligo  di  rimozione  di
 ostacoli,    nonche'   l'art.   41,   attinente   il   riconoscimento
 dell'iniziativa economica, come valore costituzionale  e  l'attivita'
 di  controllo,  programma, indirizzo e coordinamento della iniziativa
 economica detta, anche con riferimento agli artt. 2082 del c.c.  e  1
 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (l.f.).
            Secondo profilo di sospetta incostituzionalita'
    Senonche',  a  parte le dette questioni (circa l'ammissibilita' di
 una procedura concorsuale, nei confronti di una  p.a.),  va  rilevato
 che  la  disposizione  in  esame  (art.  21),  nella  sua complessiva
 strutturazione,  pur  introducendo  norme  sussunte  da  quelle   che
 caratterizzano   l'esecuzione   collettiva   (cioe',   le   procedure
 concorsuali e sia quelle fallimentari che  quelle  liquidatorie),  e'
 totalmente  carente  di  quelle  tipiche  previsioni, la cui presenza
 soltanto   garantirebbe   il   perseguimento    dello    scopo    del
 soddisfacimento  dei  crediti;  sicche'  anche  sotto tale profilo e'
 sospetta di incostituzionalita', limitando le  azioni  ai  creditori,
 come adesso deve dirsi.
    La  norma  contiene:  le  previsioni della delibera dello stato di
 dissesto,  dell'esclusione  della  capitalizzazione  di   somme   per
 interessi  ed accessori, dell'inammissibilita' delle azioni esecutive
 individuali, del riparto "nei limiti della massa attiva" (e con  cio'
 ipotizza l'incapienza), dell'inammissibilita' di richieste di crediti
 di data anteriore all'approvazione del piano di estinzione.
    Tutte tali previsioni sono tipiche delle procedure concorsuali.
    La   norma,   poi,   postula  lo  "stato  di  insolvenza",  tipico
 presupposto della dichiarazione di fallimento, non sempre necessario,
 pero', nell'ipotesi di liquidazione (coatta amministrativa).
    Senonche',  si distingue dalle norme che disciplinano le procedure
 concorsuali   perche'   non   risulta   affatto   strumentale    alla
 realizzazione  dei  crediti;  la  stessa, cioe', non integra un mezzo
 tecnico,  apprestato  dall'ordinamento,  a   tutela   dei   creditori
 insoddisfatti.
    Le  norme  relative  alle procedure concorsuali ruotano intorno al
 principio  di  assicurare  la  par   condicio   dei   creditori,   in
 affermazione  del  principio  di eguaglianza, previsto dall'art. 2740
 del c.c.; nelle procedure  concorsuali  e'  l'interesse  generale  di
 tutti  i creditori che viene tutelato; con l'esecuzione collettiva si
 apre un concorso necessario di tutti i creditori e vengono sottoposti
 ad espropriazione  "tutti"  i  beni  del  debitore,  sui  quali  ogni
 creditore  ha  eguale  diritto  di  essere  soddisfatto; l'esecuzione
 collettiva realizza un regolamento giudiziale  di  tutti  i  rapporti
 sulla  base della par condicio, rendendo incompatibile, per tale solo
 motivo giustificatamente, l'inizio o la  continuazione  di  eventuali
 esecuzioni individuali.
    La  procedura,  instituita dall'art. 21, invece, non contiene tali
 fondamentali caratteristiche e, per  tali  ragioni,  e'  sospetta  di
 incostituzionalita'   la   norma   nella   parte   in   cui   prevede
 l'inammissibilita'  di  nuove  azioni  esecutive  individuali  e   la
 dichiarazione  di  estinzione di quelle pendenti, difettando cosi' al
 creditore  un'apprezzabile  tutela  mirata  al  soddisfacimento   del
 proprio  diritto;  cioe'  una  tutela  in  grado di assicurargli tale
 soddisfacimento.
    In effetti, lo stato di dissesto non viene dichiarato  ad  istanza
 del   creditore,  ma  dalla  stessa  p.a.  debitrice;  il  fallimento
 dell'imprenditore commerciale e', invece dichiarato con sentenza e lo
 stato di insolvenza, che conduce al decreto di  liquidazione  coatta,
 deve essere preventivamente accertato all'autorita' giudiziaria.
    La previsione, secondo cui il commissario o la commissione, di cui
 al  terzo  comma dell'art. 21, hanno titolo a "transigere vertenze in
 atto o pretese in corso" non assicura ai  creditori  alcun  controllo
 sull'attivita'   di   predisposizione   della  massa  passiva;  nella
 procedura fallimentare, invece, detto controllo  (come  quello  sulla
 formazione  dell'attivo),  oltre  a  quello del giudice, e' costante;
 nella liquidazione e', poi,  specificamente,  disciplinato  dall'art.
 198 della l.f.
    La  norma,  pur  ipotizzando  un  riparto, "nei limiti della messa
 attiva disponibile", non impone che siano liquidati  "tutti  i  beni"
 del debitore.
    La  norma  (diversamente  dagli artt. 42, 47 e 200 della l.f.) non
 sottrae al debitore la disponibilita' e  l'amministrazione  dei  suoi
 beni  (funzione  cautelare), assicurandone la consistenza (e, ove del
 caso, la produttivita'),  mediante  il  conferimento  del  potere  di
 conservazione, di amministrazione e di liquidazione agli organi della
 procedura  i quali, in contrario, sono chiamati ad una mera attivita'
 di  contabilizzazione;  anzi,  in  contrario,  consente   alla   p.a.
 dissestata  l'adozione  di una serie di misure destinate ad aumentare
 le  entrate,  senza  precludere  le  spese  (ed  almeno  quelle   non
 necessarie).
    La  norma  non garantisce, in danno dei creditori, l'accertamento,
 con indagine giudiziale e con efficacia definitiva, della consistenza
 e dell'entita' della massa passiva, nonche'  dell'ammontare  e  della
 natura  di  ciascun  credito:  il  commissario o la commissione hanno
 infatti  titolo (pare proprio senza limiti) a "transigere vertenze in
 atto o pretese in corso", come "giudici definitivi",  pur  difettando
 loro l'imparzialita' e senza alcun potere di interferenza, sulla loro
 attivita', da parte dei creditori; nella procedura fallimentare ed in
 quella  liquidatoria,  invece,  v'e' sempre l'opposizione contenziosa
 quale garanzia dell'interessato.
    La  norma  non  prevede  la  liquidazione  di   "tutti   i   beni"
 (disponibili)  attuali  e  futuri  (della  p.a.  debitrice),  per  il
 soddisfacimento dei  crediti;  e,  cio'  che  e'  altrettanto  grave,
 neppure   prevede   che   i  beni  (disponibili),  in  ipotesi,  gia'
 "sottratti" vengano (o possano essere) acquisiti alla  massa  attiva,
 attraverso  procedimenti  di revoca degli atti compiuti dal debitore.
 La norma non consente ai creditori alcun controllo in sede di riparto
 ed oltre a non prevedere (neppure tanto  comprensibilmente)  qualcuno
 degli  "effetti  personali"  (che le norme del r.d. del 1942, invece,
 collegano,  in  danno  del  debitore  o  degli  amministratori,  alla
 dichiarazione   di  fallimento  o  all'accertamento  dello  stato  di
 insolvenza, nel caso dell'art. 203 della l.f.),  non  prospetta  (qui
 certo   irrazionalmente)   la   perseguibilita'  (anche  penale)  dei
 responsabili  della  p.a.  dissestata,   ne'   prevede   che,   dalla
 dichiarazione  del  dissesto,  si produca qualcuno di quegli "effetti
 patrimoniali" che le norme concorsuali prescrivono, invece, e come e'
 ovvio, in  danno  dell'imprenditorefallito;  non  collega  alla  p.a.
 dissestata la perdita della capacita' di stare in giudizio; non detta
 previsioni  sul recupero dei crediti; non obbliga all'inventario; non
 prevede quali siano gli effetti della dichiarazione di  dissesto  sui
 giudizi  in  corso  e  rispetto  ai  rapporti giuridici pendenti, sui
 negozi giuridici (specie quelli onerosi) in corso di svolgimento, sui
 contratti  di  conto  corrente,  di   locazione,   di   appalto,   di
 assicurazione   etc.;   e'   carente   delle   previsioni   circa  la
 partecipazione dei creditori alla formazione del piano di riparto  ed
 alle   azioni   revocatorie;   non   disciplina  la  possibilita'  di
 "riapertura" della liquidazione.
    Da siffatti ragionamenti, allora non puo' che derivare il  rilievo
 che  la  singolare  procedura,  disciplinata  dall'art.  21,  non  e'
 assimilabile affatto ad una procedura concorsuale, difettando  com'e'
 delle   caratteristiche   e  della  logica  principali  e  che,  come
 strutturata, non  costituisce  una  forma  di  tutela  del  creditore
 giuridicamente apprezzabile.
    A  siffatta procedura, dunque, per le ragioni espresse, difetta il
 principale requisito dello  scopo  di  essere  "nell'interesse  della
 generalita'  dei  creditori"; sicche', laddove, poi, la norma prevede
 l'inammissibilita' delle azioni esecutive individuali, in danno della
 p.a. dissestata, e l'obbligo  della  declaratoria  di  estinzione  da
 parte  del  giudice  delle  procedure  esecutive pendenti, la stessa,
 ovviamente, si manifesta in contrasto con i  principi  costituzionali
 ed in particolare con l'art. 24.
    E' costante e consolidata giurisprudenza ritenere l'ammissibilita'
 dell'espropriazione  (compresa  quella  "presso terzi", nei confronti
 della p.a. (cass. sez. unite 18 dicembre 1987, n.  9407,  cass.  sez.
 unite 9 marzo 1981, n. 1299).
    Di  fronte  ad  una  sentenza di condanna al pagamento di somme la
 posizione della p.a. non e' diversa da quella di ogni altro  debitore
 (cass. 9 marzo 1979, n. 1464; cass. 14 gennaio 1981, n. 323); sicche'
 anche nei suoi confronti e' esperibile l'esecuzione forzata in quanto
 "e'   conseguenza   imprescindibile  della  condanna  della  p.a.  al
 pagamento   di   somme,    l'ammissibilita'    dell'esecuzione    per
 espropriazione" (Corte costituzionale 21 luglio 1981, n. 138).
    Nei  confronti  della p.a. debitrice sono, pertanto, perfettamente
 applicabili i principi generali in tema di esecuzione e che la stessa
 deve essere soggetto passivo dell'esecuzione "con tutti i  suoi  beni
 presenti e futuri" (art. 2740 del c.c.).
    I  limiti  di  pignorabilita'  dei  beni della p.a. possono essere
 individuati solo concretamente ed in relazione specifica alla  natura
 o  alla  destinazione  dei  beni  stessi  e quando risulti che quelli
 assoggettati a pignoramento siano destinati a soddisfare un interesse
 pubblico; cosa che si traduce nel rilievo che la legge  gia'  accorda
 alle   pp.aa.   una   particolare  tutela,  quando  rimane  accertata
 l'esistenza di  un  vincolo  di  destinazione  dello  specifico  bene
 (assoggettato all'esecuzione) ad un "pubblico servizio".
    Cio'  solo, infatti, e' conforme alla previsione di cui al secondo
 comma del citato art. 2740 del c.c. (analogicamente a quanto disposto
 dagli artt. 514 e 545 del c.p.c. in tema di impignorabilita' di  cose
 mobili   o   di  crediti)  e  traduce  il  criterio  che  "il  limite
 dell'esecuzione  puo'  essere  solamente  oggettivo   e   non   certo
 soggettivo".
    Con  la disposizione di cui all'art. 21 citato, che non istituisce
 una procedura concorsuale in danno della p.a. e neppure una qualsiasi
 altra procedura in grado di garantire il soddisfacimento dei crediti,
 assicurando la par condicio, e meno che mai  un  apprezzabile  tutela
 del  creditore,  risulta dunque accordata alla p.a. un'indiscriminata
 ed illogica forma di tutela, che non tiene conto di tutte  le  regole
 citate  e  che, ingiustificatamente, in danno dei creditori, limita i
 mezzi di esecuzione; e cio', pur prevedendo la norma e  singolarmente
 che,  proprio  a  seguito  della  deliberazione  di dissesto, la p.a.
 interessata viene autorizzata ad aumentare, sino al tetto massimo  di
 legge,  le  aliquote  dei  tributi  (oltre  che  dei  canoni  e delle
 tariffe), in danno della collettivita'; cosa che  appare  tanto  piu'
 grave,  laddove  si  rifletta  sull'ulteriore  dato  che, mentre tale
 elevazione  delle  aliquote  e'  destinata  a  protrarsi  secondo  le
 previsioni  della  norma,  anche  per  il tempo successivo al riparto
 (cioe' per il periodo successivo alla chiusura  della  liquidazione),
 le    maggiori   entrate   non   risultano   affatto   destinate   al
 soddisfacimento dei crediti (e dire che le  maggiori  entrate  -  per
 effetto dell'elevazione delle aliquote dei tributi, tariffe e canoni,
 ai livelli massimi - sono un indiscutibile danno per la collettivita'
 e,  come  e'  facile  comprendere,  spesso,  per  gli stessi soggetti
 creditori).
    La  questione,  pertanto,  attenendo  al  diritto  di procedere in
 esecuzione  (in  quanto  la   norma   esclude   l'eseguibilita'   per
 espropriazione), riproduce l'oramai superata tesi secondo cui la p.a.
 non puo' essere soggetta ad esecuzione forzata e, pertanto, ripropone
 l'altrettanto nota questione di giurisdizione, superata, come gia' si
 e'  osservato,  da tutta la giurisprudenza di merito, di legittimita'
 (cass. s.u. n. 4071 del 1979 e cass. s.u. 9 marzo 1981,  n.  1299)  e
 della stessa Corte costituzionale (sentenza 21 luglio 1981, n. 138).
    E'  certamente  incostituzionale  (anche per violare il diritto di
 difesa), pertanto, la previsione di esclusione di esecuzioni  tipiche
 previste  dal c.p.c., solo a vantaggio della p.a.; peraltro, nel caso
 di specie, solo a vantaggio  di  quelle  amministrazioni  interessate
 dalla  norma  e  senza  considerare  affatto  l'oggettivo  dato della
 disponibilita' o indisponibilita' specifica dei beni aggrediti.
    Tutto  cio'  traduce  una  macroscopica  violazione  dei  precetti
 costituzionali  e comporta la concreta vanificazione dei principi cui
 e' pervenuta la giurisprudenza della stessa Corte costituzionale,  in
 forza  dei  quali "di fronte ad una sentenza di condanna al pagamento
 di somme, la posizione  della  p.a.  non  e'  diversa  da  quella  di
 qualsiasi altro debitore e secondo cui il pagamento e' un atto dovuto
 dalla  p.a. medesima che non puo' percio' sottrarvisi, vanificando il
 comando del giudice, con l'adozione,  chiaramente  discrezionale,  di
 una propria graduatoria di priorita' degli obblighi cui adempiere con
 le risorse disponibili" (cfr. Corte costituzionale 21 luglio 1981, n.
 138).
    Il  problema  nei  termini esposti, oltre che giuridico e' anche e
 soprattutto morale, perche' non puo' tollerarsi che la p.a. non paghi
 debiti, anche se "giudicati".
    L'esclusione dell'esecuzione e' priva di  qualsiasi  altra  logica
 giustificazione   di   supporto   e   costituisce  un  indiscriminato
 favoritismo, accordato  alle  pp.aa.  dal  legislatore,  perche'  non
 risultano   neanche   sussistenti   ragioni  di  urgenza,  che  hanno
 consigliato la norma, con l'effetto che, in definitiva, la stessa non
 risulta che tuteli un interesse pubblico (in  quanto  non  tutela  il
 bene  oggetto  del pignoramento), perche', in contrario, protegge, ma
 del tutto ingiustificatamente, il solo debitore.
    Tutto cio', salvo a potere escludersi,  auspicabilmente  (ma  come
 pare  certo,  pero',  non si possa fare) che l'ultima parte del terzo
 comma  dell'art.  21  in  esame  non   voglia   affatto   significare
 "estinzione  dei  diritti  di credito" (compresi quelli eventualmente
 residuati  dal  riparto  proporzionale  della   massa   attiva,   per
 l'ipotesi,  cioe',  di  incapienza della liquidazione); e cioe' salvo
 che la norma in esame  (art.  21,  terzo  comma)  nell'ultima  parte,
 sancisca  solo  la regola imputet sibi, quando il creditore non siasi
 attivato e non abbia  avanzato  la  richiesta  di  credito  affinche'
 questo sia inserito nel piano di estinzione; sicche' in tale ipotesi,
 i  crediti insoddisfatti dal riparto e quelli non inclusi nella massa
 passiva lo potrebbero essere una  volta  tornata  in  bonis  la  p.a.
 dissestata. Tale conclusione escluderebbe, infatti, l'assimilabilita'
 della procedura in esame ad una di tipo concorsuale.
    Ed  in  effetti,  i  particolari  ristretti  termini accordati dal
 legislatore, al commissario o ai commissari, per  la  predisposizione
 del piano di estinzione, potrebbero pure indurre a pensare (ma sempre
 con   discutibili   forzature   interpretative)  che  il  legislatore
 (dell'art.  21)  abbia   voluto   imporre   l'attivita'   di   questi
 (commissari)  mirata  ad  una rapida, ma sommaria, ricognizione della
 massa passiva ed ad una pronta  liquidazione  (sia  pure  nei  limiti
 della  massa  attiva)  dei  crediti,  per  impedire un aggravio della
 situazione patrimoniale e frenare le spese, mediante l'adozione delle
 misure economiche previste dalle leggi n. 144/1989 e n. 68/1993,  con
 la contestuale adozione dei provvedimenti di riequilibrio.
    Tali  rilievi  potrebbero  anche  avere  una  loro valenza, specie
 laddove ci si rifiutasse di  ipotizzare  che  crediti,  in  corso  di
 accertamento  giudiziale  e  non  transatti  dal commissario (o dalla
 commissione), possano rimanere insoddisfatti, sol perche'  "anteriori
 alla   data  della  decisione"  del  Co.Re.Co.  di  approvazione  del
 rendiconto finale di gestione (vedi l'ultima parte  del  terzo  comma
 dell'art. 21).
    Sicche'  tali  ultime  considerazioni  ed  il  rilievo che la p.a.
 dissestata e' tenuta  alla  previsione  di  "un'ipotesi  di  bilancio
 stabilmente   riequilibrato"  (art.  21,  quarto  comma),  potrebbero
 confermare la tesi del ritorno  in  bonis  della  p.a.,  evitando  di
 sospettare: a) che il commissario o i commissari possano assurgere al
 ruolo di "giudici" definitivi (in positivo ed in negativo); b) che la
 procedura  liquidatoria  possa  protrarsi  per  piu' tempo (i crediti
 vanno liquidati entro il termine di sei  mesi  dall'acquisizione  del
 mutuo   e   questa  puo'  avvenire  in  un  termine  anche  anteriore
 all'approvazione del piano di estinzione da parte del Ministero);  c)
 che  la  p.a. dissestata, infine, possa permanere in tale stato, sine
 die,  con  il  conseguente  protrarsi  delle  misure   economiche   e
 finanziarie, imposte dall'art. 25, in danno della collettivita'.
    Sul   punto,   e'  pertanto,  e  sempre,  necessario  l'intervento
 interpretativo della Corte adita, tale da escludere l'ipotizzabilita'
 del vizio di costituzionalita'  e  di  apprestare  all'interprete  un
 adeguato  e  sicuro  canone  ermeneutico,  conforme  ai  principi del
 dettato costituzionale.
             Terzo profilo di sospetta incostituzionalita'
   Diverse interpretazioni (quelle che, come gia' osservato, alla luce
 della  norma,  invece,  appaiono   piu'   attendibili)   inducono   a
 risottolineare  i  sospetti  di  incostituzionalita'  ed  a ritenere,
 peraltro, che la norma pur imponendo al giudice  la  declaratoria  di
 estinzione   delle   procedure   esecutive  pendenti  (precludono  la
 proponibilita'  di  nuove  procedure)  non  assicuri,   inoltre,   ai
 creditori  mezzi  di  tutela  volti  all'inserimento del debito nella
 massa passiva, al controllo della predisposizione della massa  attiva
 e  del  riparto; e cio' pur prevedendo che il giudice debba liquidare
 gli   importi   anche   per   spese;   tale   liquidazione   (intesa,
 necessariamente, come "quantificazione" delle somme, se non a rischio
 di  essere  incompatibile  con  la previsione dell'estinzione) appare
 funzionale all'inserimento del debito nel piano di estinzione, ma  la
 norma non garantisce tale inserimento (rectius: non appresta mezzi al
 creditore  per  far  valere  il suo diritto all'inserimento, in tutti
 quei casi di inadempimento della p.a. anche sul punto).
    Sicche', anche sotto  tale  subordinato  profilo,  la  norma  pare
 violare  gli  artt.  3  e  24  della  Costituzione,  perche'  la  sua
 applicazione potrebbe pure avvantaggiare alcuni dei creditori (quelli
 inseriti nella massa passiva), in danno di altri (e tra questi  anche
 quelli pignoranti).
             Quarto profilo di sospetta incostituzionalita'
   La  norma  prevede,  del  tutto irrazionalmente, la declaratoria di
 estinzione delle procedure esecutive pendenti, da parte del g.e.;  ed
 e',  anche  sotto  tale profilo, sospetta di incostituzionalita' (per
 contrasto con gli artt. 3 e 24, con riferimento agli  artt.  632  del
 c.p.c.  e  51 della l.f.), poiche' per tutte le ipotesi di fallimento
 del debitore o di liquidazione, si ha la sopravvenienza di una  causa
 di  improseguibilita'  dell'azione  esecutiva  (cass.  61/481;  cass.
 83/4030) e non certo di estinzione.  Cio'  con  tutta  una  serie  di
 conseguenze  (tra  cui  quella  dell'ammissibilita', per i creditori,
 dell'azione ex art. 2913 del c.c. e della  confluenza  del  pignorato
 nella  massa  passiva  della  liquidazione), facilmente comprensibili
 che, pero', la norma stessa - prevedendo che il g.e. debba  liquidare
 (nel  senso detto di "quantificare") le somme spettanti al creditore,
 al fine della confluenza nella  massa  passiva  -  pare  contemplare,
 senza  tenerne,  pero',  debitamente  conto,  con  la  previsione  di
 adeguate garanzie al creditore stesso, perche' il suo credito,  nella
 misura   "quantificata"  del  giudice,  venga  inserito  nella  massa
 passiva.
            Quinto profilo di sospetta incostituzionalita'
    La  norma,  poi,  nel  prevedere  l'"estinzione"  delle  procedure
 esecutive,  genera  il  forte sospetto che, potendo collegarsi a tale
 declaratoria di estinzione - ai sensi  dell'art.  632  del  c.p.c.  -
 l'inefficacia  degli  atti  esecutivi compiuti, i beni pignorati (nel
 caso, le somme possedute dal terzo che, nella fattispecie  in  esame,
 ha  reso  una dichiarazione di quantita' positiva), vadano restituiti
 alla p.a. debitrice e non certo consegnati ai commissari, per  essere
 riversati  nell'esecuzione  collettiva  (come  dovrebbe  invece  piu'
 logicamente avvenire e come avviene certo  nel  caso  del  fallimento
 dell'imprenditore, prima dell'aggiudicazione di un bene espropriato).
 Sicche'  sotto  tale  profilo  la  norma appare incostituzionale, per
 essere in contrasto con gli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione  anche
 per sottrarre garanzie ai creditori, avvantaggiando il debitore.
             Sesto profilo di sospetta incostituzionalita'
    La  norma  non prevede poi, ed irrazionalmente, mezzi di tutela in
 favore del debitore, avverso la liquidazione delle somme da parte del
 giudice e neppure di tutela avverso la declaratoria di estinzione.
    Impone  la  declaratoria  detta  di  estinzione,  di  ufficio,   e
 destinati a soddisfare un interesse pubblico; cosa che si traduce nel
 rilievo che la legge gia' accorda alle pp.aa. una particolare tutela,
 quando  rimane  accertata  l'esistenza di commissario o commissione),
 innovando, cosi' in maniera del  tutto  irrazionale,  al  consolidato
 insegnamento   dei   giudici   di   legittimita',   sul  punto  della
 rilevabilita'  solo  su  istanza  di  parte  (curatore)  e  derogando
 all'impostazione  sistematica  dei mezzi di impugnazione recepita dal
 vigente codice di rito.
    Cosi' come strutturata,  la  norma,  pertanto,  anche  sotto  tali
 ulteriori  profili,  non  e'  in  linea  con le norme costituzionali,
 peraltro, cia' esaminate in fattispecie analoghe dalla  stessa  Corte
 costituzionale  (in  tema  di reclamabilita' dell'ordinanza del g.e.,
 che  pronunzia  l'estinzione  del  processo  esecutivo,  in  caso  di
 rinunzia  agli  atti,  cfr. Corte costituzionale 17 dicembre 1981, n.
 195). Il rilievo che la Corte e' gia' intervenuta in  argomento,  con
 la  citata  pronunzia (n. 195/1981), esclude la necessita' di tentare
 una interpretazione analogica.
    Sotto tali profili, la norma, dunque, viola gli artt. 3 e 24 della
 Costituzione, in correlazione agli artt. 617, 629 e 630 del c.p.c.