IL PRETORE
    Premesso che nel corso del dibattimento, all'esito dell'escussione
 del  tecnico comunale, e, comunque sulla scorta della relazione dallo
 stesso redatta e gia' inviata alla procura circondariale  di  Napoli,
 unitamente  alla  notizia  di  reato,  il  rappresentante del p.m. ha
 provveduto,  ai  sensi  dell'art.  517  del   c.p.p.   a   contestare
 all'imputata Aloschi Gloria altri reati, aventi ad oggetto violazioni
 alla  legge  urbanistica e a quelli di tutela paesaggistica, connessi
 ai reati ascritti nel decreto di citazione a giudizio;
      che,  stante  la  contumacia  dell'imputata,  veniva  ai   sensi
 dell'art.  520  c.p.p.  notificato alla medesima il verbale di causa,
 con la fissazione di altra udienza per la prosecuzione del giudizio;
      che, il  p.m.  si  opponeva  eccependo  l'intempestivita'  della
 richiesta;
      che,  a  questo  punto  la  difesa  dell'imputata ha ritenuto di
 sollevare questione di  legittimita'  costituzionale  in  riferimento
 all'art.  519  del  c.p.p. per contrasto con gli artt. 3 e 24 secondo
 comma Costituzione, nella parte in cui detta norma non  prevede  che,
 quanto  al  rito  pretorile,  nel caso di contestazione suppletiva ai
 sensi dell'art. 517 del c.p.p. l'imputato  possa  essere  rimesso  in
 termini   per  proporre  richiesta  di  pena  patteggiata  quando  la
 contestazione suppletiva abbia ad oggetto fatti  integranti  reato  e
 circostanze gia' noti al pubblico ministero, ma per errore di questi,
 non contestati nel decreto di citazione a giudizio;
                             O S S E R V A
    Si   rileva   come   la   questione   cosi'   sollevata,  non  sia
 manifestamente infondata, in  particolare  nell'ambito  del  giudizio
 pretorile,  tenuto  conto  della  circostanza che, in tale ambito, il
 decreto di  citazione  a  giudizio  contenente  il  tema  di  accusa,
 rispetto  al quale l'imputato valuta il rischio processuale che sullo
 stesso incombe, e  di  conseguenza,  opta  per  il  rito  (ordinario,
 patteggiamento),  piu'  opportuno,  viene licenziato direttamente dal
 p.m. (mancando la previsione dell'udienza preliminare).
    Per altro, va evidenziato che non osta ad una positiva delibazione
 della proposta questione la  precedente  giurisprudenza  della  Corte
 costituzionale sul punto.
    La   Consulta   ha  infatti  osservato,  che  sarebbe  irrazionale
 consentire che si addivenga ad un rito differenziato sulla base delle
 "contingenti valutazioni dell'imputato sull'andamento  del  processo"
 (sent.  n.  593/90),  che  "rientra nelle valutazioni, che l'imputato
 deve compiere, l'evenienza della contestazione suppletiva  a  seguito
 dell'istruttoria dibattimentale" (sent. n. 213/1992), che il relativo
 rischio  rientra  naturalmente  nel calcolo dell'imputato, "onde egli
 non ha che da addebitare a se medesimo le conseguenze  della  propria
 scelta" (sent. n. 316/92).
    Tuttavia le ricordate decisioni risultano adottate sulla scorta di
 parametri   costituzionali  di  riferimento  diversi  o  diversamente
 orientati rispetto a quelli che  qui  sono  invocati.  E  soprattutto
 risulta  del  tutto  differente la situazione in fatto sottostante le
 ricordate pronunce, in quanto qui ci troviamo di fronte non gia' alla
 evenienza di una contestazione suppletiva originata dalla istruttoria
 dibattimentale, bensi' dinanzi ad una contestazione originata  da  un
 errore  dell'organo  dell'accusa, ovvero da una scelta (insindacabile
 da parte dell'imputato:  ben  avrebbe  potuto  il  p.m.  operare  uno
 stralcio) del pubblico ministero circa la delimitazione dell'area dei
 fatti  per  i  quali  ha inteso esercitare l'azione penale attraverso
 l'emissione del decreto di citazione.
    Risulta, qui,  pertanto,  esclusa  la  possibilita'  di  addossare
 all'imputato il "rischio" della scelta dibattimentale, in quanto tale
 scelta,   lungi   dall'essere   informata  alla  concreta  situazione
 processuale, si rileva piuttosto obbligata,  o  quantomeno  modellata
 sulla   iniziativa   dell'organo   dell'accusa  che  ha  manifestato,
 esercitando l'azione penale in  maniera  incompleta,  una  situazione
 difforme da quella reale.
    Cio'  premesso,  si  denuncia  il  contrasto  della  norma oggetto
 dell'incidente con l'art. 3 e con l'art.  24,  secondo  comma,  della
 Costituzione.
    Appare  invero  irragionevole  la differenziazione che emerge (non
 rispetto all'art. 518 del c.p.p.: v. decisioni innanzi ricordate; ma)
 rispetto al  diverso  governo  che,  sulla  scorta  della  denunciata
 normativa, p.m. ed imputato hanno circa la scelta del rito.
    Non   sfugge   che  attraverso  la  formulazione  di  un  capo  di
 imputazione incompleto rispetto alle risultanze contenute negli  atti
 di  cui  al  proprio  fascicolo,  il  pubblico ministero influenza la
 scelta del rito; nel caso  di  specie  dal  decreto  di  citazione  a
 giudizio  risultava  elevata una imputazione relativamente alla quale
 l'imputato  non  aveva  alcun  interesse  a  formulare  richiesta  di
 patteggiamento,  trattandosi  di  fatto  che documentalmente (gia' al
 p.m.) risultava commesso,  almeno  in  parte,  da  soggetto  diverso.
 Pertanto,  ammesso  di non voler ritenere consentito un comportamento
 ai limiti del favoreggiamento e/o dell'autocalunnia,  l'imputato  non
 poteva  chiedere  alcuna  pena patteggiata per un reato al quale egli
 era del tutto estraneo.
    E' tale potere unilaterale di influenzare  l'opzione  del  rito  -
 senza  alcuna  possibilita'  di tempestivo recupero della completezza
 della contestazione (v. art. 423 c.p.p.) trattandosi  di  imputazione
 gestita  autarchicamente,  senza  filtro giurisdizionale preliminare,
 assente nel rito pretorile -, sia pure in  buona  fede,  comporta  il
 rischio  di  un  patologico aggiramento del diritto di difesa, inteso
 non solo come interesse costituzionalmente  assistito  a  contraddire
 l'ipotesi  accusatoria,  ma  come  facolta'  di scegliere il quo modo
 difensivo previa valutazione informata e consapevole.
    Di  qui,  rilevata  la  peculiarita'  della  situazione   rispetto
 all'ordinario  modello  processuale previsto per i giudizi dinanzi al
 tribunale (art. 549 del c.p.p.) il denunciato  contrasto  con  l'art.
 24, secondo comma, della Costituzione.
    In  sostanza: dal momento che l'operato del p.m. risulta assistito
 da una presunzione di legalita' (arg.  ex  art.  124  del  c.p.p.)  e
 soprattutto  dal  momento  che  il  principio  di  completezza  delle
 indagini preliminari piu'  e  piu'  volte  ribadito  dalla  Consulta,
 comportano   un  legittimo  affidamento  dell'imputato  sulle  scelte
 compiute dal p.m., consentire la contestazione suppletiva di fatti di
 reato e circostanze gia' conosciute al p.m.  ma  non  contestati  col
 decreto  di  citazione  a  giudizio,  equivarrebbe  a  legittimare la
 situazione in cui volutamente il p.m. lascia incomplete  le  indagini
 al  fine  di  impedire  l'accesso  al rito abbreviato (c.d. "dissenso
 implicito per fatti concludenti"), ipotesi di cui si  e'  interessata
 la  Corte  costituzionale  nella  sent.  n.  92/1992  escludendone la
 compatibilita' al sistema.
    Paradossalmente si dovrebbe ritenere necessario sempre e  comunque
 dubitare  della  buona  fede dell'organo dell'accusa, e soffermarsi a
 valutare la possibilita' che egli rinvii a giudizio per  il  reato  x
 meditando pero', previa vanificazione della facolta' di richiedere il
 patteggiamento  e,  quindi,  previa  esclusione dell'evenienza di una
 pronuncia del giudice che ritenga immotivato  un  eventuale  dissenso
 esplicito,  di ottenere una piu' grave sanzione per il reato y, a lui
 gia' noto anche se non ritualmente contestato.
    Del resto alcune recentissime pronunce della Corte  costituzionale
 appaiono   muoversi   inequivocabilmente   nella   direzione  innanzi
 indicata.
    Con la sentenza n.  76/1993,  infatti,  la  Consulta  ha  ritenuto
 inaccettabile  costituzionalmente  che  l'imputato  potesse - li' per
 l'erronea individuazione del  giudice  competente;  qui  per  erronea
 contestazione  -  essere  privato della possibilita' di richiedere un
 rito differenziato "per effetto di un errore in precedenza  da  altri
 commesso .. attribuibile al pubblico ministero".
    Pertanto  la  Corte,  pronunciando  l'illegittimita'  della  norma
 censurata in quella  circostanza,  ha  affermato  che  e'  necessario
 "offrire  riparo  da  una  patologia processuale che, proprio perche'
 tale, non puo' risolversi in un pregiudizio per  l'imputato  di  essa
 non responsabile".
    Sulla  medesima  lunghezza  d'onda, infine, si colloca la sent. n.
 101/1993: laddove  "risulti  che  la  inosservanza  del  termine  per
 formulare  la  richiesta  di  applicazione  di  una  pena  sia  stata
 determinata da un  evento  non  evitabile  dall'interessato,  sarebbe
 molto  difficile  - rileva la Corte - negare che la impossibilita' di
 ottenere i relativi benefici concreti una ingiustificata compressione
 del diritto di difesa".
    Allo scopo di recuperare legalita'  al  procedimento  in  siffatta
 situazione  la  Consulta  rinvia  all'istituto  della restituzione in
 termini di cui all'art. 175 del c.p.p., norma generale e  applicabile
 anche  in  occasioni  del  tipo  di quella qui in esame. Sul punto la
 Corte rileva infatti la non incompatibilita' di una  restituzione  in
 termini  e  quindi di un rito patteggiato rispetto ad un dibattimento
 gia' iniziato, conservando (il patteggiamento) anche in tal caso, sia
 pure parzialmente, la propria efficacia deflattiva. Resta ovvio, come
 prosegue la Corte, che gli atti  di  istruzione  dibattimentale  gia'
 compiuti  - se non invalidi - mantengono ed esprimono intatta la loro
 efficacia.