IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA Sciogliendo la riserva espressa nell'udienza del 29 giugno 1993; visti gli atti relativi al procedimento di sorveglianza nei confronti di Macri' Francesco nato a Gioia Tauro il 9 gennaio 1955, attualmente detenuto nella casa circondariale di Potenza; sentiti il p.m. e il difensore, che hanno concluso come da verbale in atti, ha pronunziato la seguente ordinanza P R E M E S S O Il Macri' e' stato condannato con sentenza in data 4 maggio 1981 del tribunale di Vibo Valentia, confermata dalla Corte di appello di Catanzaro, perche' ritenuto responsabile di diversi reati, fra i quali quello di cui all'art. 630 del c.p. (sequestro di persona a scopo di estorsione). Ammesso dal tribunale di sorveglianza di Potenza a godere del regime di semiliberta' con ordinanza del 23 febbraio 1988, a seguito dell'entrata in vigore del d.l. n. 306 dell'8 giugno 1992 il nominato veniva sottoposto a fermo dai C.C. di Laureana di Borrello. Successivamente il tribunale di sorveglianza di Reggio Calabria con provvedimento del 26 giugno 1992 disponeva la revoca della misura alternativa in corso di fruizione, ai sensi dell'art. 15 secondo comma del d.l. citato e ordinava il ripristino della detenzione in carcere. Con l'istanza in esame il Macri' ha chiesto la liberazione condizionale, ex art. 6 del c.p. O S S E R V A Questo tribunale ritiene preliminalmente rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalita' dell'art. 4- bis della legge n. 354/1975, cosi' come modificato dall'art. 15 del d.l. n. 306/1992, conv. nella legge n. 356/1992, per i motivi che di seguito saranno illustrati. Appare necessario, sotto il primo profilo della rilevanza, evidenziare, innanzitutto, che per quanto la liberazione condizionale non sia indicata espressamente nel testo dell'art. 4- bis citato tra i benefici compresi nel divieto di concessione, attraverso il combinato disposto della citata disposizione con l'art. 2 del d.l. n. 152/1991 si perviene ad un diverso risultato interpretativo. Recita, infatti, la norma in questione: "I condannati per i delitti indicati nel primo comma, dell'art. 4- bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, possono essere ammessi alla liberazione condizionale solo se ricorrono i relativi presupposti, previsti dallo stesso comma per la concessione dei benefici ivi indicati. Si osservano le disposizioni dei commi secondo e terzo dell'art. 4- bis della legge 26 luglio 1975 n. 354". Il secondo comma, inoltre prevede l'elevazione dei limiti di pena per essere ammessi al beneficio (vale a dire i due terzi), stabilendo, tuttavia, l'inapplicabilita' di tale inasprimento delle persone indicate nell'art. 58- ter della legge citata. Per la verita' non sfugge a questo collegio che recentemente la s.c. di cassazione, esaminando una fattispecie analoga, si e' autorevolmente pronunziata in senso opposto, avendo affermato che l'ambito di applicazione del divieto in questione deve essere limitato alle sole ipotesi risultanti dal testo letterale dell'art. 15 cit. (cfr. sent. sezione penale I, Carnevale, 13 novembre 1992, n. 4676). Tuttavia, riesce difficile comprendere le ragioni di tale assunto, alla luce proprio della formulazione letterale dell'art. 2 del d.l. n. 152/1991, che in modo chiaro e non equivoco richiama, ai fini dell'ammissione al beneficio de quo, i presupposti previsti dal primo comma dell'art. 4- bis. L'anzidetta norma, attraverso il meccanismo del rinvio cd. formale, estendendo la disciplina di cui all'art. 4- bis alla liberazione condizionale, finisce per operare una sorta di assimilazione, seppure limitatamente ad alcuni presupposti, del beneficio in esame alle altre misure alternative previste dall'art. 4- bis. Appaiono significative, a tal fine, le disposizioni, rispettivamente, di cui al terzo comma dell'art. 2 el d.l. cit., che stabilisce l'inoperativita' dell'elevazione del limite di pena, introdotto dalla norma, solamente per coloro che collaborano con la giustizia, e al primo comma, ultima parte, che estende l'applicazione del procedimento di acquisizione delle informazioni, per il tramite del comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, anche all'istituto in esame. E' chiaro a questo punto che la mancata inclusione della liberazione condizionale nel povero dei benefici compresi nel divieto di cui all'art. 15 del d.l. n. 306/1992 trova la sua ragione di essere proprio nell'automatica estensione della norma che lo prevede, operata attraverso il meccanismo del rinvio formale, sopra descritto. Peraltro, diversamente opinando, si incorrerebbe, ad avviso di questo tribunale, anche in una evidente censura di incostituzionalita', per contrasto con l'art. 3, in quanto si verificherebbe una disparita' di trattamento che non appare giustificata sotto il profilo che qui rileva. Invero, non e' logico e coerente concedere la liberazione condizionale ad un condannato che non abbia offerto alcuna collaborazione con la giustizia, pur essendo in grado di darla, e negare un beneficio di portata meno ampia, quale puo' essere il permesso-premio o la semiliberta', ad un detenuto che, per ragioni varie, si trova nell'impossibilita' di collocare, pur avendo dato prova di aver troncato qualsiasi contatto con la criminalita' organizzata e compiuto progressi trattamentali tali da far prevedere un sicuro reinserimento del soggetto nella societa'. Questa considerazione, finale fornisce lo spunto per addentrarsi nell'esame delle varie questioni di costituzionalita' che l'art. 15, primo comma del d.l. n. 306/1992 convertito nella legge n. 356/1992, suscita. 1. - Contrasto con l'art. 3 della Costituzione recita l'art. 15, primo comma, del d.l. 8 giugno 1992, n. 306: "Fermo quanto stabilito dall'art. 13- ter del d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, nella legge 15 marzo 1991, n. 82, l'assegnazione al lavoro all'esterno, i permessi premio, e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI della legge 26 luglio 1975, n. 354, fatta eccezione per la liberazione anticipata, possono essere concessi ai detenuti e internati per delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416- bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni previste dallo stesso articolo nonche' per i delitti di cui agli artt. 416- bis e 630 del codice penale e all'art. 74 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborano con la giustizia a norma dell'art. 58- ter. Quando si tratta di detenuti o internati per uno dei predetti delitti, ai quali sia stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dagli artt. 62, n. 6), anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, o 114 del codice penale, ovvero la disposizione dell'art. 116, secondo comma, dello stesso codice, i benefici suddetti possono essere concessi anche se la considerazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante purche' siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l'attualita' dei collegamenti con la criminalita' organizzata. Cio' posto, e' agevole osservare che la norma cosi' come formulata non opera alcuna distinzione fra le situazioni - che nella pratica giudiziale risultano assai differenziate - dei singoli condannati, e, soprattutto, induce ad adottare una decisione identica e rigidamente predeterminata, nei riguardi di coloro che abbiano scelto deliberatamente di non collaborare con la giustizia, da un lato, e dei soggetti che, invece, si trovino nell'impossibilita' di prestare detta collaborazione, dall'altro, vuoi perche' abbiano svolto un ruolo secondario nella vicenda criminosa, che li poneva al'oscuro nella conoscenza degli autori e delle modalita' del reato, vuoi perche' ogni aspetto della vicenda sia stato chiarito interamente. Pertanto, si finisce per accomunare nel trattamento penitenziario situazioni profondamente di- verse, sino al punto di favorire paradossalmente proprio i detenuti piu' pericolosi, i quali, per aver svolto un ruolo preponderante nello svolgimento dell'attivita' delittuosa, alla fine si vengono a trovare nella condizione per ottenere i benefici penitenziari - ferma restando, chiaramente, la sussistenza degli altri presupposti -, in quanto posti in grado di conoscere tutti gli aspetti della vicenda criminosa. 2. - Contrasto con l'art. 25, secondo comma, della Costituzione. Ci sembra pacifico che la normativa restrittiva introdotta dall'art. 15 del d.l. n. 306/1992 abbia fatto una chiara opzione tendente a far operare retroattivamente il divieto di concessione delle misure premiali stabilito dalla disposizione. Sul punto costituisce argomento insuperabile il disposto di cui al secondo comma della norma stessa, che testualmente recita: "Nei confronti delle persone detenute o internate per taluno dei delitti indicati nel primo periodo del primo comma, che fruiscono, alla data di entrata in vigore del presente decreto, delle misure alternative alla detenzione o di permessi-premio, o siano assegnate al lavoro esterno, l'autorita' di polizia comunica al giudice di sorveglianza competente che le persone medesime non si trovano nella condizione per l'applicazione dell'art. 58- ter della legge 26 luglio 1975, n. 354. In tal caso, accertata l'insussistenza della suddetta condizione, il tribunale di sorveglianza dispone la revoca della misura alternativa alla detenzione o del permesso-premio". Alla stregua del tenore letterale e della ratio della norma e' agevole rilevare che, se e' prevista la revoca del beneficio in corso di fruizione - si badi bene - indipendentemente dalla data di consumazione del reato ovvero dell'inizio dell'espiazione della pena, a maggior ragione il divieto di concessione deve operare nei confronti di coloro che, essendo gia' in stato detentivo al momento dell'entrata in vigore del d.l. citato, per la prima volta propongono istanza tendente ad ottenere la concessione del beneficio. A questo punto la questione che necessariamente si pone - in presenza della deroga legislativa al principio stabilito dall'art. 11 delle preleggi, riassumibile nel brocardo tempus regit actum - e se la norma di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione che conferisce dignita' costituzionale al divieto di retroattivita' della legge penale, sia applicabile anche alle norme penitenziarie, vale a dire, in altri termini, se detto principio regola anche il fenomeno della successione nel tempo della normativa penitenziaria. Sul punto, non puo' essere condivisa la tesi interpretativa che, attraverso una lettura restrittiva del dettato costituzionale, limita l'operativita' della garanzia esclusivamente alle norme penali, che creano reati e comminano sanzioni. Infatti, se e' vero che, superando i limiti imposti dal testo letterale, si e' pervenuti ad estendere il campo di applicazione del divieto di retroattivita' anche alle norme processuali penali, diventa piu' agevole giungere allo stesso risultato interpretativo a proposito delle norme di diritto penitenziario. Il termine "punire", infatti, nella sua accezione piu' ampia, comprende tutto cio' che viene compiuto per dare concreta attuazione alla sentenza di condanna. Si e' anche sostenuto da parte della dottrina piu' autorevole (cfr. Bricola, sub art, 25, secondo comma della Costituzione, in commentario alla Costituzione) che eventuali modalita' peggiorative dell'esecuzione della pena, sia che si risolvano in un complessivo inasprimento del normale regime carcerario, dando luogo all'attuazione di un trattamento differenziato, sia che si ripercuotano sulla disciplina di istituti risocializzanti, come ad esempio, la liberazione condizionale, non dovrebbero essere applicate retroattivamente. La tesi piu' estensiva innanzi illustrata, ad onor del vero, presta il fianco ad obiezione, allorquando la disciplina peggiorativa ha ad oggetto una misura risocializzante, atteso che quest'ultima op- era in chiave antagonista rispetto alla sanzione inflitta, e sulla base di presupposti in un certo senso antitetici; sicche', trattandosi di misura premiale e non punitiva, non appare facile, alla luce di un'interpretazione rigidamente letterale dell'art. 25, secondo comma della Costituzione, ricondurre la stessa nel campo di operativita' del principio costituzionale. Tuttavia, e' opportuno evidenziare che, ove si passi ad una lettura piu' aderente allo spirito del dettato costituzionale, si puo' pervenire ad un'interpretazione suscettibile di ricomprendere nell'alveo dell'anzidetta garanzia anche le misure risocializzanti. E, invero, la ratio sottostante al principio de quo nel caso in esame deve essere individuata nell'esigenza di garantire, l'immutabilita' del dato normativo, che non puo' non ritenersi operante anche con riferimento alle disposizioni concernenti sia il quantum che il quomodo della pena in esecuzione, che finiscono, pertanto, per diventare oggetto di un ragionevole affidamento del condannato. E, il momento temporale al quale fa risalire questa aspettativa nell'ipotesi del beneficio penitenziario non va individuato tanto, in quello del compimento del fatto delittuoso, applicabile allorquando si tratta di norma incriminatrice, quanto in quello in cui la pena inizia ad essere espiata, perche' e' proprio in questo momento che prende via quel patto tra lo Stato e il condannato, al quale quest'ultimo aderisce proprio perche' consapevole che l'impegno sul versante del trattamento rieducativo comportera' anche un riesame qualitativo e quantitativo della pretesa punitiva. E' chiaro, pertanto, che si crea in capo al condannato un affidamento meritevole di essere tutelato, che giustifica l'inapplicabilita' nei suoi confronti di tutte quelle modifiche peggiorative introdotte nella disciplina delle misure risocializzanti, poiche' sul contenuto della normativa vigente nell'anzidetto momento si forma un'aspettativa, alla quale egli asseconda tutti i propri sforzi lungo il faticoso iter dell'esecuzione della pena. 3. - Contrasto con l'art. 27, terzo comma della Costituzione punto di partenza per la valutazione di questo profilo di incostituzionalita' e' la sentenza della Corte costituzionale n. 204/1974 - alla quale sono seguite altre decisioni sulla stessa linea d'onda (cfr. sent. n. 343/1984, 282/1989 e 125/1992) - che, con estrema chiarezza, hanno affermato l'esistenza del "diritto per il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la qualita' della pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo". La portata di questo principio si e' spinta sino al punto di sostenere che esso "deve trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale". Cio' premesso, non vi e' dubbio che attraverso lo sbarramento creato dal divieto stabilito dall'art. 15 del d.l. citato sia vanificato il finalismo rieducativo a cui e' ispirato il trattamento penitenziario, poiche' si fa dipendere la possibilita' di dare concreta attuazione al diritto anzidetto dal verificarsi di una condizione del tutto avulsa rispetto ai progressi fatti registrare dal condannato nel processo di risocializzazione. Ne' va, sottovalutata la circostanza che non sempre la collaborazione con la giustizia implica o equivale a ravvedimento rispetto al reato, poiche', mentre la prima costituisce una scelta difensiva, che quasi sempre si ispira ad un motivo di convenienza processuale ed e' condizionata anche dal ruolo svolto dal reo nella vicenda criminosa (v. considerazioni sub 1), la seconda costituisce il frutto di un riesame critico della propria condotta, e risponde ad un processo di rivisitazione del proprio vissuto etico. Ne' l'allargamento delle maglie delle restrizioni, scaturito in sede di conversione del d.l., dall'introduzione di una serie di ipotesi di collaborazione cd. ridotta, riconducibili all'applicabilita' di alcune circostanze attenuanti, incide sulla sostanza del giudizio di incostituzionalita' innanzi formulato. Anzi, richiedendo la prova certa della mancanza di attuali collegamenti con la criminalita' organizzata, la modifica normativa in questione offre il fianco alle medesime censure di incostituzionalita', per quanto attiene all'esercizio del diritto di difesa garantito dall'art. 24 della Costituzione, che accompagnarono l'entrata in vigore dell'art. 1, primo comma, del d.l. n. 152/1991. Rilevato, pertanto, che la normativa applicabile nel procedimento concernente la concessione della liberazione condizionale nei confronti del Macri' appare inficiata da evidenti vizi d'illegittimita' costituzionale.