Ricorso per conflitto di attribuzione della provincia di Torino nella persona del presidente pro-tempore della provincia, giusta deliberazione della giunta provinciale 13 giugno 1993, verbale n. 30, rappresentata e difesa come da mandato a margine del presente atto dall'avv. Rino Gracili del foro di Milano ed elettivamente domiciliata in Roma, presso lo studio dell'avv. Domenico Davoli, via S. Maria Maggiore n. 112 contro il Governo della Repubblica in persona del Presidente del Consiglio dei Ministri pro-tempore, in relazione all'approvazione del d.l. 22 maggio 1993 n. 155, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 118 del 22 maggio 1993 recante "Misure urgenti per la finanza pubblica", e piu' precisamente in relazione all'art. 3 col quale: al primo comma viene operata la riduzione del 5% (cinque per cento) dei trasferimenti statali, per contributi ordinari, spettanti, per l'anno 1993, alle amministrazioni provinciali ed ai comuni ai sensi dell'art. 29, primo e secondo comma, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504; al secondo comma, viene operata la riduzione del 7% (sette per cento) del complesso delle dotazioni ordinarie riconosciuto alle amministrazioni provinciali ed ai comuni, per l'anno 1993, ai sensi dell'art. 35 del citato d.-lgs. 30 dicembre 1992, n. 504; nonche' in relazione all'art. 8 col quale per l'anno 1993 l'ammontare dei mutui che la cassa depositi e prestiti puo' concedere per il finanziamento degli investimenti degli enti locali viene ridotto all'importo complessivo di 3.600 (tremilaseicento) miliardi in luogo dell'importo previsto in precedenza, con una riduzione del 50% (cinquanta per cento); ed e' precisato che detto importo comprende anche i mutui previsti da norme speciali, ivi inclusi quelli destinati ai settori dell'edilizia scolastica e dell'edilizia giudiziaria. F A T T O Con d.l. 22 maggio 1993, n. 155, sono stata emanate le "Misure urgenti per la finanza pubblica" proposte dal Presidente del Consiglio dei Ministri e dal Ministro del tesoro e delle finanze di concerto con il Ministro del bilancio e della programmazione economica ed approvate con deliberazione del Consiglio dei Ministri nella riunione del 21 maggio 1993. Alcune delle suddette misure, contenute negli artt. 3 e 8 del d.l., riguardano, per l'anno 1993, la finanza degli enti locali. L'art. 3, rubricato "trasferimenti agli enti locali" stabilisce che: 1. "Per l'anno 1993 i contributi ordinari spettanti alle amministrazioni provinciali e comunali ai sensi dell'art. 29, primo e secondo comma, del d.-lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, sono ridotti del 5 per cento; la riduzione viene operata per intero all'atto della corresponsione della quarta rata dei contributi stessi. Sono esclusi dalla riduzione gli enti locali dichiarati dissestati alla data di entrata in vigore del presente decreto". 2. "Ai fini dell'applicazione delle disposizioni recate dall'art. 35 del citato decreto legislativo n. 504/1992, il complesso delle dotazioni ordinarie riconosciuto alle amministrazioni provinciali e ai comuni per l'anno 1993 e' rideterminato, con gli stessi criteri indicati al primo comma, assumendo come base di riferimento una riduzione del 7 per cento". L'art. 8, rubricato "mutui cassa depositi e prestiti", dispone che: "Per l'anno 1993 l'ammontare dei mutui che la cassa depositi e prestiti puo' concedere per il finanziamento degli investimenti degli enti locali non puo' superare il complessivo importo di L. 3.600 miliardi. Detto ammontare comprende anche i mutui previsti da norme speciali, ivi inclusi quelli destinati ai settori dell'edilizia scolastica e dell'edilizia giudiziaria". A seguito dell'emanazione delle su riportate disposizioni, in data 15 giugno 1993, si riuniva la giunta provinciale di Torino. In tale adunanza la giunta rilevava che le nuove previsioni risultavano estremamente penalizzanti per la finanza dell'ente e compromettono gravemente l'esercizio delle attribuzioni costituzionalmente garantite alla provincia. La giunta rilevava, infatti, che gli artt. 3 e 8 del citato d.l. n. 55/1993 privavano gli enti locali di una parte rilevante delle gia' insufficienti entrate derivanti dai trasferimenti erariali senza prospettive di poterle sostituire in alcun modo. Inoltre la riduzione dell'ammontare dei mutui della cassa depositi e prestiti compromette gravemente, nel corso dell'esercizio, i programmi elaborati da province e comuni. Si viene cosi' a determinare - evidenziava la giunta - una sorta di immobilismo operativo degli enti locali anche, e soprattutto, in ordine all'esercizio dei loro compiti volti alla tutela degli interessi della collettivita' sotto il profilo dello sviluppo economico, sociale e culturale. Quanto sopra, mentre l'ordinamento giuridico conferisce alle prov- ince la titolarita' di funzioni pubbliche costituzionalmente rilevanti e garantite, concorrenti con quelle attribuite a poteri ed organi statuali in senso proprio e nonostante che la legge 8 giugno 1990, n. 142, in aderenza agli artt. 5 e 128 della Costituzione nonche' in attuazione della IX disposizione transitoria della stessa, riconosca le autonomie esistenti ed attribuisca agli enti locali di una piu' ampia autonomia finanziaria, statutaria e funzionale. La giunta provinciale sottolineava, infine, che le norme in questione sono in netto contrasto oltre che con la Costituzione (artt. 5, 81, 119 e 128) con quanto stabilito dall'art. 54 della legge n. 142/1990 - che oltretutto costituisce normativa "rinforzata" - e con l'art. 34, quinto comma, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, relativo al riordino della finanza degli enti territoriali. Pertanto la giunta deliberava di promuovere, dinanzi a codesta ecc.ma Corte costituzionale, conflitto di attribuzioni nei confronti del Governo per aver quest'ultimo, attraverso il d.l. 22 maggio 1993, n. 155, compromesso e leso l'esercizio delle attribuzioni costituzionali spettanti alla provincia. Il ricorso per conflitto di attribuzioni si fonda sul fatto che col decreto-legge citato il Governo opera una rilevante riduzione dei trasferimenti di risorse dallo Stato-ente agli enti locali, privando cosi' questi ultimi delle risorse finanziarie per loro previste dalla normativa vigente, indispensabili all'esercizio delle loro funzioni costituzionalmente riconosciute. In sostanza con questo decreto-legge il Governo, nel corso dell'esercizio finanziario, sposta risorse finanziarie destinate agli enti locali riservandole nella disponibilita' dello Stato-apparato. PRESUPPOSTI SOGGETTIVI L'art. 37 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 87, stabilisce che "il conflitto tra i poteri dello Stato e' risoluto dalla Corte costituzionale se indorge tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volonta' dei poteri a cui appartengono e per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinate per i vari poteri da norme costituzionali". La citata norma lascia sempre aperta, caso per caso, la necessita' dell'accertamento dell'idoneita' soggettiva del ricorrente a promuovere il giudizio e della esistenza effettiva del conflitto di attribuzioni fra i vari poteri. Infatti il giudizio davanti alla Corte e' caratterizzato da una fase preliminare nella quale la Corte decide con ordinanza, in camera di consiglio, sull'ammissibilita' del ricorso. Per quanto concerne l'individuazione dei presupposti soggettivi e quindi la nozione di "potere dello Stato", la Corte costituzionale ha abbandonato gia' da tempo la tesi secondo la quale i "poteri dello Stato", cui si riferisce l'art. 134 della Costituzione, sarebbero soltanto il potere legislativo, esecutivo e giudiziario. La giurisprudenza della Corte ha, infatti, individuato quali ulteriori poteri il Presidente della Repubblica, la stessa Corte costituzionale, gli elettori firmatari della richiesta di referendum e cioe' soggetti che non sono ricomprensibili, in modo evidente, nella su richiamata tripartizione. Quanto alla provincia la Corte, in passato, ha negato la sua legittimazione ad esser parte di un conflitto di attribuzione sollevato ai sensi dell'art. 37 della legge costituzionale n. 87 del 1953 "non essendo l'amministrazione provinciale competente a dichiarare definitivamente in materia, la volonta' del potere cui appartiene" (ordinanza n. 101/1970). Tale pronuncia, peraltro, negava la legittimazione della Provincia solo nell'ipotesi in cui essa agisca quale organo di decentramento statale, lasciando impregiudicata la questione nell'ipotesi in cui la stessa, come nel caso di specie, sia indotta ad agire nella veste in ente titolare di poteri propri, cioe' "ente autonomo" nell'ambito dei principi fissati dalle leggi generali della Repubblica che ne determina le funzioni. E' pertanto necessario analizzare se in quest'ultima ipotesi la provincia possa ritenersi legittimata a sollevare il conflitto. A tale riguardo occorre richiamare la fondamentale sentenza della Corte costituzionale n. 69/1978 con la quale essa ha ammesso a sollevare il ricorso gli elettori firmatari di una richiesta referendaria. In tale pronuncia la Corte afferma che "se i 'poteri dello Stato', legittimati a proporre il conflitto di attribuzione ai sensi dell'art. 134 della Costituzione, sono anzitutto e principalmente i poteri dello Stato-apparato, cio' non esclude che possano riconoscersi a tale effetto come poteri dello Stato anche figure soggettive esterne allo Stato-apparato, quanto meno allorche' ad esse l'ordinamento conferisca la titolarita' e l'esercizio di funzioni pubbliche costituzionalmente rilevanti e garantite, concorrenti con quelle attribuite a poteri ed organi statuali in senso proprio". Con tale pronuncia la Corte, attualizzando la portata dell'istituto e valorizzando la concezione dello Stato come "Stato-ordinamento", ha ammesso al ricorso soggetti formalmente esterni allo "Stato-persona". A tal fine ha ritenuto necessaria, ama anche sufficiente, la sussistenza delle seguenti condizioni: a) l'esercizio di funzioni pubbliche costituzionalmente rilevanti e garantite; b) la "concorrenza" di queste funzioni con quelle svolte da organi dello Stato e cioe' l'idoneita' delle stesse ad incidere sull'esercizio delle funzioni statali. Quanto alla prima condizione (sub a)), va rilevato che la provincia, a norma degli artt. 5, 114, 118 e 128 della Costituzione, costutuisce un potere autonomo titolare di funzioni costituzionalmente rilevanti e garantite. Dalle citate norme emerge, infatti, che le province, cosi' come i comuni - che nel linguaggio giuridico corrente vengono definiti "poteri locali" - fruiscono di una autonomia tale da configurare la legislazione in materia come costituzionalmente vincolata sia nei "limiti", che nei "principi" e nei "metodi", sia dall'obbligo di promuovere l'autonomia stessa (cfr. art. 5 della Costituzione). In particolare, per quanto concerne le funzioni, l'art. 118, primo comma, della Costituzione, nel riconoscere alle regioni le funzioni amministrative elencate nell'art. 117 della Costituzione, riserva alle "province e ai comuni" "le funzioni di interesse esclusivamente locale" da individuarsi con legge, con cio' riconoscendo espressamente alle province la titolarita' di funzioni proprie esclusive (funzioni amministrative di interesse locale) riconducibili alla loro posizione di ente locale intermedio fra comune e regione, attributario della cura degli interessi e della promozione dello sviluppo della comunita' provinciale. Si deve, peraltro, precisare che la riserva di legge in materia, attribuisce al legislatore non una funzione creatrice degli "interessi esclusivamentte locali", che preesistono all'intervento legislativo, ma solo la loro individuazione. Quanto alla seconda condizione (bus b)), dagli artt. 5 e 128 della Costituzione emerge che le province sono titolari di funzioni fondamentali per la vita, lo sviluppo e l'economia della comunita' provinciale. Come tali sono suscettibili di incidere e limitare l'esercizio di funzioni statali. Infatti il rapporto fra l'autonomia, le funzioni della provincia e il potere legislativo e' delineato dalla stessa Costituzione che, all'art. 128, prevede che sia il legislatore ordinario a fissare i principi all'interno dei quali l'autonomia e le funzioni delle prov- ince possono esplicarsi liberamente. Il legislatore ordinario puo' intervenire sull'autonomia e le funzioni della provincia solo modificando espressamente i principi in precedenza delineati, ma mai intervenendo con disposizioni che regolano o vincolano in dettaglio le modalita' di estrinsecazione delle funzioni violando surrettiziamente i principi stessi e quindi il dettato costituzionale. Diversamente il legislatore violerebbe in particolare l'art. 5 della Costituzione, che impone allo stesso di adeguare i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia. Riassumendo: a) la provincia e' titolare di funzioni proprie costituzionalmente riconosciute e garantite; b) l'esercizio di tali funzioni e' autonomo all'interno dei principi generali stabiliti dalle leggi dello Stato; c) l'eventuale legge statale che violi i principi generali in precedenza fissati dallo stesso legislatore viola con cio' l'autonomia costituzionalmente garantita alla provincia ed invade le attribuzioni a questa spettanti. Pertanto, contro tale legge e' sollevabile il conflitto di attribuzioni dinanzi alla Corte costituzionale. Ammissibilita' del conflitto in relazione ad atti aventi forza di legge. La Corte costituzionale nella sentenza del 6-14 luglio 1989, n. 406, ha affermato che "in linea di principio il conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato non possa ritenersi dato contro una legge o un atto equiparato. Cio' non soltanto in vista della ragionevole esigenza di bilanciare la relativa latitudine della cerchia degli organi abilitati al conflitto fra poteri con una piu' rigorosa delimitazione dell'ambito oggettivo del conflitto stesso (...), ma soprattutto in quanto la sperimentabilita' del conflitto contro gli atti sopra indicati finirebbe con il costituire un elemento di rottura nel nostro sistema di garanzia costituzionale, sistema che, per quanto concerne la legge (e gli atti equiparati), e' incentrato nel sindacato incidentale" La strutturazione di tale garanzia costituzionale e' il frutto di una scelta consapevole operata dal legislatore costituzionale. Al momento in cui fu effettuata questa scelta, l'ordinamento costituzionale italiano, pur contenendo norme come quelle degli artt. 5 e 128 della Costituzione, di fatto, in assenza dell'attuazione di tali norme, era ancora un ordimento monistico. Con l'emanazione della legge n. 142/1990 si e' avuta piena attuazione degli articoli della Costituzione sopra richiamati, e si e' configurato un ordinamento di tipo policentrico, caratterizzato da una pluralita' di enti, ciascuno dotato di autonomia costituzionalmente garantita. Quindi, dopo l'emanazione della legge n. 142/1990, l'ordinamento italiano si fonda su un diverso equilibrio fra i soggetti dotati di rilevanza costituzionale, con la fondamentale conseguenza che i comuni e le province sono enti investiti di funzioni proprie e con sfere di autonomia garantite tali da limitare la sfera di attribuzioni degli altri soggetti anch'essi dotati di autonomia costituzionalmente garantita. La Corte costituzionale nella citata sentenza del 1989 ha, altresi' affermato che, il particolare favore per l'operativita' della legge (e degli atti equiparati), trova un limite in relazione a leggi (o atti equiparati) che concernano "l'ordine sostanziale e le connesse situazioni soggettive, e soprattutto ( ..) influiscano negativamente su queste ultime". Pertanto, la Corte ha ammesso la possibilita' "che in relazione a leggi (o atti equiparati) che concernano direttamente competenze di organi pubblici (...) si presentino scarse occasioni di controversie e conseguentemente si formino zone franche di incostituzionalita'" a condizione che non si verifichi "un irrimediabile pregiudizio per l'attuazione dei valori costituzionali nell'assetto dei rapporti giuridici". Riassumendo, se pur in linea di principio la Corte ha ritenuto che il conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato non possa avere ad oggetto una legge (o un atto equiparato), ne ha ammesso la possibilita' nell'ipotesi in cui la legge (o un atto equiparato) costituiscono un elemento di rottura del nostro sistema costituzionale. Nel caso di specie il Governo - che nell'ambito dell'ordinamento e' preposto precipuamente alla tutela delle attribuzioni e degli interessi dello Stato-apparato - intervenendo nella situazione organizzata da leggi precedenti per ridurre le risorse degli enti locali - che costituiscono soggetti a rilevanza costituzionale ed essenziali per il funzionamento del sistema democratico - finisce per inserire un elemento di rottura nel nostro sistema di garanzia costituzionale ed altera l'equilibrio nei rapporti fra i poteri dell'ordinamento repubblicano. Insomma, se si ammette che il Governo nel corso dell'esercizio possa emettere i provvedimenti in esame, si consente ad esso, di sospendere l'esercizio dell'autonomia propria degli enti locali, cosi' come garantita dall'art. 128 della Costituzione ed attuata dalla legge n. 142/1990. Il pericolo di atti normativi statali e regionali lesivi delle autonomie locali si puo' prevenire solo riconoscendo la nuova soggettivita' che deriva ai comuni e alle prov- ince dalla legge n. 142/1990. I comuni e le province si possono proteggere contro le invadenze dello Stato e delle regioni solo se possono ricorrere direttamente alla Corte costituzionale e quindi senza la mediazione del giudice e senza il procedimento in via incidentale, che molte volte non sarebbe nemmeno possibile instaurare. PRESUPPOSTI OGGETTIVI DEL CONFLITTO Analizzato l'aspetto della legislazione a sollevare il conflitto di attribuzione da parte della provincia di Torino occorre valutare in che modo il legislatore abbia individuato la sfera di attribuzioni degli enti locali. La legge n. 142 dell'8 giugno 1990, seppure con notevole ritardo ha dato attuazione a quanto previsto dalla Costituzione accogliendo i principi da essa sanciti secondo i quali la Repubblica italiana risulta articolata in una pluralita' di organismi autonomi e concorrenti ed a tal fine ha conferito alle province cosi' come ai comuni attribuzioni, poteri e funzioni di estrema rilevanza in attuazione degli artt. 128 e 118, primo comma, della Costituzione. In particolare, l'art. 2 al primo comma riafferma che le "comunita' locali, ordinate in comuni e province, sono autonome". Ai sensi del quanto comma dell'art. 2 tale autonomia si articola essenzialmente in autonomia statutaria e finanziaria. La norma non fa distinzione alcuna ne' pone gerarchie tra i due concetti, per cui l'eventuale lesione dell'autonomia finanziaria comporta nel contempo la lesione dell'autonomia statutaria e, quindi, una lesione dell'ordinamento istituzionale. Infatti, la legge n. 142/1990 ha riconosciuto alle province un'ampio potere normativo che comprende non piu' e non soltanto il potere di emanare regolamenti, fonti sicuramente di natura secondaria, ma anche il potere di dotarsi di uno statuto, che costituisce fonte di natura diversa e assai piu' importante rispetto ai primi. Lo statuto si caratterizza quale fonte normativa costitutiva della disciplina di ciascun ente e quale fonte sub- primaria fondata sulla norma dell'art. 128 della Costituzione e con un ambito di competenza oggettiva delineato nella legge di principi. L'autonomia statutaria, oltre ad essere contenuta nell'art. 128 della Costituzione, e' riconducibile all'esercizio della sovranita' popolare, quale sua mediata manifestazione. Quindi, detta autonomia deve essere valutata in collegamento con l'art. 1 della Costituzione, che come e' noto recita: "La sovranita' appartiene al popolo, che l'esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione". Ne consegue che, nel caso frequente di invadenza con legge regionale o addirittura con legge statale degli ambiti riservati alla autonomia statutaria, occorre che gli enti locali possano difendere la loro autonomia e possano difenderla nell'unico luogo deputato alla difesa delle proprie funzioni costituzionalmente garantite: la Corte costituzionale. Per quanto attiene all'autonomia finanziaria, profilo piu' pertinente al caso in esame, va rilevato che la disposizione dell'art. 2 della legge n. 142/1990 (ove si afferma che "i comuni e le province hanno autonomia finanziaria nell'ambito delle leggi e del coordinamento della finanza pubblica" sviluppa quanto previsto dall'art. 119 della Costituzione. La norma costituzionale, infatti, stabilendo che le leggi della Repubblica coordinano l'autonomia finanziaria delle regioni con la "finanza dello Stato, delle province e dei comuni", presuppone l'esistenza in capo alla province e ai comuni di una finanza autonoma ed organica e presuppone una quasi equiordinazione fra gli enti dell'ordinamento: Stato-persona, regioni, province e comuni. Del resto la previsione dell'autonomia finanziaria e' requisito indispensabile per un'effettiva consistenza dell'autonomia. Questa, infatti, riconosciuta dagli artt. 5 e 128 della Costituzione e ribadita dall'art. 2 della legge n. 142/1990, costituirebbe un'affermazione priva di contenuto concreto se ad essa non si accompagnasse l'autosufficienza finanziaria e soprattutto la salvaguardia, nel corso dell'esercizio, delle risorse individuate ed assegnate come risorse "trasferite" o "trasferende". L'esistenza di fondi sufficienti e' condizione indispensabile perche' gli enti non siano dipendenti dal potere centrale e, quindi, possano esprimere liberamente il loro indirizzo politico-amministrativo. Peraltro, l'art. 2 della legge n. 142/1990 in modo analogo a quanto previsto dall'art. 118 della Costituzione per la finanza regionale, dispone che l'autonomia finanziaria della provincia si esplica nell'ambito delle leggi e del coordinamento della finanza pubblica. L'art. 54, primo comma, ribadisce che l'ordinamento della finanza locale e' riservato alla legge. Tuttavia i principi entro cui si dovra' muovere il legislatore nel dettare l'attesa normativa di riorganizzazione del settore sono contenuti nell'art. 54 della legge n. 142/1990. Tale norma dispone, fra l'altro piu' precisamente, che: 1) "ai comuni ed alle province la legge riconosce, nell'ambito della finanza pubblica, autonomia finanziaria fondata su certezza di risorse proprie e trasferite"; 2) "la legge assicura, altresi', agli enti locali potesta' impositiva autonoma nel campo delle imposte, delle tasse e delle tariffe, con conseguente adeguamento della legislazione tributaria vigente"; 3) "i trasferimenti erariali devono garantire i servizi locali indispensabili e sono ripartiti in base a criteri obiettivi che tengano conto della popolazione, del territorio e delle condizioni socio-economiche, nonche' in base ad una perequata distribuzione delle risorse che tenga conto degli squilibri di fiscalita' locale"; 4) "l'ammontare complessivo dei trasferimenti e dei fondi e' determinato in base a parametri fissati dalla legge per ciascuno degli anni previsti dal bilancio pluriennali dello Stato e non e' riducibile nel triennio". Quindi i capisaldi dell'ordinamento della finanza locale sono di grandissima portata, infatti: a) l'ordinamento della finanza locale e l'ordinamento finanziario sono riservati alla legge dello Stato (artt. 2, 54 e 55 della legge n. 142/1990); b) e' prevista per i comuni e le province, la certezza di risorse proprie e trasferite (art. 54); c) la garanzia della copertura finanziaria statale per i servizi locali indispensabili. Per quanto attiene al punto a), come si e' osservato in precedenza, l'assenza di una legge di riforma della finanza locale, non comporta l'assemza di principi in questa materia, posto che questi sono fissati in parte dalla legge n. 142/1990 ed in parte sono desumibili dall'ordinamento ed anche dalla programmazione nazionale, dalla legge del bilancio nazionale e dalle leggi sulla finanza pubblica in generale e sulla finanza locale (in particolare il d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504). Di tal guisa, tenendo presente che la legge n. 142/1990 si caratterizza per la sua natura di legge rinforzata (cfr. art. 1), e' evidente che ogni intervento del legislatore statale deve avvenire nell'ambito dei principi fissati da tale legge, a meno che non li modifichi espressamente con una norma ad hoc, sempre, pero', nel rispetto dei principi di autonomia locale sanciti dalla Costituzione. Per quanto attiene al punto b), l'autonomia finanziaria dei comuni e delle province e' fondata, almeno cosi' enuncia il secondo comma dell'art. 54, su certezza di risorse proprie e trasferite. L'attuazione dei disposti statutari dell'ente provincia di Torino concernenti l'organizzazione, l'erogazione e la programmazione dei servizi necessita della conoscenza anticipata delle disponibilita' finanziarie su cui possono fare affidamento gli amministratori locali nell'esercizio finanziario corrente e negli esercizi successivi. Solo in tal caso si puo' sapere quali servizi verranno coperti dai trasferimenti erariali e regionali, quali servizi necessari potranno essere erogati a carico delle finanze locali, quali investimenti potranno essere decisi ed effettuati. La certezza deve risultare garantita nel corso di tutto il periodo finanziario di riferimento. La mancanza di certezza delle risorse puo' portare a disavanzi in espansione; a situazioni di partite e di debiti fuori bilancio; con conseguenze disastrose ed anche dichiarazioni di dissesto finanziario incontrollabili e di responsabilita' per amministratori e funzionari. Pertanto il Governo non puo' intervenire, con un decreto-legge, prevedendo una riduzione delle entrate quando l'esercizio finanziario e' gia' largamente inoltrato; quando i bilanci sono stati approvati ed assestati; quando le destinazioni di spesa e la ripartizione delle risorse disponibili sono gia' state stabilite. In riferimento al punto c), l'art. 54, secondo comma, stabilisce non solo che i trasferimenti erariali devono garantire i servizi locali indispensabili, ma anche che questi devono essere ripartiti secondo precisi criteri che tengano conto della popolazione, del territorio e delle condizioni socio-economiche, nonche' in base ad una perequata distribuzione delle risorse che tenga conto degli squilibri di fiscalita' locale. Questa operazione, sia pure di massima e secondo criteri accentratori, e' stata compiuta in sede di approvazione del bilancio dello Stato, della legge finanziaria statale e della legge sulla finanza locale ed in particolare col d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504. Quanto descritto rende chiaro che il legislatore nel disciplinare i trasferimenti erariali, anche nel caso intervenga con provvedimenti provvisori e contingenti, non puo' prescindere dai parametri fissati al riguardo dalla legge di principi. Quanto delineato, quindi, individua i limiti che l'attivita' governativa deve rispettare anche sotto il profilo dei rapporti Governo-Parlamento. In caso d'inosservanza di questi limiti e principi, siano chiaramente in presenza di un uso illegittimo della facolta' governativa di regolamentazione della finanza locale ed anche di proposta al Parlamento. Muovendosi in direzione completamente opposta a quella indicata dalla legge sulle autonomie locali n. 142/1990, nonche' della legge delega n. 421/1992 e del relativo decreto legislativo di attuazione n. 504/1992, il Governo con il d.l. n. 155 del 22 maggio 1993 opera una irrigionevole, immotivata ed illegittima riduzione dei trasferimenti previsti a favore degli enti locali e quindi della provincia. In particolare, l'art. 3 dispone, al primo comma, la riduzione del 5% dei contributi ordinari, mentre al secondo comma la riduzione del 7% del complesso delle dotazioni ordinarie riconosciute agli enti locali per l'anno 1993; l'art. 8, sempre per l'anno 1993, riduce drasticamente del 50 per cento l'ammontare dei mutui che possono essere concessi dalla cassa depositi e prestiti per il finanziamento degli investimenti degli enti locali compresi i mutui destinati ai settori dell'edilizia scolastica e dell'edilizia giudiziaria. Le conseguenze sui bilanci degli enti locali di quanto disposto dal Governo appaiono gravi. In particolare il bilancio preventivo della provincia di Torino presenta un elevato grado di rigidita' in relazione alla distribuzione fra spese fisse e spese variabili. Infatti, sul volume totale delle risorse correnti ammontanti a L. 304.769 miliardi, le spese fisse incidono per una somma di L. 294.306 miliardi pari, quindi, al 96%. Pertanto il margine di manovra delle risorse correnti e da destinare per lo piu' ai fondi di riserva ed alle spese che non sono propriamente istituzionali, ma tuttavia connesse a compiti consolidati negli anni (assistenza, cultura, ecc ..) si riduce in modo notevolissimo sino a L. 10.463 miliardi pari al 4% dell'intero ammontare e pertanto tende a zero. Con l'art. 3 del citato d.l. si va ad incidere indistintamente sulle spese correnti, comprimendo inevitabilmente le spese sia le spese fisse sia quelle variabili gia' di per se' insufficienti. Inoltre il d.l. n. 155 del 22 maggio 1993, intervenendo ad esercizio finanziario inoltrato, quando la maggior parte delle spese e' stata impegnata e quando altri impegni incombono sull'ente in virtu' di numerosi obblighi posti continuamente a carico degli enti locali da parte di leggi statali e regionali, crea la premessa per una chiusura in disavanzo dell'esercizio. Anche sotto questo punto di vista, pertanto, risulta essere gravemente violata non soltanto l'automia finanziaria locale, ma anche quella politica amministrativa. Non vale certamente a giustificare tale intervento del governo l'esigenza per lo Stato di contenere il deficit pubblico. Gli enti locali sono consapevoli dell'estrema importanza dell'obiettivo, ma questo non puo' essere perseguito alterando gli equilibri istituzionali delineati dalla Costituzione. In particolare, gli enti locali sono istituzioni di autonomia chiamate ad adempiere alle piu' diverse funzioni ed ad assicurare alla cittadinanza i piu' diversi servizi. Il Governo, operando dei tagli alla spesa degli enti locali senza dire dove ed in che modo si ritiene di poter risparmiare nelle spese per prestazioni a cittadini o per servizi, persegue in realta' un intento di contenimento della spesa assolutamente astratto e privo di un concreto riferimento alla strumentazione necessaria all'individuazione delle entrate sostitutive. E' pertanto evidente che la riduzione dei contributi ordinari non costituisce una misura di effettivo contenimento del deficit del bilancio statale, ma un semplice palliativo con il quale si finisce con l'addossare sugli enti locali squilibri finanziari che prima o poi dovranno emergere ed essere finanziati. E cio' con una ancor piu' evidente lesione del principio di autonomia finanziaria ed una compressione del sistema della finanza locale delineato dalla legge n. 142/1990. E, d'altro canto, la riduzione del finanziamento mediante trasferimenti si traduce in un vero e proprio onere aggiuntivo per i bilanci degli enti locali. Dovrebbe, dunque, trovare piena applicazione il pricipio costituzionale secondo cui ogni legge, la quale importi nuove e maggiori spese per i bilanci pubblici deve indicare i mezzi per farvi fronte (art. 81, quarto comma, della Costituzione): e' infatti pacifico che tale principio valga anche nei confronti delle leggi che comportano, anziche' un aumento di spesa, una diminuzione di entrate. La disposizione dell'art. 3 del d.l. n. 155/1993, nel limitare radicalmente il contributo dello Stato, determina una riduzione di entrate per gli enti locali senza indicare la copertura finanziaria prevista dall'art. 81, quarto comma, della Costituzione. La disposizione censurata avrebbe potuto - in astratto - assumere un significato ove, ad esempio, a fronte di una diminuzione dei trasferimenti alle province, il legislatore avesse altresi' disposto una diminuzione dei servizi dalla stessa tradizionalmente erogati e finanziati con la spesa corrente. Ma, a parte il rilievo che cio' non avrebbe potuto essere fatto perche' in netto contrasto col principio costituzionale di riconoscimento e promozione delle autonomie locali, al contrario, con l'art. 2 del recentissimo decreto interministeriale 28 maggio 1993, emanato in attuazione dell'art. 11 della legge n. 8/1993 e dell'art. 37 della legge n. 540/1992 il Governo, a fronte della predetta manovra finanziaria, nel definire i servizi indispensabili di competenza delle province, non opera alcun logico ridimensionamento degli stessi. E' stata quindi introdotta anche nell'ordinamento degli enti locali la categoria dei "servizi indispensabili", servizi per i quali non esiste la libera scelta degli amministratori, dovendo gli stessi essere in ogni caso garantiti ed assicurati ai cittadini. Da una parte, quindi, una disposizione che limita pesantemente le risorse finanziarie, dall'altra, una disposizione in astratto ed in se' certamente condivisibile, che vieta in modo assoluto di sospendere, limitare o sopprimere servizi qualificati come indispensabili. Le argomentazioni svolte in riferimento alla norma dell'art. 3 del d.l. n. 155/1993 possono estendersi alla seconda disposizione impugnata - quella dell'art. 8 - con una ulteriore considerazione. La legge n. 142/1990, per supplire ad una generale carenza di programmazione pubblica, ha introdotto in numerose disposizioni l'obbligo per le stesse di agire mediante piani e programmi per il raggiungimento degli obiettivi prefissati: cosi' l'art. 3, quinto comma, prevede il concorso di comuni e province "nella determinazione degli obiettivi contenuti nei piani e nei programmi dello Stato e delle regioni" provvedendo "per quanto di propria competenza, alla loro specificazione ed attuazione", l'art. 1 assegna alla provincia compiti di programmazione di notevole portata; ancora l'art. 32, secondo comma, lett. b) elenca una serie di atti di natura programmatoria che l'organo consiliare ha il compito di adottare nell'esercizio della propria funzione di indirizzo e controllo politico-amministrativo; l'art. 51, primo comma, infine, attribuisce ai dirigenti "responsabilita' gestionali per l'attuazione degli obiettivi fissati dagli orgnai dell'ente". Tali disposizioni costituiscono ancora una volta la piu' alta espressione del principio autonomistico cui e' ispirata la Carta costituzionale (artt. 5 e 128 della Costituzione); non esiste infatti piu' ampia autonomia di quella rappresentata dalla possibilita' per un soggetto di proiettare la propria azione nel futuro, tentando di prevederne i risultati e, sulla base di tale previsione, adeguare i propri comportamenti al fine di conseguire gli obiettivi secondo criteri di economicita', funzionalita' ed efficacia. Non e' chi non veda, d'altronde, nel modello della programmazione un diretta attuazione del principio del "buon andamento" dell'azione amministrativa contenuto nell'art. 97 della Costituzione. Ebbene, la funzione di "programmazione" vista come concretizzazione sia del principio autonomistico, sia del principio efficentistico di cui all'art. 97 della Costituzione, nella sua stretta corrrelazione con il canone della ragionevolezza desumibile dell'art. 3 della Costituzione, viene pesantemente modificata dal censurato intervento del Governo. E' logico, infatti, che privando gli enti locali e, nella fattispecie, le province dei mezzi finanziari necessari al perseguimento degli obiettivi individuati dagli organi di governo dell'ente, per un verso, risultano gravemente essere compromesse l'autonomia e le funzioni della provincia quale "ente intermedio" competente alla cura degli interessi ed alla promozione dello sviluppo della comunita' provinciale (art. 2, terzo comma, della legge n. 142/1990); mentre, per altro verso, e' precluso il raggiungimento degli obiettivi prefissati negli atti di programmazione degli organi collegiali, con un sensibile abbassamento del livello di efficienza dell'azione amministrativa interessante le aree intercomunali. Con questa iniziativa il Governo contraddice i principi costituzionali di buona amministrazione contenuti nell'art. 97 della Costituzione e quindi costringe gli enti locali ad operare contro la conclamata esigenza di efficacia, efficenza e correttezza dell'azione amministrativa. E' opportuno, infine, ricordare che tale ricostruzione trova autorevole conferma in alcune recentissime decisioni della Corte costituzionale, la quale, sebbene in riferimento all'autonomia finanziaria regionale (sentenze n. 98 e n. 116 del 1991; sentenze nn. 283/1991 e 356/1992); ha avuto modo di affermare che "una riduzione di risorse disposta nel modo indicato non puo' determinare squilibrio nella sfera di autonomia costituzionalmente assicurata alle regioni e, quindi, nei confronti di una corretta attivita' di bilancio o dovuto alla possibile interferenza di quegli interventi sui programmi di spesa gia' adottati ed in corso di svolgimento". Tale affermazione di principio non puo' non ritenersi estensibile a fortiori agli enti locali, trattandosi di soggetti dotati di pari autonomia e dignita' costituzionale. Peraltro, il supremo Collegio con successiva decisione - la n. 128/1993 - che pure potrebbe suscitare alcune perplessita', ha ritenuto che non vi puo' essere violazione del principio sopra enunciato in presenza delle due seguenti condizioni: una manovra finanziaria di carattere generale, diretta a far fronte ad una situazione di emergenza e disavanzo nel settore pubblico allargato, che richiede un impegno solidale di tutti gli enti territoriali erogatori di spesa di fronte al quale la garanzia costituzionale dell'autonomia finanziaria non puo' fungere da impropria giustificazione per una singolare esenzione; una manovra finanziaria che operi esclusivamente sulle spese correnti e non anche sulle spese destinate allo sviluppo. In riferimento al primo punto, non vi e' dubbio che la manovra operata dal Governo con il d.l. n. 155/1993 sia priva del carattere della generalita', incidendo piu' pesantemente sui bilanci degli enti locali, caratterizzati da una capacita' finanziaria di gran lunga inferiore a quella dello Stato e della regione. E soprattutto dalla "rigidezza" della loro finanza. Pertanto, solo apparente risulta essere il coinvolgimento di tutti i soggetti istituzionali erogatori di spesa nella riduzione del disavanzo pubblico. Evidente, inoltre, appare la violazione del secondo principio da parte dell'art. 8 del d.l. n. 155/1993 che si occupa delle spese destinate agli investimenti dei locali. Dalle considerazioni che precedono emerge con chiarezza come il Governo abbia illegittimamente menomato le attribuzioni costituzionalmente riservate alla provincia. OGGETTO DEL CONFLITTO Le osservazioni sin qui svolte consentono di puntualizzare l'oggetto del conflitto che con il presente atto si solleva dinanzi alla Corte costituzionale, avverso il Governo nel suo complesso. La ricorrente lamenta innanzitutto che sia stata violata la propria sfera di attribuzioni costituzionali attraverso il d.l. n. 155 del 22 maggio 1993. Attraverso il richiamato decreto-legge si verifica un conflitto da interferenza che ha ad oggetto la delimitazione della sfera di competenza della provincia di Torino ad essa riservata dagli artt. 118 e 128 della Costituzione, oltre che della legge 8 giugno 1990, n. 142 e consistente nello stabilire se il d.l. citato leda le attribuzioni della provincia stessa.