Ricorso per conflitto di attribuzione  della  provincia  di  Torino
 nella  persona  del  presidente  pro-tempore  della provincia, giusta
 deliberazione della giunta provinciale 13 giugno 1993, verbale n. 30,
 rappresentata e difesa come da mandato a margine  del  presente  atto
 dall'avv.   Rino   Gracili   del  foro  di  Milano  ed  elettivamente
 domiciliata in Roma, presso lo studio dell'avv. Domenico Davoli,  via
 S.  Maria  Maggiore  n.  112  contro  il  Governo della Repubblica in
 persona del Presidente del Consiglio  dei  Ministri  pro-tempore,  in
 relazione   all'approvazione   del  d.l.  22  maggio  1993  n.  155,
 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 118 del 22 maggio 1993 recante
 "Misure  urgenti  per  la  finanza  pubblica", e piu' precisamente in
 relazione all'art. 3 col quale:  al  primo  comma  viene  operata  la
 riduzione  del  5%  (cinque per cento) dei trasferimenti statali, per
 contributi ordinari, spettanti, per l'anno 1993, alle amministrazioni
 provinciali ed ai comuni ai  sensi  dell'art.  29,  primo  e  secondo
 comma,  del  d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504; al secondo comma, viene
 operata la riduzione del 7% (sette per  cento)  del  complesso  delle
 dotazioni  ordinarie riconosciuto alle amministrazioni provinciali ed
 ai comuni, per l'anno 1993, ai sensi dell'art. 35 del citato  d.-lgs.
 30  dicembre  1992, n. 504; nonche' in relazione all'art. 8 col quale
 per l'anno 1993  l'ammontare  dei  mutui  che  la  cassa  depositi  e
 prestiti puo' concedere per il finanziamento degli investimenti degli
 enti   locali   viene   ridotto   all'importo  complessivo  di  3.600
 (tremilaseicento)  miliardi  in  luogo   dell'importo   previsto   in
 precedenza,  con  una  riduzione del 50% (cinquanta per cento); ed e'
 precisato che detto importo comprende anche i mutui previsti da norme
 speciali, ivi  inclusi  quelli  destinati  ai  settori  dell'edilizia
 scolastica e dell'edilizia giudiziaria.
                               F A T T O
    Con  d.l.  22  maggio 1993, n. 155, sono stata emanate le "Misure
 urgenti  per  la  finanza  pubblica"  proposte  dal  Presidente   del
 Consiglio  dei  Ministri e dal Ministro del tesoro e delle finanze di
 concerto  con  il  Ministro  del  bilancio  e  della   programmazione
 economica  ed  approvate con deliberazione del Consiglio dei Ministri
 nella riunione del 21 maggio 1993.
    Alcune delle suddette misure, contenute negli  artt.  3  e  8  del
 d.l., riguardano, per l'anno 1993, la finanza degli enti locali.
    L'art.  3,  rubricato  "trasferimenti agli enti locali" stabilisce
 che:
    1.  "Per  l'anno  1993  i  contributi  ordinari   spettanti   alle
 amministrazioni provinciali e comunali ai sensi dell'art. 29, primo e
 secondo comma, del d.-lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, sono ridotti del
 5  per  cento;  la  riduzione viene operata per intero all'atto della
 corresponsione della quarta rata dei contributi stessi. Sono  esclusi
 dalla  riduzione  gli  enti locali dichiarati dissestati alla data di
 entrata in vigore del presente decreto".
    2. "Ai fini dell'applicazione delle disposizioni recate  dall'art.
 35  del  citato  decreto  legislativo n. 504/1992, il complesso delle
 dotazioni ordinarie riconosciuto alle amministrazioni  provinciali  e
 ai  comuni  per  l'anno 1993 e' rideterminato, con gli stessi criteri
 indicati al primo comma,  assumendo  come  base  di  riferimento  una
 riduzione del 7 per cento".
    L'art.  8,  rubricato  "mutui  cassa depositi e prestiti", dispone
 che:
    "Per l'anno 1993 l'ammontare dei mutui che  la  cassa  depositi  e
 prestiti puo' concedere per il finanziamento degli investimenti degli
 enti  locali  non  puo'  superare  il complessivo importo di L. 3.600
 miliardi. Detto ammontare comprende anche i mutui previsti  da  norme
 speciali,  ivi  inclusi  quelli  destinati  ai  settori dell'edilizia
 scolastica e dell'edilizia giudiziaria".
    A seguito dell'emanazione delle su riportate disposizioni, in data
 15 giugno 1993, si riuniva la giunta provinciale di Torino.
    In  tale  adunanza  la  giunta  rilevava  che  le nuove previsioni
 risultavano estremamente penalizzanti  per  la  finanza  dell'ente  e
 compromettono     gravemente     l'esercizio    delle    attribuzioni
 costituzionalmente garantite alla provincia.
    La giunta rilevava, infatti, che gli artt. 3 e 8 del citato  d.l.
 n.  55/1993  privavano  gli  enti locali di una parte rilevante delle
 gia' insufficienti entrate derivanti dai trasferimenti erariali senza
 prospettive di poterle sostituire in alcun modo.
    Inoltre la riduzione dell'ammontare dei mutui della cassa depositi
 e  prestiti  compromette  gravemente,  nel  corso  dell'esercizio,  i
 programmi elaborati da province e comuni.
    Si  viene  cosi' a determinare - evidenziava la giunta - una sorta
 di immobilismo operativo degli enti locali anche, e  soprattutto,  in
 ordine  all'esercizio  dei  loro  compiti  volti  alla  tutela  degli
 interessi  della  collettivita'  sotto  il  profilo  dello   sviluppo
 economico, sociale e culturale.
    Quanto sopra, mentre l'ordinamento giuridico conferisce alle prov-
 ince   la   titolarita'   di  funzioni  pubbliche  costituzionalmente
 rilevanti e garantite, concorrenti con quelle attribuite a poteri  ed
 organi  statuali  in senso proprio e nonostante che la legge 8 giugno
 1990, n. 142, in aderenza agli  artt.  5  e  128  della  Costituzione
 nonche' in attuazione della IX disposizione transitoria della stessa,
 riconosca  le  autonomie esistenti ed attribuisca agli enti locali di
 una piu' ampia autonomia finanziaria, statutaria e funzionale.
    La giunta  provinciale  sottolineava,  infine,  che  le  norme  in
 questione  sono  in  netto  contrasto  oltre  che con la Costituzione
 (artt. 5, 81, 119 e 128) con  quanto  stabilito  dall'art.  54  della
 legge n. 142/1990 - che oltretutto costituisce normativa "rinforzata"
 - e con l'art. 34, quinto comma, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504,
 relativo al riordino della finanza degli enti territoriali.
    Pertanto  la  giunta  deliberava  di promuovere, dinanzi a codesta
 ecc.ma Corte costituzionale, conflitto di attribuzioni nei  confronti
 del  Governo  per  aver  quest'ultimo,  attraverso il d.l. 22 maggio
 1993, n. 155,  compromesso  e  leso  l'esercizio  delle  attribuzioni
 costituzionali spettanti alla provincia.
    Il  ricorso  per  conflitto di attribuzioni si fonda sul fatto che
 col decreto-legge citato il Governo opera una rilevante riduzione dei
 trasferimenti di risorse dallo Stato-ente agli enti locali,  privando
 cosi' questi ultimi delle risorse finanziarie per loro previste dalla
 normativa  vigente,  indispensabili all'esercizio delle loro funzioni
 costituzionalmente riconosciute.
    In  sostanza  con  questo  decreto-legge  il  Governo,  nel  corso
 dell'esercizio finanziario, sposta risorse finanziarie destinate agli
 enti locali riservandole nella disponibilita' dello Stato-apparato.
                        PRESUPPOSTI SOGGETTIVI
    L'art.  37  della  legge  costituzionale  11  marzo  1953,  n. 87,
 stabilisce che "il conflitto tra i poteri  dello  Stato  e'  risoluto
 dalla  Corte  costituzionale  se  indorge  tra  organi  competenti  a
 dichiarare definitivamente la volonta' dei poteri a cui  appartengono
 e  per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinate per i
 vari poteri da norme costituzionali".  La citata norma lascia  sempre
 aperta, caso per caso, la necessita' dell'accertamento dell'idoneita'
 soggettiva  del ricorrente a promuovere il giudizio e della esistenza
 effettiva del conflitto di attribuzioni fra i vari poteri.    Infatti
 il  giudizio  davanti  alla  Corte  e'  caratterizzato  da  una  fase
 preliminare  nella  quale la Corte decide con ordinanza, in camera di
 consiglio, sull'ammissibilita' del  ricorso.    Per  quanto  concerne
 l'individuazione  dei  presupposti  soggettivi e quindi la nozione di
 "potere dello Stato", la Corte costituzionale ha abbandonato gia'  da
 tempo  la  tesi  secondo  la  quale  i  "poteri  dello Stato", cui si
 riferisce l'art. 134 della Costituzione, sarebbero soltanto il potere
 legislativo, esecutivo e giudiziario.  La giurisprudenza della  Corte
 ha,  infatti,  individuato quali ulteriori poteri il Presidente della
 Repubblica, la stessa Corte costituzionale,  gli  elettori  firmatari
 della   richiesta  di  referendum  e  cioe'  soggetti  che  non  sono
 ricomprensibili, in modo evidente, nella su richiamata tripartizione.
 Quanto alla  provincia  la  Corte,  in  passato,  ha  negato  la  sua
 legittimazione  ad  esser  parte  di  un  conflitto  di  attribuzione
 sollevato ai sensi dell'art. 37 della legge costituzionale n. 87  del
 1953   "non   essendo   l'amministrazione  provinciale  competente  a
 dichiarare definitivamente in materia, la  volonta'  del  potere  cui
 appartiene"  (ordinanza  n.  101/1970).    Tale  pronuncia, peraltro,
 negava la legittimazione della Provincia  solo  nell'ipotesi  in  cui
 essa   agisca   quale  organo  di  decentramento  statale,  lasciando
 impregiudicata la questione nell'ipotesi in cui la stessa,  come  nel
 caso  di specie, sia indotta ad agire nella veste in ente titolare di
 poteri propri, cioe' "ente autonomo" nell'ambito dei principi fissati
 dalle leggi generali della Repubblica che ne determina  le  funzioni.
 E'  pertanto  necessario  analizzare  se  in  quest'ultima ipotesi la
 provincia possa ritenersi legittimata a sollevare il  conflitto.    A
 tale riguardo occorre richiamare la fondamentale sentenza della Corte
 costituzionale n. 69/1978 con la quale essa ha ammesso a sollevare il
 ricorso  gli  elettori  firmatari  di una richiesta referendaria.  In
 tale pronuncia la Corte afferma  che  "se  i  'poteri  dello  Stato',
 legittimati   a  proporre  il  conflitto  di  attribuzione  ai  sensi
 dell'art. 134 della Costituzione, sono anzitutto e  principalmente  i
 poteri   dello   Stato-apparato,   cio'   non   esclude  che  possano
 riconoscersi a tale effetto come  poteri  dello  Stato  anche  figure
 soggettive esterne allo Stato-apparato, quanto meno allorche' ad esse
 l'ordinamento  conferisca  la  titolarita'  e l'esercizio di funzioni
 pubbliche costituzionalmente rilevanti e garantite,  concorrenti  con
 quelle attribuite a poteri ed organi statuali in senso proprio".  Con
 tale  pronuncia  la  Corte,  attualizzando la portata dell'istituto e
 valorizzando la concezione dello Stato come  "Stato-ordinamento",  ha
 ammesso al ricorso soggetti formalmente esterni allo "Stato-persona".
 A  tal  fine  ha  ritenuto  necessaria,  ama  anche  sufficiente,  la
 sussistenza delle seguenti condizioni:
       a)  l'esercizio  di   funzioni   pubbliche   costituzionalmente
 rilevanti e garantite;
       b)  la  "concorrenza"  di  queste funzioni con quelle svolte da
 organi dello Stato e  cioe'  l'idoneita'  delle  stesse  ad  incidere
 sull'esercizio delle funzioni statali.
    Quanto  alla  prima  condizione  (sub  a)),  va  rilevato  che  la
 provincia, a norma degli artt. 5, 114, 118 e 128 della  Costituzione,
 costutuisce    un    potere    autonomo    titolare    di    funzioni
 costituzionalmente rilevanti e garantite.  Dalle citate norme emerge,
 infatti, che le province, cosi' come i comuni -  che  nel  linguaggio
 giuridico  corrente  vengono  definiti "poteri locali" - fruiscono di
 una autonomia tale da configurare la  legislazione  in  materia  come
 costituzionalmente  vincolata  sia nei "limiti", che nei "principi" e
 nei "metodi", sia dall'obbligo di promuovere l'autonomia stessa (cfr.
 art. 5 della Costituzione).  In particolare, per quanto  concerne  le
 funzioni,   l'art.   118,   primo   comma,  della  Costituzione,  nel
 riconoscere  alle  regioni  le   funzioni   amministrative   elencate
 nell'art. 117 della Costituzione, riserva alle "province e ai comuni"
 "le  funzioni di interesse esclusivamente locale" da individuarsi con
 legge,  con  cio'  riconoscendo  espressamente   alle   province   la
 titolarita' di funzioni proprie esclusive (funzioni amministrative di
 interesse  locale)  riconducibili  alla loro posizione di ente locale
 intermedio fra  comune  e  regione,  attributario  della  cura  degli
 interessi   e   della   promozione  dello  sviluppo  della  comunita'
 provinciale.  Si deve, peraltro, precisare che la riserva di legge in
 materia, attribuisce al legislatore non una funzione creatrice  degli
 "interessi  esclusivamentte  locali",  che preesistono all'intervento
 legislativo, ma solo la loro individuazione.    Quanto  alla  seconda
 condizione  (bus  b)),  dagli artt. 5 e 128 della Costituzione emerge
 che le province sono titolari di funzioni fondamentali per  la  vita,
 lo  sviluppo e l'economia della comunita' provinciale. Come tali sono
 suscettibili di incidere e limitare l'esercizio di funzioni  statali.
 Infatti il rapporto fra l'autonomia, le funzioni della provincia e il
 potere  legislativo  e'  delineato  dalla  stessa  Costituzione  che,
 all'art. 128, prevede che sia il legislatore ordinario  a  fissare  i
 principi  all'interno dei quali l'autonomia e le funzioni delle prov-
 ince possono esplicarsi liberamente.  Il legislatore  ordinario  puo'
 intervenire   sull'autonomia  e  le  funzioni  della  provincia  solo
 modificando espressamente i principi in precedenza delineati, ma  mai
 intervenendo  con  disposizioni che regolano o vincolano in dettaglio
 le   modalita'   di   estrinsecazione   delle    funzioni    violando
 surrettiziamente    i   principi   stessi   e   quindi   il   dettato
 costituzionale.     Diversamente   il   legislatore   violerebbe   in
 particolare  l'art.  5  della Costituzione, che impone allo stesso di
 adeguare i principi e i metodi della sua legislazione  alle  esigenze
 dell'autonomia.
    Riassumendo:
       a)    la    provincia   e'   titolare   di   funzioni   proprie
 costituzionalmente riconosciute e garantite;
       b) l'esercizio di tali funzioni  e'  autonomo  all'interno  dei
 principi generali stabiliti dalle leggi dello Stato;
       c)  l'eventuale  legge statale che violi i principi generali in
 precedenza  fissati  dallo  stesso   legislatore   viola   con   cio'
 l'autonomia  costituzionalmente garantita alla provincia ed invade le
 attribuzioni a questa spettanti.
    Pertanto,  contro  tale  legge  e'  sollevabile  il  conflitto  di
 attribuzioni  dinanzi  alla Corte costituzionale.  Ammissibilita' del
 conflitto in relazione ad atti aventi  forza  di  legge.    La  Corte
 costituzionale  nella  sentenza  del  6-14  luglio 1989, n.   406, ha
 affermato che "in linea di principio il conflitto di attribuzione fra
 poteri dello Stato non possa ritenersi dato contro  una  legge  o  un
 atto  equiparato.  Cio'  non  soltanto  in  vista  della  ragionevole
 esigenza di bilanciare la relativa  latitudine  della  cerchia  degli
 organi  abilitati  al  conflitto  fra  poteri  con  una piu' rigorosa
 delimitazione dell'ambito oggettivo del conflitto  stesso  (...),  ma
 soprattutto  in  quanto la sperimentabilita' del conflitto contro gli
 atti  sopra  indicati  finirebbe  con  il  costituire  un elemento di
 rottura nel nostro sistema di garanzia costituzionale,  sistema  che,
 per  quanto  concerne la legge (e gli atti equiparati), e' incentrato
 nel sindacato incidentale"
    La strutturazione di tale garanzia costituzionale e' il frutto  di
 una  scelta  consapevole  operata dal legislatore costituzionale.  Al
 momento  in  cui   fu   effettuata   questa   scelta,   l'ordinamento
 costituzionale italiano, pur contenendo norme come quelle degli artt.
 5  e  128 della Costituzione, di fatto, in assenza dell'attuazione di
 tali norme, era ancora un  ordimento  monistico.    Con  l'emanazione
 della  legge  n. 142/1990 si e' avuta piena attuazione degli articoli
 della  Costituzione  sopra  richiamati,  e  si  e'   configurato   un
 ordinamento di tipo policentrico, caratterizzato da una pluralita' di
 enti,  ciascuno  dotato  di  autonomia  costituzionalmente garantita.
 Quindi, dopo l'emanazione  della  legge  n.  142/1990,  l'ordinamento
 italiano  si  fonda su un diverso equilibrio fra i soggetti dotati di
 rilevanza costituzionale,  con  la  fondamentale  conseguenza  che  i
 comuni  e  le  province sono enti investiti di funzioni proprie e con
 sfere  di  autonomia  garantite  tali  da  limitare   la   sfera   di
 attribuzioni  degli  altri  soggetti  anch'essi  dotati  di autonomia
 costituzionalmente garantita.
    La  Corte  costituzionale  nella  citata  sentenza  del  1989  ha,
 altresi'  affermato  che,  il  particolare  favore per l'operativita'
 della legge (e degli atti equiparati), trova un limite in relazione a
 leggi (o atti equiparati) che concernano "l'ordine sostanziale  e  le
 connesse  situazioni  soggettive,  e  soprattutto  (  ..) influiscano
 negativamente su queste ultime".  Pertanto, la Corte  ha  ammesso  la
 possibilita'  "che  in  relazione  a  leggi  (o  atti equiparati) che
 concernano  direttamente  competenze  di  organi  pubblici  (...)  si
 presentino  scarse  occasioni  di  controversie e conseguentemente si
 formino zone franche di incostituzionalita'" a condizione che non  si
 verifichi  "un  irrimediabile pregiudizio per l'attuazione dei valori
 costituzionali nell'assetto dei rapporti giuridici".  Riassumendo, se
 pur in linea di principio la Corte ha ritenuto che  il  conflitto  di
 attribuzione  fra  poteri  dello Stato non possa avere ad oggetto una
 legge  (o  un  atto  equiparato),  ne  ha  ammesso  la   possibilita'
 nell'ipotesi  in cui la legge (o un atto equiparato) costituiscono un
 elemento di rottura del nostro sistema costituzionale.
    Nel caso di specie il Governo - che  nell'ambito  dell'ordinamento
 e'  preposto  precipuamente  alla  tutela  delle attribuzioni e degli
 interessi  dello  Stato-apparato  -  intervenendo  nella   situazione
 organizzata  da  leggi  precedenti  per ridurre le risorse degli enti
 locali - che costituiscono soggetti  a  rilevanza  costituzionale  ed
 essenziali per il funzionamento del sistema democratico - finisce per
 inserire  un  elemento  di  rottura  nel  nostro  sistema di garanzia
 costituzionale ed altera  l'equilibrio  nei  rapporti  fra  i  poteri
 dell'ordinamento repubblicano.
    Insomma,  se  si  ammette  che il Governo nel corso dell'esercizio
 possa emettere i provvedimenti in esame,  si  consente  ad  esso,  di
 sospendere  l'esercizio  dell'autonomia  propria  degli  enti locali,
 cosi' come garantita dall'art.  128  della  Costituzione  ed  attuata
 dalla  legge  n.  142/1990.   Il pericolo di atti normativi statali e
 regionali lesivi  delle  autonomie  locali  si  puo'  prevenire  solo
 riconoscendo la nuova soggettivita' che deriva ai comuni e alle prov-
 ince dalla legge n.  142/1990.
    I  comuni  e le province si possono proteggere contro le invadenze
 dello Stato e delle regioni solo se  possono  ricorrere  direttamente
 alla  Corte costituzionale e quindi senza la mediazione del giudice e
 senza il procedimento in via incidentale, che molte volte non sarebbe
 nemmeno possibile instaurare.
                  PRESUPPOSTI OGGETTIVI DEL CONFLITTO
    Analizzato l'aspetto della legislazione a sollevare  il  conflitto
 di  attribuzione  da parte della provincia di Torino occorre valutare
 in che modo il legislatore abbia individuato la sfera di attribuzioni
 degli enti locali.
    La legge n. 142 dell'8 giugno 1990, seppure con  notevole  ritardo
 ha dato attuazione a quanto previsto dalla Costituzione accogliendo i
 principi  da  essa  sanciti  secondo  i  quali la Repubblica italiana
 risulta  articolata  in  una  pluralita'  di  organismi  autonomi   e
 concorrenti  ed  a  tal fine ha conferito alle province cosi' come ai
 comuni attribuzioni,  poteri  e  funzioni  di  estrema  rilevanza  in
 attuazione  degli  artt.  128 e 118, primo comma, della Costituzione.
 In particolare, l'art. 2 al primo comma riafferma che  le  "comunita'
 locali,  ordinate in comuni e province, sono autonome".  Ai sensi del
 quanto comma dell'art. 2 tale autonomia si articola essenzialmente in
 autonomia statutaria e finanziaria.   La  norma  non  fa  distinzione
 alcuna  ne'  pone  gerarchie  tra i due concetti, per cui l'eventuale
 lesione dell'autonomia finanziaria comporta nel contempo  la  lesione
 dell'autonomia  statutaria  e,  quindi,  una lesione dell'ordinamento
 istituzionale.
    Infatti, la  legge  n.  142/1990  ha  riconosciuto  alle  province
 un'ampio  potere  normativo  che comprende non piu' e non soltanto il
 potere  di  emanare  regolamenti,   fonti   sicuramente   di   natura
 secondaria,  ma  anche  il  potere  di  dotarsi  di  uno statuto, che
 costituisce fonte di natura diversa e assai piu' importante  rispetto
 ai   primi.    Lo  statuto  si  caratterizza  quale  fonte  normativa
 costitutiva della disciplina di  ciascun  ente  e  quale  fonte  sub-
 primaria  fondata  sulla norma dell'art. 128 della Costituzione e con
 un ambito di competenza oggettiva delineato nella legge di  principi.
 L'autonomia statutaria, oltre ad essere contenuta nell'art. 128 della
 Costituzione,   e'   riconducibile   all'esercizio  della  sovranita'
 popolare, quale sua mediata manifestazione.  Quindi, detta  autonomia
 deve essere valutata in collegamento con l'art. 1 della Costituzione,
 che  come  e'  noto  recita: "La sovranita' appartiene al popolo, che
 l'esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione".
    Ne consegue  che,  nel  caso  frequente  di  invadenza  con  legge
 regionale o addirittura con legge statale degli ambiti riservati alla
 autonomia  statutaria,  occorre che gli enti locali possano difendere
 la loro autonomia e possano difenderla nell'unico luogo deputato alla
 difesa delle proprie funzioni costituzionalmente garantite: la  Corte
 costituzionale.     Per  quanto  attiene  all'autonomia  finanziaria,
 profilo piu'  pertinente  al  caso  in  esame,  va  rilevato  che  la
 disposizione  dell'art. 2 della legge n. 142/1990 (ove si afferma che
 "i comuni e le province hanno autonomia finanziaria nell'ambito delle
 leggi e del coordinamento della  finanza  pubblica"  sviluppa  quanto
 previsto dall'art. 119 della Costituzione.
    La  norma  costituzionale,  infatti, stabilendo che le leggi della
 Repubblica coordinano l'autonomia finanziaria delle  regioni  con  la
 "finanza  dello  Stato,  delle  province  e  dei  comuni", presuppone
 l'esistenza in capo alla province e ai comuni di una finanza autonoma
 ed organica e presuppone  una  quasi  equiordinazione  fra  gli  enti
 dell'ordinamento:  Stato-persona,  regioni,  province e comuni.   Del
 resto  la  previsione   dell'autonomia   finanziaria   e'   requisito
 indispensabile per un'effettiva consistenza dell'autonomia.
    Questa,   infatti,   riconosciuta   dagli  artt.  5  e  128  della
 Costituzione  e  ribadita  dall'art.  2  della  legge  n.   142/1990,
 costituirebbe  un'affermazione priva di contenuto concreto se ad essa
 non si accompagnasse l'autosufficienza finanziaria e  soprattutto  la
 salvaguardia,  nel corso dell'esercizio, delle risorse individuate ed
 assegnate come risorse "trasferite" o "trasferende".  L'esistenza  di
 fondi  sufficienti  e' condizione indispensabile perche' gli enti non
 siano dipendenti dal potere centrale  e,  quindi,  possano  esprimere
 liberamente  il  loro  indirizzo politico-amministrativo.   Peraltro,
 l'art. 2 della legge n. 142/1990 in modo analogo  a  quanto  previsto
 dall'art.  118  della  Costituzione per la finanza regionale, dispone
 che l'autonomia finanziaria della provincia  si  esplica  nell'ambito
 delle leggi e del coordinamento della finanza pubblica.
    L'art.  54, primo comma, ribadisce che l'ordinamento della finanza
 locale e' riservato alla legge.
    Tuttavia i principi entro cui si dovra' muovere il legislatore nel
 dettare l'attesa  normativa  di  riorganizzazione  del  settore  sono
 contenuti nell'art. 54 della legge n. 142/1990.
    Tale norma dispone, fra l'altro piu' precisamente, che:
      1)  "ai  comuni ed alle province la legge riconosce, nell'ambito
 della finanza pubblica, autonomia finanziaria fondata su certezza  di
 risorse proprie e trasferite";
      2)  "la  legge  assicura,  altresi',  agli  enti locali potesta'
 impositiva autonoma nel campo delle  imposte,  delle  tasse  e  delle
 tariffe,  con  conseguente  adeguamento della legislazione tributaria
 vigente";
      3) "i trasferimenti erariali devono garantire i  servizi  locali
 indispensabili  e  sono  ripartiti  in  base  a criteri obiettivi che
 tengano conto della popolazione, del territorio  e  delle  condizioni
 socio-economiche,  nonche'  in  base  ad  una perequata distribuzione
 delle risorse che tenga conto degli squilibri di fiscalita' locale";
      4) "l'ammontare complessivo dei trasferimenti  e  dei  fondi  e'
 determinato  in  base  a  parametri  fissati dalla legge per ciascuno
 degli anni previsti dal bilancio pluriennali dello  Stato  e  non  e'
 riducibile nel triennio".
    Quindi  i  capisaldi dell'ordinamento della finanza locale sono di
 grandissima portata, infatti:
       a)  l'ordinamento  della   finanza   locale   e   l'ordinamento
 finanziario  sono  riservati alla legge dello Stato (artt. 2, 54 e 55
 della legge n. 142/1990);
       b) e' prevista per i comuni  e  le  province,  la  certezza  di
 risorse proprie e trasferite (art. 54);
       c)  la  garanzia  della  copertura  finanziaria  statale  per i
 servizi locali indispensabili.
    Per  quanto  attiene  al  punto  a),  come  si  e'  osservato   in
 precedenza,  l'assenza  di una legge di riforma della finanza locale,
 non comporta l'assemza di  principi  in  questa  materia,  posto  che
 questi sono fissati in parte dalla legge n. 142/1990 ed in parte sono
 desumibili  dall'ordinamento ed anche dalla programmazione nazionale,
 dalla legge del  bilancio  nazionale  e  dalle  leggi  sulla  finanza
 pubblica in generale e sulla finanza locale (in particolare il d.lgs.
 30  dicembre  1992,  n. 504).   Di tal guisa, tenendo presente che la
 legge n.  142/1990  si  caratterizza  per  la  sua  natura  di  legge
 rinforzata  (cfr.  art.  1),  e'  evidente  che  ogni  intervento del
 legislatore statale deve avvenire nell'ambito dei principi fissati da
 tale legge, a meno che non li modifichi espressamente con  una  norma
 ad  hoc, sempre, pero', nel rispetto dei principi di autonomia locale
 sanciti  dalla  Costituzione.    Per  quanto  attiene  al  punto  b),
 l'autonomia  finanziaria  dei  comuni  e  delle  province e' fondata,
 almeno cosi' enuncia il secondo comma dell'art. 54,  su  certezza  di
 risorse  proprie  e trasferite.   L'attuazione dei disposti statutari
 dell'ente   provincia   di   Torino   concernenti   l'organizzazione,
 l'erogazione   e   la  programmazione  dei  servizi  necessita  della
 conoscenza anticipata delle disponibilita' finanziarie su cui possono
 fare affidamento gli amministratori locali nell'esercizio finanziario
 corrente e negli esercizi successivi.   Solo  in  tal  caso  si  puo'
 sapere  quali  servizi  verranno coperti dai trasferimenti erariali e
 regionali, quali servizi necessari potranno essere erogati  a  carico
 delle  finanze  locali,  quali investimenti potranno essere decisi ed
 effettuati.  La certezza deve risultare garantita nel corso di  tutto
 il periodo finanziario di riferimento.  La mancanza di certezza delle
 risorse  puo'  portare  a  disavanzi  in  espansione; a situazioni di
 partite e di debiti fuori bilancio;  con  conseguenze  disastrose  ed
 anche  dichiarazioni  di  dissesto  finanziario  incontrollabili e di
 responsabilita' per amministratori e funzionari.  Pertanto il Governo
 non puo' intervenire, con un decreto-legge, prevedendo una  riduzione
 delle  entrate  quando  l'esercizio  finanziario  e'  gia' largamente
 inoltrato; quando i bilanci sono stati approvati ed assestati; quando
 le destinazioni di spesa e la ripartizione delle risorse  disponibili
 sono gia' state stabilite.
    In  riferimento  al punto c), l'art. 54, secondo comma, stabilisce
 non solo che i trasferimenti  erariali  devono  garantire  i  servizi
 locali  indispensabili,  ma  anche che questi devono essere ripartiti
 secondo precisi criteri che  tengano  conto  della  popolazione,  del
 territorio  e  delle  condizioni socio-economiche, nonche' in base ad
 una perequata distribuzione  delle  risorse  che  tenga  conto  degli
 squilibri  di  fiscalita'  locale.    Questa  operazione, sia pure di
 massima e secondo criteri accentratori, e' stata compiuta in sede  di
 approvazione  del  bilancio  dello  Stato,  della  legge  finanziaria
 statale e della legge sulla finanza  locale  ed  in  particolare  col
 d.lgs.   30 dicembre 1992, n. 504.  Quanto descritto rende chiaro che
 il legislatore nel disciplinare i trasferimenti erariali,  anche  nel
 caso  intervenga con provvedimenti provvisori e contingenti, non puo'
 prescindere  dai  parametri  fissati  al  riguardo  dalla  legge   di
 principi.      Quanto  delineato,  quindi,  individua  i  limiti  che
 l'attivita' governativa deve rispettare anche sotto  il  profilo  dei
 rapporti Governo-Parlamento.  In caso d'inosservanza di questi limiti
 e principi, siano chiaramente in presenza di un uso illegittimo della
 facolta'  governativa  di  regolamentazione  della  finanza locale ed
 anche  di  proposta  al  Parlamento.      Muovendosi   in   direzione
 completamente  opposta  a quella indicata dalla legge sulle autonomie
 locali  n.  142/1990,  nonche'  della  legge delega n. 421/1992 e del
 relativo decreto legislativo di attuazione n.  504/1992,  il  Governo
 con  il  d.l.  n.  155  del  22 maggio 1993 opera una irrigionevole,
 immotivata ed illegittima  riduzione  dei  trasferimenti  previsti  a
 favore  degli  enti locali e quindi della provincia.  In particolare,
 l'art. 3 dispone, al primo comma, la riduzione del 5% dei  contributi
 ordinari,  mentre  al secondo comma la riduzione del 7% del complesso
 delle dotazioni ordinarie riconosciute agli enti  locali  per  l'anno
 1993;  l'art.  8, sempre per l'anno 1993, riduce drasticamente del 50
 per cento l'ammontare dei mutui che  possono  essere  concessi  dalla
 cassa  depositi  e  prestiti  per il finanziamento degli investimenti
 degli enti locali compresi i mutui destinati ai settori dell'edilizia
 scolastica e dell'edilizia giudiziaria.  Le conseguenze  sui  bilanci
 degli  enti locali di quanto disposto dal Governo appaiono gravi.  In
 particolare il bilancio preventivo della provincia di Torino presenta
 un elevato grado di rigidita' in  relazione  alla  distribuzione  fra
 spese  fisse  e  spese  variabili.   Infatti, sul volume totale delle
 risorse correnti ammontanti a L.   304.769 miliardi, le  spese  fisse
 incidono  per  una somma di L. 294.306 miliardi pari, quindi, al 96%.
 Pertanto il margine di manovra delle risorse correnti e da  destinare
 per  lo  piu'  ai  fondi  di  riserva  ed  alle  spese  che  non sono
 propriamente  istituzionali,   ma   tuttavia   connesse   a   compiti
 consolidati  negli  anni  (assistenza,  cultura, ecc ..) si riduce in
 modo notevolissimo sino a L. 10.463 miliardi pari al  4%  dell'intero
 ammontare e pertanto tende a zero.
    Con  l'art.  3  del citato d.l. si va ad incidere indistintamente
 sulle spese correnti, comprimendo inevitabilmente  le  spese  sia  le
 spese  fisse  sia  quelle  variabili  gia'  di per se' insufficienti.
 Inoltre il d.l. n. 155 del 22 maggio 1993, intervenendo ad esercizio
 finanziario inoltrato, quando la maggior parte delle spese  e'  stata
 impegnata  e  quando  altri  impegni incombono sull'ente in virtu' di
 numerosi obblighi posti continuamente a carico degli enti  locali  da
 parte di leggi statali e regionali, crea la premessa per una chiusura
 in  disavanzo  dell'esercizio.    Anche  sotto questo punto di vista,
 pertanto, risulta essere gravemente violata  non  soltanto  l'automia
 finanziaria  locale,  ma  anche quella politica amministrativa.   Non
 vale certamente a giustificare tale intervento del governo l'esigenza
 per lo Stato di contenere il deficit pubblico.  Gli enti locali  sono
 consapevoli  dell'estrema  importanza  dell'obiettivo,  ma questo non
 puo'  essere  perseguito  alterando   gli   equilibri   istituzionali
 delineati  dalla Costituzione.   In particolare, gli enti locali sono
 istituzioni di autonomia chiamate  ad  adempiere  alle  piu'  diverse
 funzioni  ed  ad assicurare alla cittadinanza i piu' diversi servizi.
 Il Governo, operando dei tagli alla spesa  degli  enti  locali  senza
 dire  dove ed in che modo si ritiene di poter risparmiare nelle spese
 per prestazioni a cittadini o per servizi,  persegue  in  realta'  un
 intento di contenimento della spesa assolutamente astratto e privo di
 un    concreto    riferimento    alla    strumentazione    necessaria
 all'individuazione delle entrate sostitutive.   E' pertanto  evidente
 che  la  riduzione dei contributi ordinari non costituisce una misura
 di effettivo contenimento del deficit del  bilancio  statale,  ma  un
 semplice  palliativo  con  il  quale si finisce con l'addossare sugli
 enti locali squilibri finanziari che prima o poi dovranno emergere ed
 essere finanziati. E cio' con una ancor  piu'  evidente  lesione  del
 principio  di  autonomia  finanziaria ed una compressione del sistema
 della finanza locale delineato dalla legge n. 142/1990.
    E,  d'altro  canto,  la  riduzione  del   finanziamento   mediante
 trasferimenti  si traduce in un vero e proprio onere aggiuntivo per i
 bilanci  degli  enti  locali.    Dovrebbe,  dunque,   trovare   piena
 applicazione  il  pricipio  costituzionale secondo cui ogni legge, la
 quale importi nuove e maggiori spese  per  i  bilanci  pubblici  deve
 indicare  i  mezzi  per  farvi  fronte  (art. 81, quarto comma, della
 Costituzione): e' infatti pacifico che tale principio valga anche nei
 confronti delle leggi che comportano, anziche' un aumento  di  spesa,
 una diminuzione di entrate.  La disposizione dell'art. 3 del d.l. n.
 155/1993,  nel  limitare  radicalmente  il  contributo  dello  Stato,
 determina una riduzione di entrate per gli enti locali senza indicare
 la copertura finanziaria prevista dall'art. 81, quarto  comma,  della
 Costituzione.  La disposizione censurata avrebbe potuto - in astratto
 -   assumere  un  significato  ove,  ad  esempio,  a  fronte  di  una
 diminuzione dei trasferimenti alle province,  il  legislatore  avesse
 altresi'   disposto   una   diminuzione   dei  servizi  dalla  stessa
 tradizionalmente erogati e finanziati con la spesa corrente.   Ma,  a
 parte  il rilievo che cio' non avrebbe potuto essere fatto perche' in
 netto contrasto col  principio  costituzionale  di  riconoscimento  e
 promozione  delle  autonomie  locali,  al contrario, con l'art. 2 del
 recentissimo decreto interministeriale 28  maggio  1993,  emanato  in
 attuazione  dell'art.  11 della legge n. 8/1993 e dell'art.  37 della
 legge n.  540/1992  il  Governo,  a  fronte  della  predetta  manovra
 finanziaria,  nel  definire  i  servizi  indispensabili di competenza
 delle  province,  non  opera  alcun  logico  ridimensionamento  degli
 stessi.  E' stata quindi introdotta anche nell'ordinamento degli enti
 locali la categoria dei "servizi indispensabili", servizi per i quali
 non  esiste la libera scelta degli amministratori, dovendo gli stessi
 essere in ogni caso garantiti ed assicurati ai  cittadini.    Da  una
 parte,  quindi,  una  disposizione che limita pesantemente le risorse
 finanziarie, dall'altra, una  disposizione  in  astratto  ed  in  se'
 certamente  condivisibile,  che vieta in modo assoluto di sospendere,
 limitare o sopprimere servizi qualificati come indispensabili.
    Le argomentazioni svolte in riferimento alla norma dell'art. 3 del
 d.l.  n.  155/1993  possono  estendersi  alla  seconda  disposizione
 impugnata  -  quella  dell'art. 8 - con una ulteriore considerazione.
 La legge n.  142/1990,  per  supplire  ad  una  generale  carenza  di
 programmazione  pubblica,  ha  introdotto  in  numerose  disposizioni
 l'obbligo per le stesse di agire mediante piani e  programmi  per  il
 raggiungimento  degli  obiettivi  prefissati:  cosi' l'art. 3, quinto
 comma, prevede il concorso di comuni e province "nella determinazione
 degli obiettivi contenuti nei piani e nei  programmi  dello  Stato  e
 delle  regioni"  provvedendo  "per quanto di propria competenza, alla
 loro specificazione ed attuazione", l'art. 1 assegna  alla  provincia
 compiti  di  programmazione  di  notevole  portata; ancora l'art. 32,
 secondo  comma,  lett.  b)  elenca  una  serie  di  atti  di   natura
 programmatoria  che  l'organo  consiliare  ha  il compito di adottare
 nell'esercizio  della  propria  funzione  di  indirizzo  e  controllo
 politico-amministrativo;  l'art. 51, primo comma, infine, attribuisce
 ai  dirigenti  "responsabilita'  gestionali  per  l'attuazione  degli
 obiettivi fissati dagli orgnai dell'ente".
    Tali  disposizioni  costituiscono  ancora  una  volta la piu' alta
 espressione del principio autonomistico  cui  e'  ispirata  la  Carta
 costituzionale (artt. 5 e 128 della Costituzione); non esiste infatti
 piu'  ampia  autonomia di quella rappresentata dalla possibilita' per
 un soggetto di proiettare la propria azione nel futuro,  tentando  di
 prevederne  i  risultati e, sulla base di tale previsione, adeguare i
 propri comportamenti al fine  di  conseguire  gli  obiettivi  secondo
 criteri  di  economicita', funzionalita' ed efficacia. Non e' chi non
 veda,  d'altronde,  nel  modello  della  programmazione  un   diretta
 attuazione   del   principio   del   "buon   andamento"   dell'azione
 amministrativa contenuto nell'art. 97 della Costituzione.  Ebbene, la
 funzione di "programmazione"  vista  come  concretizzazione  sia  del
 principio  autonomistico,  sia  del  principio  efficentistico di cui
 all'art. 97 della Costituzione, nella sua stretta  corrrelazione  con
 il   canone   della   ragionevolezza  desumibile  dell'art.  3  della
 Costituzione, viene pesantemente modificata dal censurato  intervento
 del  Governo.    E'  logico, infatti, che privando gli enti locali e,
 nella fattispecie, le province  dei  mezzi  finanziari  necessari  al
 perseguimento  degli  obiettivi  individuati  dagli organi di governo
 dell'ente, per un  verso,  risultano  gravemente  essere  compromesse
 l'autonomia  e  le  funzioni  della provincia quale "ente intermedio"
 competente  alla  cura  degli  interessi  ed  alla  promozione  dello
 sviluppo  della  comunita'  provinciale  (art.  2, terzo comma, della
 legge  n.  142/1990);  mentre,  per  altro  verso,  e'  precluso   il
 raggiungimento    degli    obiettivi   prefissati   negli   atti   di
 programmazione degli organi collegiali, con un sensibile abbassamento
 del livello di efficienza dell'azione amministrativa interessante  le
 aree intercomunali.
    Con   questa   iniziativa   il   Governo  contraddice  i  principi
 costituzionali di buona amministrazione contenuti nell'art. 97  della
 Costituzione  e quindi costringe gli enti locali ad operare contro la
 conclamata esigenza di efficacia, efficenza e correttezza dell'azione
 amministrativa.     E'  opportuno,   infine,   ricordare   che   tale
 ricostruzione   trova  autorevole  conferma  in  alcune  recentissime
 decisioni  della  Corte  costituzionale,   la   quale,   sebbene   in
 riferimento  all'autonomia finanziaria regionale (sentenze n. 98 e n.
 116 del 1991; sentenze nn.  283/1991 e 356/1992); ha  avuto  modo  di
 affermare  che  "una  riduzione di risorse disposta nel modo indicato
 non  puo'   determinare   squilibrio   nella   sfera   di   autonomia
 costituzionalmente  assicurata  alle regioni e, quindi, nei confronti
 di una  corretta  attivita'  di  bilancio  o  dovuto  alla  possibile
 interferenza  di  quegli  interventi  sui  programmi  di  spesa  gia'
 adottati ed in corso di svolgimento".
    Tale affermazione di principio non puo' non ritenersi  estensibile
 a  fortiori  agli enti locali, trattandosi di soggetti dotati di pari
 autonomia e dignita' costituzionale.  Peraltro, il  supremo  Collegio
 con  successiva  decisione  -  la  n.    128/1993 - che pure potrebbe
 suscitare alcune perplessita', ha ritenuto che  non  vi  puo'  essere
 violazione  del  principio  sopra  enunciato  in  presenza  delle due
 seguenti condizioni: una manovra finanziaria di  carattere  generale,
 diretta  a  far fronte ad una situazione di emergenza e disavanzo nel
 settore pubblico allargato, che richiede un impegno solidale di tutti
 gli enti territoriali erogatori  di  spesa  di  fronte  al  quale  la
 garanzia  costituzionale  dell'autonomia finanziaria non puo' fungere
 da impropria giustificazione per una singolare esenzione; una manovra
 finanziaria che operi esclusivamente sulle spese correnti e non anche
 sulle  spese destinate allo sviluppo.  In riferimento al primo punto,
 non vi e' dubbio che la manovra operata dal Governo con il  d.l.  n.
 155/1993  sia  priva  del carattere della generalita', incidendo piu'
 pesantemente sui bilanci degli enti  locali,  caratterizzati  da  una
 capacita'  finanziaria di gran lunga inferiore a quella dello Stato e
 della regione. E soprattutto dalla "rigidezza"  della  loro  finanza.
 Pertanto,  solo apparente risulta essere il coinvolgimento di tutti i
 soggetti  istituzionali  erogatori  di  spesa  nella  riduzione   del
 disavanzo  pubblico.    Evidente,  inoltre,  appare la violazione del
 secondo principio da parte dell'art. 8 del d.l. n. 155/1993  che  si
 occupa  delle  spese  destinate  agli investimenti dei locali.  Dalle
 considerazioni che precedono emerge con  chiarezza  come  il  Governo
 abbia  illegittimamente  menomato  le attribuzioni costituzionalmente
 riservate alla provincia.
                         OGGETTO DEL CONFLITTO
    Le  osservazioni  sin  qui  svolte  consentono  di   puntualizzare
 l'oggetto  del  conflitto che con il presente atto si solleva dinanzi
 alla Corte costituzionale, avverso il Governo nel suo complesso.   La
 ricorrente  lamenta  innanzitutto  che  sia  stata violata la propria
 sfera di attribuzioni costituzionali attraverso il d.l. n.  155  del
 22  maggio 1993.   Attraverso il richiamato decreto-legge si verifica
 un conflitto da interferenza che ha ad oggetto la delimitazione della
 sfera di competenza della provincia di Torino ad essa riservata dagli
 artt.  118 e 128 della Costituzione, oltre che della legge  8  giugno
 1990,  n.   142 e consistente nello stabilire se il d.l. citato leda
 le attribuzioni della provincia stessa.