IL TRIBUNALE
   Visti  i  ricorsi  ex  art.  324  del  c.p.p. avanzati dagli avv.ti
 Antonio Flamini ed Ivo Caraccioli, quali difensori  e  nell'interesse
 di  Cesari  Umberto,  Cesari  Luigi  e  Corbino  Marcella, avverso il
 decreto di sequestro preventivo emesso dal g.i.p. presso il tribunale
 di Camerino in data  26  agosto  1993  avente  ad  oggetto  tutte  le
 disponibilita' patrimoniali dei ricorrenti;
    Rilevato  che, nel corso dell'udienza camerale all'uopo fissata, i
 ricorsi sono stati riuniti;
    Udite le conclusioni dei difensori nel corso dell'udienza camerale
 del 30 agosto 1993, formultate in assenza dei ricorrenti e  del  p.m.
 non intervenuti all'udienza;
    Sciogliendo la riserva all'udienza camerale odierna;
                             O S S E R V A
    Le   questioni   sottoposte   dai  ricorrenti  all'attenzione  del
 tribunale risultano particolarmente complesse e sollecitano un  esame
 analitico  con riguardo a ciascuna delle fattispecie di reato poste a
 fondamento del provvedimento cautelare.
     A) Usura - Gli atti di indagine compiuti  dal  p.m.  evocano  con
 sufficiente chiarezza il fumus commissi delicti.
    Il  c.t.  nominato  dal p.m. ha posto in evidenza la ricorrenza di
 numerose operazioni di finanziamento, riconducibili agli imputati, in
 cui sono state praticati interessi usurai (v. pag. 47 ss. rel. c.t.).
    La rilevazione  dei  tassi  di  interesse  applicati  nelle  varie
 operazioni  e' stata condotta con procedimento di determinazione che,
 allo stato, non denota vizi logici o manifesta inattendibilita'.
    La  "verosimiglianza"  della  ipotesi  di  reato  non   legittima,
 tuttavia,  a  parere  di  questo  tribunale, l'adozione del sequestro
 preventivo di tutte le disponibilita' patrimoniali degli imputati.
    "L'esigenza cautelare d'interrompere eventuali rapporti usurai  in
 corso"  -  indicata  dal  g.i.p.  a  sostegno  del decreto - non puo'
 estendere  i  suoi  effetti  sopra  tutti  i  beni  patrimoniali  dei
 ricorrenti.   Non   vi   e'   infatti   alcun   collegamento  tra  la
 disponibilita' di detti  beni  e  la  protrazione  (eventuale)  della
 attivita' criminosa.
    La  disponibilita'  dei  beni  in  sequestro e' stata acquisita, a
 vario titolo, dagli indagati in un arco di tempo che va dal  1950  al
 1962, e in prevalenza tra il 1960 ed il 1972.
    Le   operazioni  finanziarie  interessate  dalla  applicazione  di
 interessi usurai sono state condotte tra il 1989 ed il 1993.
    Non si comprende allora come un patrimonio  accumulato  in  quegli
 anni  (formato in prevalenza da immobili) possa direttamente favorire
 o agevolare la protrazione  di  condotte  usuraie.  In  proposito  va
 ricordato  che  l'attivita'  della Edilfin Finanziaria S.r.l. (di cui
 Cesari  Umberto  e'  amministratore  unico,  e  i  restanti  imputati
 amministratori  di  fatto),  -  gia'  Edil  Matelica S.r.l. - inizio'
 l'attivita'  finanziaria,  in  aggiunta  a  quella  immobiliare,  nel
 settembre 1980.
    L'inesistenza  di attuali esigenze cautelari con riguardo al reato
 di usura, determinerebbe, pertanto, la revoca dell'impugnato decreto.
     B) Possesso ingiustificato di valori (art. 12-quinquies,  secondo
 comma, della legge 7 agosto 1992, n. 356, come modif. dall'art. 1 del
 d.l. 17 settembre 1993, n. 369).
    In  via  preliminare in sede di conclusioni orali, i difensori dei
 ricorrenti hanno rappresentato l'impossibilita' di riferire il  reato
 in  esame  agli imputati, per sopravvenuta parziale abrogazione della
 fattispecie, in  seguito  alle  modifiche  recate  con  il  d.l.  n.
 369/1993.
    Argomentazione, questa, fondata sulla circostanza che i ricorrenti
 avrebbero  avuto, al momento dell'adozione del sequestro, la qualita'
 di soggetti sottoposti ad indagine per violazione dell'art.  644  del
 c.p.  -  concidere  con  la condizione soggettiva descritta nell'art.
 12-quinquies della legge n. 356/1992 - ma che il successivo d.l.  n.
 369/1993  avrebbe  abrogato,  attraverso  il  diverso  riferimento "a
 coloro  nei  cui  confronti  pende  il   procedimento   penale",   da
 interpretare,  secondo  i difensori, non gia' come soggetti indagati,
 bensi' come imputati in senso tecnico.
    Dovrebbe cosi' operare il meccanismo di cui all'art. 2  del  c.p.,
 che disciplina la successione di leggi nel tempo.
    L'assunto difensivo non merita accoglimento.
    Va  innanzi tutto rilevato che gia' in data 19 agosto 1993 il p.m.
 aveva formulato richiesta di rinvio  a  giudizio  nei  confronti  dei
 ricorrenti, esercitando cosi' l'azione penale.
    La  richiesta  di  rinvio  a giudizio e' "fatto costitutivo" della
 qualifica di imputato e segna il passaggio della fase  preprocessuale
 delle   indagini   preliminari   a   quella  processuale,  aperta  al
 contraddittorio dinanzi al giudice.
    Dagli atti depositati dal p.m. emerge che la richiesta di rinvio a
 giudizio e la fissazione  della  data  di  celebrazione  dell'udienza
 preliminare  non  erano  stati  notificati  agli  imputati  all'epoca
 dell'emissione  del  decreto  di  sequestro   preventivo,   ma   tale
 circostanza  non  incide  sull'assunzione della qualita' di imputato.
 Questa dipende esclusivamente da un atto  transitorio  del  p.m.  che
 tuttavia  non  implica  un  rapporto  tra l'attore e il destinatario:
 altro e'  imputare  un  fatto,  altro  e'  contestare  l'imputazione.
 L'esistenza  e  la  irretrattabilita' dell'imputazione discendono dal
 semplice atto di enunciazione del p.m.   Alla data  di  adozione  del
 sequestro  preventivo  i  ricorrenti erano da considerare a tutti gli
 effetti "imputati".
    Ma  anche  a  voler  prescindere  da  questi   decisivi   rilievi,
 l'interpretazione  della  norma  modificata offerta dai difensori non
 persuade.  Il  riferimento,  contenuto  nell'art.  1  del  d.l.   n.
 369/1993,  alla  "pendenza del procedimento" apporta un contributo di
 chiarificazione rispetto alla originaria previsione incriminatrice. A
 parere del tribunale, infatti, gia' il ricorso  all'argomentazione  a
 fortiori,   consentiva   di  ritenere  ricompresi  nella  fattispecie
 dell'art. 12-quinquies i soggetti-imputati.
    Tale conclusione non e' frutto di interpretazione  analogica,  non
 colma  cioe' una lacuna del legislatore: deriva invece da una lettura
 "ragionevole" della norma.
    Non avrebbe infatti alcun senso l'esclusione degli imputati  dalla
 operativita' della fattispecie: si tratta infatti di soggetti nei cui
 confronti  le  indagini  svolte  hanno  consentito  di  formulare una
 ipotesi accusatoria. Una situazione soggettiva, dunque, da verificare
 nel giudizio, ma meno malferma di quella  riconducibile  al  soggetto
 "semplicemente" indagato.
    Il   nuovo   dettato   normativo,   imperniato   sul  concetto  di
 "procedimento   pendente",   assume   una   valenza    essenzialmente
 interpretativa,  non gia' innovativa. Se il legislatore avesse voluto
 restringere   l'operativita'   della   norma   alla    sola    figura
 dell'imputato,  avrebbe  agevolmente  potuto evocare tale nozione nel
 tessuto normativo, ovvero menzionare la pendenza del "processo",  non
 gia' del "procedimento".
 Peraltro  il  ricorso  a  questa seconda tecnica di normazione poteva
 riprodurre tutte  le  aforie  che  hanno  contrassegnato  le  vicende
 teoriche   della   distinzione   fra   "procedimento"  e  "processo".
 Inequivoca sarebbe invece risultata la  menzione  della  qualita'  di
 imputato.
    La  ricostruzione  interpretativa  proposta  dal  tribunale  trova
 significativo riscontro proprio nel testo legislativo che  ha  recato
 la modifica in commento. L'art. 2, introducendo una "nuova ipotesi di
 possesso  ingiustificato di valore", indica quale soggetto attivo del
 reato "l'imputato".
    Una  simile,  chiarissima  scelta  e'  stata   invece   riprodotta
 nell'art.  1  ove,  come  si  e'  visto,  si  e' fatto riferimento ai
 soggetti contro i quali "pende procedimento penale".
    La  divergenza  nominalistica  e'  il  diapason che immediatamente
 segnala la diversita' di contenuti, si' che  alla  dizione  adoperata
 nell'art.  1 deve riconoscersi una sfera applicativa piu' ampia e non
 coincidente con la sola figura soggettiva dell'imputato.
    Quanto  al  fumus  l'ipotesi  delittuosa  in  esame  si  fonda  su
 meticolose  e approfondite indagini patrimoniali che hanno acclarato,
 con metodologia immune da vizi  evidenti,  l'esistenza,  in  capo  ai
 ricorrenti,  di  disponibilita'  "attuali" sproporzionate rispetto ai
 redditi  dichiarati  e  all'attivita'  economica  (v.  le  risultanze
 dell'elaborato  formato  dal  c.t.  del p.m.). Gli imputati non hanno
 allo stato fornito giustificazione della legittima provenienza  delle
 loro disponibilita'.
   Fatta  eccezione per un bene immobile pervenuto in via ereditaria a
 Corbino Marcella, pro-quota nella misura del 22,22%, in seguito  alla
 morte  del padre (estraneo al procedimento) avvenuta nel 1979. In tal
 caso la legittima provenienza del bene e' in re  ipsa,  derivando  la
 disponibilita'  da  successione  ereditaria. Il bene, meglio indicato
 dal c.t. nella tab. 7, punto 7, della relazione, deve pertanto essere
 restituito all'avente diritto, con revoca del sequestro in parte qua.
    Circa le restanti  disponibilita',  il  decreto  di  sequestro  ne
 evidenzia   correttamente   la  confiscabilita'  ai  sensi  dell'art.
 12-quinquies, secondo comma. E' tuttavia opinione di questo tribunale
 che la norma citata non si sottragga a riserva sotto il profilo della
 sua  compatibilita'  con  il  dettato  costituzionale.  Di   qui   il
 convincimento di sottoporre la fattispecie incriminatrice al giudizio
 della  Consulta,  sulla  scorta  delle  considerazioni qui di seguito
 esposte.
     C)   Questione   di   legittimita'    costituzionale    dell'art.
 12-quinquies,  secondo  comma,  della legge n. 356/1992, e successive
 modificazioni.
    La fattispecie di reato in discorso prevede la reclusione da due a
 quattro anni nei confronti  di  soggetti  sottoposti  a  procedimento
 penale  in  relazione  a determinati nomina juris, ovvero a misura di
 prevenzione personale e, comunque, a procedimento per  l'applicazione
 della  citata  misura,  che  risultino  titolari,  direttamente o per
 interposta persona, di disponibilita' (beni, denaro etc.)  di  valore
 sproporzionato  al  proprio  reddito  oppure  alla  propria attivita'
 economica, senza essere  in  grado  di  giustificarne  la  leggittima
 provenienza.
    L'obiettivo  perseguito  dal  legislatore  e'  quello  di  colpire
 patrimoni  o  attivita'  ritenute  illecite  nella   loro   oggettiva
 attualita'.  La formulazione della fattispecie e' inoltre tale da non
 consentire l'individuazione di un collegamento  tra  un  derterminato
 tipo  di  reato  e  l'acquisizione  di  beni.  Non  v'e'  un "vincolo
 pertinenziale" tra le possidenze e i reati per i  quali  il  soggetto
 subisce  il  procedimento  penale. "Il legislatore, infatti, e' mosso
 dalla considerazione che molti di  coloro  i  quali  sono  ricompresi
 nelle   categorie  soggettive  di  cui  al  secondo  comma  dell'art.
 12-quinquies, hanno in parte terminato il processo di  'accumulazione
 selvaggia del capitale' fondato sul ricorso ed attivita' criminali ed
 hanno riciclato parte dei proventi in attivita' lecite di modo che un
 sequestro  e  la  successiva  confisca  che colpissero esclusivamente
 quella parte  di  patrimonio  ancora  direttamente  legato  al  ciclo
 criminale,  non  coglierebbero  la  vicenda nella sua interezza e non
 consentirebbero  di  incidere  in  radice  sull'innesto dell'economia
 criminale nell'economia legale" (cosi' trib. Bari,  ord.  19  ottobre
 1992).    La  norma,  dunque,  si  inserisce,  con  altre  di recente
 produzione, nel  piu'  generale  contesto  degli  strumenti  volti  a
 fronteggiare  la  criminalita'  organizzata e ad aggredire i proventi
 delle organizzazioni criminali. Non competono, ovviamente, in  questa
 sede, valutazioni sull'efficacia di questi strumenti legislativi. Va'
 pero'  rilevato che la norma di cui si sospetta l'incostituzionalita'
 non appare necessariamente  collegabile  all'area  di  incriminazione
 tipica,  della  criminalita' organizzata. Il caso sottoposto a questo
 tribunale costituisce, in  tal  senso,  una  significativa  conferma.
 Sotto il profilo classificatorio, la norma rientra nella categoria di
 "reati  di  sospetto",  o comunque dei delits obstacle. A prima vista
 parrebbe accostabile alla previsione di cui all'art.  703  del  c.p.,
 che  si  connota per una funzione prevalentemente repressiva: dato il
 possesso  di  cose  non  confacenti  allo  stato  del  soggetto,   la
 pericolosita' di questo dovrebbe concretizzare il sospetto che quelle
 cose  provengano  da  delitti contro il patrimonio o rappresentino il
 pretium sceleris di delitti  da  commettere.    La  notorieta'  degli
 argomenti, con i quali la Corte costituzionale - anche di recente (v.
 decisione  n.  464/92)  -  ha  negato l'esistenza di contrasto tra la
 norma del codice  penale  e  la  Carta  fondamentale,  ci  esime  dal
 riepilogarli.  Purtuttavia un attento esame dimostra come l'affinita'
 tra la disposizione dell'art. 12-quinquies, secondo comma, e la norma
 codicistica risulta sotanto apparente.
    La norma dell'art. 12-quinquies  e'  collegata  ad  una  qualifica
 soggettiva  "provvisoria",  relativa alla "pendenza" del procedimento
 penale, non cristallizzata da un giudicato  di  condanna.  Uno  stato
 soggettivo  provvisorio, pertanto, suscettibile di "trasfigurazione",
 il cui esito finale (la sentenza passata in  giudicato)  e'  estraneo
 alla figura di reato in esame.
    Quanto  al  restante contenuto della previsione incriminatrice, e'
 piuttosto agevole rilevare che non descrive "una specifica  forma  di
 offesa  al  bene  giuridico":  non  predica,  cioe',  un "fatto", una
 "azione" o una "omissione" ma,  enuncia  soltanto  una  "situazione".
 Estremamente   evocativo,   in   proposito,  il  termine  "risultano"
 utilizzato per collegare all'attore  la  disponibilita'  di  beni  in
 misura  sproporzionata.  E' l'intera trama delle attivita' economiche
 e professionali del soggetto a costituire il  presupposto  del  fatto
 reato.  Di qui il sospetto di incostituzionalita' nei confronti della
 norma dell'art.  25, secondo comma, della Costituzione  che  pone  il
 divieto  di pene non collegate ad "un fatto commesso".  In un diritto
 penale volto alla tutela di  beni  giuridici,  il  "fatto"  individua
 specifiche  forme  di  aggressione  e di offesa ai beni giuridici. La
 citata disposizione costituzionale riconosce siffatta funzione  e  la
 impone  al  legislatore.  Di qui l'inammissibilita' di incriminazione
 che sanzionassero esclusivamente un modo di  essere  dell'attore,  la
 mera pericolosita' soggettiva, i suoi atteggiamenti interiori.
    Non   appare   allora   manifestamente  infondato  dubitare  della
 legittimita' costituzionale della fatispecie dell'art.  12-quinquies,
 secondo  comma.  E'  difficile  -  come  si  e'  detto - scorgervi un
 "agire": non guarda infatti all'uomo "agente", ma all'uomo "ente". La
 pendenza del procedimento penale per usura  (come  nel  nostro  caso)
 costituisce   l'occasione   per   rivisitare   il  lato  patrimoniale
 dell'esistenza  dell'attore,  al  fine di saggiare la congruita' o la
 sperequazione delle sue attuali disponibilita'.
    Il fulcro del "tipo" gravita non gia' sull'oggettiva pericolosita'
 di un fatto, ma sulla mera pericolosita' dell'attore.
    Si  punisce,  in  definitiva,  la  pericolosita'   del   soggetto,
 attraverso  una  fattispecie coniata con lo stampo del diritto penale
 sintomatico e preventivo. Questo stato soggettivo non trova  peraltro
 obiettiva  consacrazione  in  precedenti  penali  cristallizzati  nel
 giudicato. Viene invece "anticipato" e "individuato"  all'interno  di
 una situazione processuale ancora 'in movimento' che potrebbe persino
 smentire,  nel  procedimento  che  la  riguarda, la prognosi negativa
 evocata nella norma dell'art. 12-quinquies, secondo comma.
    Gravi le ripercussioni sulla concreta esercitabilita' del  diritto
 di  difesa  (art. 24 della Costituzione). L'ampiezza della previsione
 incriminatrice  rischia   di   compromettere   la   possibilita'   di
 giustificare  la sperecuazione tra i beni a disposizione e il reddito
 dichiarato. Non risulta, infatti,  agevole  fornire  una  attendibile
 asserzione  di  legittima  provenienza  di beni acquisiti, ad es., in
 epoca remota, specie se i relativi atti giuridici non prevedevano  il
 compimento di particolari forme di documentazione.
    Ne'  l'autore  poteva  orientare il suo comportamento alla stregua
 della odierna norma sanzionatoria. Questa, fondamentalmente, colpisce
 oggi  pregresse  condotte  di   vita,   rivelanti   sotto   l'aspetto
 patrimoniale,   all'epoca   "svincolate"  da  qualsiasi  disposizione
 orientata a "motivare" il singolo verso un determinato comportamento.
    Appare cosi' non manifestamente infondato evocare un contrasto fra
 la fattispecie  incriminatrice  dell'articolo  12-quinquies,  secondo
 comma, e l'art. 24, secondo comma, della Costituzione.
    La  rilevanza delle questioni di legittimita' sin qui descritte e'
 di  intuitiva   evidenza:   l'eventuale   caducazione   della   norma
 determinerebbe  il  venir  meno  del  sequestro  per  inesistenza del
 presupposto normativo sostanziale.