ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 16 della legge 23 aprile 1981, n. 155 (Adeguamento delle strutture e delle procedure per la liquidazione urgente delle pensioni e per i trattamenti di disoccupazione, e misure urgenti in materia previdenziale e pensionistica), promosso con ordinanza emessa il 18 febbraio 1993 dal Pretore di Genova nei procedimenti civili riuniti vertenti tra Miniati Marisa ed altre e l'I.N.P.S., iscritta al n. 171 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell'anno 1993; Visto l'atto di costituzione dell'I.N.P.S.; Udito nell'udienza pubblica del 19 ottobre 1993 il Giudice relatore Luigi Mengoni; Ritenuto in fatto 1. - Nel corso dei procedimenti civili riuniti promossi nei confronti dell'INPS da Marisa Miniati ed altre, per ottenere, in connessione alla domanda di pensionamento anticipato, il riconoscimento del diritto a un accredito contributivo di cinque anni, il Pretore di Genova, con ordinanza del 18 febbraio 1993 ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 37 della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 16 della legge 23 aprile 1981, n. 155, "nella parte in cui non consente alle lavoratrici di eta' superiore ai cinquant'anni di fruire di un'accredito contributivo di cinque anni". Premesso che il diritto al pensionamento anticipato spetta agli operai e agli impiegati che abbiano compiuto cinquantacinque anni, se uomini, e cinquanta, se donne, la norma impugnata commisura il detto accredito al periodo compreso tra la data di risoluzione del rapporto di lavoro e il compimento rispettivamente del sessantesimo o del cinquantacinquesimo anno di eta'. Siffatta disciplina, ad avviso del giudice remittente, costringe la lavoratrice, se non vuole perdere il beneficio, ad abbandonare il lavoro prima dei 55 anni, mentre per l'uomo vale il limite dei 60 anni. In tal modo la norma ripropone, sia pure indirettamente, una disparita' di trattamento in ragione della diversita' di sesso incidente sull'eta' lavorativa, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, e' identica sia per l'uomo che per la donna, potendo entrambi lavorare sino a 60 anni (sentenze nn. 137 del 1986, 498 del 1988 e 503 del 1991). In contrasto con una sentenza del Tribunale di Genova che ha respinto un'analoga richiesta di altra lavoratrice, il Pretore ritiene di poter trarre argomento a sostegno della sua tesi dalla sent. n. 503 del 1991, relativa all'art. 2, secondo comma, del d.-l. 1 aprile 1989, n. 120, convertito in legge 15 maggio 1989, n. 181. 2. - Nel giudizio davanti alla Corte si e' costituito l'INPS chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. L'Istituto nega che nei meccanismi previsti dalla norma impugnata "si annidi, staticamente o dinamicamente, alcuna causa e nemmeno alcuna occasio legis di deteriore trattamento della donna lavoratrice rispetto all'uomo lavoratore. Entrambi infatti, a partire da diverse eta' hanno diritto alla stessa maggiorazione dell'anzianita' contributiva, e cioe' fino a cinque anni ed in misura proporzionalmente variabile a seconda della data di risoluzione del rapporto". L'attribuzione di un aumento fisso di cinque anni di contribuzione figurativa alle sole donne, lasciando inalterata la disciplina attuale per i lavoratori di sesso maschile, determinerebbe una violazione del principio di eguaglianza a danno di questi ultimi. Considerato in diritto 1. - Il Pretore di Genova ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 37 della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 16 della legge 23 aprile 1981, n. 155, "nella parte in cui non consente alle lavoratrici di eta' superiore ai cinquant'anni di fruire di un'accredito contributivo di cinque anni". 2. - La questione non e' fondata. Per comprendere il significato della disposizione denunciata occorre premettere che, dopo la sentenza di questa Corte n. 498 del 1988, per le donne lavoratrici l'eta' lavorativa non e' piu' coincidente con l'eta' pensionabile (intesa nel senso di eta' alla quale, concorrendo il requisito dell'anzianita' contributiva, si acquista il diritto alla pensione di vecchiaia), la prima essendo stata elevata alla medesima soglia prevista per gli uomini (60 anni), mentre la seconda e' rimasta ferma a 55 anni. Per favorire l'esodo volontario dei dipendenti anziani delle imprese industriali dichiarate in crisi, l'art. 16 della legge n. 155 del 1981 abbassa di cinque anni l'eta' pensionabile, portandola a 55 anni per gli uomini e a 50 anni per le donne, e prevede un incentivo alla domanda di pensionamento anticipato nella forma di una maggiorazione dell'anzianita' contributiva pari al periodo compreso tra la data di risoluzione (per dimissioni) del rapporto di lavoro e quella di compimento rispettivamente di 60 o 55 anni. In questi termini la norma attua una perfetta parita' di trattamento tra uomini e donne, modulata sulla differenza dell'eta' pensionabile (nel senso sopra precisato) conservata dalla sentenza citata. La questione in esame prospetta (fuori da ogni logica) una sentenza additiva che determinerebbe una sperequazione a danno degli uomini, ai quali il beneficio dell'accredito contributivo rimarrebbe attribuito nella misura (variabile) prevista dalla legge, mentre le lavoratrici fruirebbero di un accredito fisso di cinque anni indipendentemente dalla data, compresa tra i 50 e i 55 anni di eta', di risoluzione del rapporto di lavoro in seguito alla domanda di prepensionamento. L'ordinanza obietta che "nel sistema delineato dall'art. 16 citato la lavoratrice si vede costretta, se non vuole perdere il beneficio, ad abbandonare il lavoro prima dei 55 anni, mentre per l'uomo vale il limite di 60 anni". Il rilievo, da un lato, non e' congruente col dispositivo, dove non si fa questione di allineamento dei limiti di eta' per il pensionamento anticipato, dall'altro e' in se' contraddittorio. Posto che "il prepensionamento e' caratterizzato dall'attribuzione al lavoratore della pensione prima del raggiungimento dell'eta' pensionabile, sulla base dell'aumento figurativo dell'anzianita' contributiva" (sent. n. 60 del 1991), la soglia di eta', oltre la quale non si potrebbe piu' parlare di pensionamento anticipato, non puo' essere per le lavoratrici se non il compimento del cinquantacinquesimo anno. 3. - La sentenza n. 503 del 1991 non puo' fornire un utile tertium comparationis. Il d.l. n. 120 del 1989, recante misure speciali per il risanamento del settore siderurgico, ammette al pensionamento anticipato (che in questo caso e' praticamente coatto) anche gli uomini che abbiano compiuto 50 anni di eta'; conseguentemente, poiche' per essi l'eta' pensionabile coincide con l'eta' lavorativa, il termine di riferimento per il calcolo dell'aumento figurativo dell'anzianita' contributiva e' la data di compimento del sessantesimo anno, il che comporta un massimo di accredito di dieci anni. Per le donne, invece, il riferimento all'eta' di conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia, cioe' 55 anni, determinava la riduzione dell'accredito massimo a cinque anni (elevabili fino a otto nel concorso dei requisiti previsti dall'art. 5, comma 5, del d.l. n. 536 del 1987), e dunque una disparita' di trattamento, ritenuta non giustificata dalla sentenza n. 503 del 1991. Un'analoga disparita' non sussiste nel caso in esame, onde il richiamo dell'ordinanza a questa sentenza si palesa inconferente.