IL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA
    Ha  emesso  la  seguente ordinanza n. 443/1993 nel procedimento di
 conversione della pena pecuniaria in liberta' controllata.
    A scioglimento della riserva espressa nell'udienza del  12  luglio
 1993;
    Rilevato  che  la  procura  generale  della Repubblica di Venezia,
 previo accertamento dell'impossibilita' di esazione, inviava, in data
 15 settembre 1992 nota n. 4/92 reg. mod. 36, gli atti  relativi  alla
 sentenza  12  dicembre  1988  della  Corte  di  appello di Venezia di
 condanna alla pena pecuniaria di L. 1.600.000.000 iscritto al C.P. n.
 32586/606 della Corte di appello di  Venezia  inflitta  a  Bertazzoli
 Marco  nato  il 12 agosto 1948 a Bologna e residente a Pontassieve in
 via Leonardo da Vinci, 6;
    Rilevato che il Bertazzoli Marco, regolarmente citato a  comparire
 avanti a questo magistrato di sorveglianza di Firenze e' comparso;
    Visti   gli   atti,  accertata  la  effettiva  insolvibilita'  del
 condannato, sentite le conclusioni del difensore il quale  ha  inteso
 eccepire  l'incostituzionalita'  delle  norme  applicabili al caso di
 specie, osserva quanto segue.
                         ESPOSIZIONE DEL FATTO
    Bertazzoli Marco venne condannato il 12 dicembre 1988 dalla  Corte
 di  appello  di  Venezia  per  i reati di cui agli artt. 292, 295 del
 d.P.R.    n.    43/1973    alla    pena    di    L.     1.600.000.000
 (unmiliardoseicentomilioni) di multa.
    La  cancelleria  del  giudice  dell'esecuzione  azionatasi  per il
 recupero constato' l'impossibilita' di  realizzare  con  l'esecuzione
 forzata  tale ingentissima somma (vedi p.v. di pignoramento negativo,
 certificato di insolvibilita' del sindaco del comune di Pontassieve e
 relazione della Guardia di finanza di Pontassieve che attestava  come
 il  Bertazzoli  non fosse proprietario di beni di sorta e vivesse con
 la famiglia in casa di affitto mantenendola con il proprio lavoro  di
 dipendente in una ditta di autotrasporti).
    Gli  atti  vennero  pertanto  trasmessi  a  questo  ufficio per la
 procedura  di  conversione  della  multa.  In  sede  di  udienza   il
 Bertazzoli  fece  presente  che  la  sospensione  della validita' del
 documento  valido  per  l'espatrio   avrebbe   per   lui   comportato
 irrimediabilmente la perdita del lavoro.
    In  merito  produceva  in seguito due dichiarazioni del presidente
 del consiglio di amministrazione della ditta Mutti che testimoniavano
 la sua attivita' di autotrasportatore  di  materiale  pericoloso  con
 destinazione  nord  Europa,  attivita'  iniziata  nel  luglio  1989 e
 ripresa, dopo una breve interruzione, nel giugno  del  1990.  Una  di
 queste   dichiarazioni   precisava   come   Bertazzoli,  dopo  alcune
 difficolta' iniziali,  avesse  dimostrato  particolare  capacita'  ed
 impegno  nell'espletamento  dei  propri compiti tanto da divenire uno
 degli autisti piu' apprezzati ed affidabili  al  servizio  di  quella
 societa'.
    Il  difensore,  insistendo  sulla  necessita'  di  non  imporre al
 Bertazzoli limiti  territoriali  e  soprattutto  limiti  all'espatrio
 durante   l'esecuzione   della   sanzione   sostitutiva,  manifestava
 l'intenzione di proporre questione di  costituzionalita'  che  veniva
 effettivamente  sollevata  all'udienza  odierna  con  le  motivazioni
 specificate nella memoria del 23 marzo 1993 in atti.
    I profili di incostituzionalita' in tale atto  indicati  attengono
 al  contrasto  degli artt. 133 e 133- bis del c.p. con l'art. 3 della
 Costituzione, per il  carattere  discriminatorio  del  sistema  delle
 sanzioni pecuniarie verso soggetti non abbienti, nonche' al contrasto
 degli  artt. 102 e 56 della legge n. 689/1981 relativi alla procedura
 di conversione della pena  pecuniaria  in  liberta'  controllata  per
 insolvibilita'  con  gli  artt.  3  e  4  della  Costituzione, per le
 violazioni  del  diritto  all'uguaglianza  e  al  lavoro   che   tale
 conversione comporterebbe.
                              IN DIRITTO
    I  -  Rilievo  di incostituzionalita' degli artt. 56, 62, 64, 102,
 103 e 107 della legge n. 689/1981 e  dell'art.  660  del  c.p.p.  per
 contrasto  con  gli artt. 3 primo e secondo comma, 4 primo comma e 27
 primo e secondo comma della Costituzione.
    La questione, a giudizio di questo Magistrato,  pone  quesiti  non
 infondati   e   va   anzi  approfondita  ampliando  il  controllo  di
 costituzionalita', oltreche' agli artt.  56  e  602  della  legge  n.
 689/1981 citati nella memoria del difensore, anche agli artt. 62, 64,
 102, 103 e 107 della legge n. 689/1981 e 660 del c.p.p.
    E'  noto che il meccanismo approntato dal combinato disposto delle
 norme appena citate, in ossequio al principio  della  inderogabilita'
 della pena, fa discendere (seppure con il filtro del procedimento che
 si  svolge  davanti  al  magistrato  di  sorveglianza ex art. 660 del
 c.p.p.) dal dato di fatto della insolvibilita', la conversione  della
 pena  pecuniaria  in  liberta'  controllata (la conversione in lavoro
 sostitutivo e' del tutto inapplicabile per la mancata  attuazione  da
 parte    delle    autorita'   competenti   dei   necessari   supporti
 organizzativi).
    Tale  conversione  quindi,   se   non   proprio   automatica,   e'
 praticamente  ineludibile  in  casi, come quello in esame, in cui per
 certi reati (contrabbando, stupefacenti, etc.), che non presuppongono
 necessariamente una  particolare  facoltosita'  dell'agente,  vengono
 inflitte  condanne  per somme ingenti o ingentissime che poi dovranno
 essere eseguite, magari a distanza di anni (e dopo l'espiazione della
 eventuale  pena  detentiva  congiuntamente   inflitta),   quando   il
 condannato  oramai  si  e'  reinserito, probabilmente con fatica, nel
 mondo del lavoro.
    La liberta' controllata per quanto adattabile entro  certi  limiti
 (vedi  artt.  62  e  64  della  legge  n.  689/1981),  alle  esigenze
 lavorative  del  condannato  attraverso   la   modifica   di   alcune
 prescrizioni  indicate dall'art. 56 della legge citata, e' ugualmente
 una misura dal rilevante contenuto restrittivo  non  solo  sul  piano
 della  liberta'  di  circolazione  e soggiorno e comunque comporta la
 compressione  del  diritto  all'espatrio  essendo   il   ritiro   del
 passaporto  una delle prescrizioni assolutamente immodificabili (vedi
 art. 64, ultimo comma, della legge citata).
    Vale la pena notare che, sul versante dell'applicazione delle pene
 detentive, la normativa del c.p.p.  vigente  prevede  addirittura  la
 possibilita',  ove  vi  siano  appositi  accordi  internazionali,  di
 eseguire la condanna nel paese di origine qualora  il  condannato  vi
 consenta  e  tale  esecuzione sia idonea a favorirne il reinserimento
 sociale (vedi art. 742 del c.p.p.).
    Nel  campo  delle  pene  pecuniarie, invece, una situazione, anche
 incolpevole,  di  ristrettezza  economica  (o  semplicemente  di  non
 particolare  agiatezza  quando  la  somma  da pagare e' ingentissima)
 rende meno abbiente non  solo  assoggettabile  ad  una  sanzione  dal
 contenuto  piu'  afflittivo  di  quella  pecuniaria,  ma lo destina a
 privarsi anche della propria unica fonte di reddito nella  misura  in
 cui  detta sanzione comporta limitazioni incompatibili con molti tipi
 di   lavoro,   come   ad    esempio    quello,    piuttosto    comune
 dell'autotrasportatore.
    Le norme piu' volte citate peccano di sospetta incostituzionalita'
 e la questione sollevata non e' pertanto manifestamente infondata:
      a)  laddove,  prevedendo  la  necessaria  conversione della pena
 pecuniaria in liberta' controllata a seguito  di  accertamento  dello
 stato  di  insolvenza  insanabile  comunque  motivato ed incolpevole,
 impongono a colui che originariamente era stato condannato  a  pagare
 una multa o ammenda, conseguenze piu' afflittive, sia sul piano delle
 liberta' fondamentali per contrasto con l'art. 27, primo comma, della
 Costituzione,    norma   che   stabilendo   la   personalita'   della
 responsabilita' penale bandisce dal nostro ordinamento ogni forma  di
 responsabilita'  oggettiva  ovvero  non attribuibile al fatto proprio
 colpevole;
      b) laddove fanno derivare dallo stato di insolvenza  incolpevole
 accertato  dal  magistrato  di  sorveglianza,  per  l'abbiente  e non
 abbiente,   diseguali    conseguenze    sanzionatorie    da    eguali
 responsabilita'  nella violazione della medesima norma incriminatrice
 per contrasto con l'art. 3,  primo  comma,  della  Costituzione,  che
 sancisce  l'uguaglianza  dei  cittadini  di  fronte  alla legge senza
 distinzione di condizioni personali o sociali;
      c) laddove discriminano di fatto quei cittadini insolvibili  che
 per lavoro debbono spostarsi anche fuori dal territorio nazionale, da
 quelli  che  non  hanno  tale  necessita' per contrasto con l'art. 3,
 secondo comma, della Costituzione, perche' non solo non rimuovono  ma
 pongono  ostacoli  che  limitano  di fatto la loro uguaglianza e, per
 contrasto con l'art. 4, primo  comma,  della  Costituzione,  perche',
 invece   di   promuoverle,  impediscono  le  condizioni  che  rendono
 effettivo il diritto al lavoro;
      d) laddove, impedendo di fatto la possibilita' di esercitare  la
 propria  occupazione,  vanificano  il  significato  trattamentale del
 lavoro, unanimemente considerato strumento educativo per eccellenza e
 condizione  indispensabile  per  un  completo  reinserimento  sociale
 attuando  finalita'  incomprensibili  per colui che, magari dopo aver
 gia' pagato il suo conto con la giustizia per quanto attiene la  pena
 detentiva, si e' gia' incamminato, proprio grazie al lavoro, su di un
 percorso   teso   al  recupero  della  propria  dignita'  sociale  di
 cittadino,  per  contrasto  con  l'art.  27,   terzo   comma,   della
 Costituzione,  che  impone alle pene di tendere alla rieducazione del
 condannato.
    II - Rilievo di incostituzionalita' degli artt. 133- bis e ter del
 c.p. in relazione all'art. 660 del c.p.p. e agli artt. 102, 103,  107
 della  legge  n. 689/1981 per contrasto con gli artt. 3, primo comma,
 25, secondo e terzo comma, e 27, primo comma, della Costituzione.
    Sembra   a   questa   autorita'   giudiziaria   che  la  questione
 costituzionale relativa al contrasto con l'art. 3 della  Costituzione
 degli  artt.  132  e  133-  bis  del c.p. non sia stata correttamente
 impostata.
    Il difensore infatti parla genericamente di dubbi di  legittimita'
 costituzionale  che porrebbe lo stesso istituto della pena pecuniaria
 quando "non sia comminata in base al disposto dell'art. 133- bis  del
 c.p.p.",  norma  che  appunto  permette  di  articolare  la  multa  o
 l'ammenda oltre  i  limiti  previsti  dalla  norma  incriminatrice  e
 sanzionatoria  speciale in considerazione delle condizioni economiche
 effettive del reo.
    La mancata applicazione dell'art. 133- bis e' motivo di  doglianza
 di  merito  in  sede  di rituale impugnazione e non entra a far parte
 della  cognizione  del  magistrato  di  sorveglianza   in   sede   di
 conversione    ne'    puo'    essere    oggetto   di   controllo   di
 costituzionalita'. Cosi' come  prospettata  la  questione  e'  dunque
 manifestamente infondata.
    Tuttavia  questo magistrato ritiene di poter sollevare ugualmente,
 d'ufficio, la  questione  di  costituzionalita'  perche'  l'argomento
 introdotto  dal  difensore  allude  al  reale problema della concreta
 eseguibilita' delle pene pecuniarie nel sistema  italiano  risultante
 dal  combinato  disposto degli artt. 133- bis e ter del c.p., 660 del
 c.p.p., 102, 103 e 107 della legge n. 689/1981, norme che non attuano
 con efficacia in questo campo i principi di necessaria ineludibilita'
 della pena, di adeguatezza della stessa alla persona  del  reo  e  di
 uguaglianza sostanziale.
    Devono  innanzitutto farsi alcune premesse per descrivere lo stato
 attuale del meccanismo vigente per il recupero delle pene pecuniarie.
    A giudicare dall'alto numero di procedure di conversione,  avviate
 al  p.m.  ex  art.  660  del  c.p.p.,  che  giungono  all'ufficio del
 magistrato di sorveglianza  e'  evidente  che  molto  spesso  sorgono
 difficolta'  a recuperare le relative multe e ammende, soprattutto se
 determinate in quantita' ingente.
    Per altro, osservando la cosa da una diversa prospettiva,  non  si
 puo'  fare  a  meno  di  notare  che  (a  detrimento del principio di
 inderogabilita' della pena)  la  previsione  dei  limiti  massimi  ai
 periodi   corrispondenti   alla   pena  convertita  puo'  addirittura
 incentivare il condannato abbiente a far sparire i suoi beni in  caso
 di  pesante  condanna  potendo  cavarsela con, al massimo, un anno di
 liberta' controllata e  la  poco  probabile  eventualita'  di  essere
 inquisito (e condannato) per il reato di cui all'art. 388 del c.p.p.
    Anche  la  possibilita'  di rateizzare fino a 30 soluzioni mensili
 (art. 133 del c.p.p.) ha un senso solo per somme complessivamente non
 enormi che,  cosi'  frazionate,  possono  essere  ricondotte  in  una
 prospettiva  di  solvibilita'  in  capo  a  persone  che godono di un
 reddito stabile, anche non possedendo  beni  pignorabili,  mentre  la
 stessa   rateizzazione  rimane  comunque  improponibile  per  i  "non
 possidenti" che sono debitori di miliardi o anche soltanto di  alcune
 decine di milioni di lire.
    Si  puo' osservare, pertanto, che il sistema attuale, sia sotto il
 punto  di  vista  del  potere  deterrente  che  sotto  quello   della
 realizzabilita'  da  parte delle cancellerie, garantisce maggiormente
 l'efficacia  delle  pene  pecuniarie  non   particolarmente   ingenti
 (diciamo  entro 10/15 milioni di lire) cioe' quelle che trovano nella
 eventuale conversione in liberta' controllata  (un  giorno  per  ogni
 25.000  lire)  una  alternativa  al  pagamento  ancora  proporzionata
 all'entita' della pena inizialmente  inflitta  e  alla  gravita'  del
 reato commesso.
    Scarsa   e'   invece   l'efficacia  delle  pene  pecuniarie  molto
 cosistenti, prevalentemente destinate alla conversione e quindi,  una
 volta  convertite, non piu' ricollegabili alla gravita' del reato per
 i limiti massimi imposti  dalla  legge  alla  durata  della  liberta'
 controllata (artt. 102 e seguenti della legge n. 689/1981).
    Vale  la  pena ricordare che, nella ben nota sentenza n. 131/1979,
 la Corte costituzionale, nel porre fine alla  previgente  conversione
 "automatica"  della  pena  pecuniaria  in  pena  detentiva, cerco' di
 indicare le linee di una riforma che, salvaguardando il principio  di
 uguaglianza  sostanziale,  rendesse  inderogabile  l'esecuzione anche
 della pena pecuniaria.
    Pur senza escludere esplicitamente l'ammissibilita' costituzionale
 del meccanismo della conversione  di  tale  specie  di  pena  in  una
 sanzione   di   natura  diversa  e  piu'  restrittiva,  veniva  posto
 particolarmente  l'accento  sulla  necessita'  di   adottare   validi
 meccanismi  di  adeguamento  della  pena  pecuniaria  alle condizioni
 economiche del condannato, invitando il legislatore a servirsi  anche
 delle esperienze di diritto comparato.
    Si  citava, ad esempio, il metodo dei tassi giornalieri di reddito
 del diritto austriaco e tedesco, suggerendo  un  sistema  in  cui  la
 prospettiva  della  conversione  avesse  davvero  valore deterrente e
 dovesse verificarsi solo in casi estremi e limitati.
    La legislazione del 1981 ha  limitato  la  realizzazione  di  tali
 suggerimenti  agli  adempimenti  seguenti: l'introduzione degli artt.
 133- bis e ter del c.p., che permettono di superare i limiti edittali
 della pena pecuniaria prevista per ciascun reato e la possibilita' di
 rateizzarla, e la  conversione  della  pena  pecuniaria  non  pagata,
 tramite il filtro del procedimento di conversione, nella misura della
 liberta' controllata che opera riducendo alcune liberta' fondamentali
 diverse dalla liberta' personale.
    Tale  sistema,  lo  si  e'  detto, non e' riuscito a realizzare lo
 scopo indicato dal giudice costituzionale di far si' che il pagamento
 fosse l'esito naturale della sanzione  pecuniaria  e  la  conversione
 l'esito  eccezionale  di  un  comportamento  colpevole  causativo  di
 insolvibilita'.  Si  sono  invece  mantenuti  gli  inconvenienti  del
 vecchio  sistema  con la sola differenza che, da quando la competenza
 applicativa delle sanzioni sostitutive e' passata  alla  magistratura
 di sorveglianza, e' stato dato impulso ad un altissimo numero di pro-
 cedure  di  conversione (che dal 1989 sono aumentate con progressione
 geometrica, almeno  presso  l'ufficio  di  sorveglianza  fiorentino),
 numero neppure paragonabile a quello delle conversioni fatte dal pre-
 tore  e  dal  p.m. prima dell'emissione del nuovo codice di procedura
 penale.
    Per concludere la  normativa  citata  e'  fortemente  sospetta  di
 incostituzionalita'  e  la  questione,  che in questa sede si solleva
 d'uficio, non e' pertanto manifestamente infondata:
      a) per tutte le norme citate laddove, pur prevedendo un  sistema
 di  misure  succedanee  alla  pena  pecuniaria  non  corrisposta, non
 persegue adeguatamente e quindi si pone ugualmente in  contrasto  con
 il principio di inderogabilita' della pena, cosi' come ricavato dalla
 lettura  congiunta  del  secondo  e  terzo  comma  dell'art. 25 della
 Costituzione    (i    quali,    prevedendo    l'istituto   "pena"   e
 differenziandolo dall'istituto "misure di sicurezza"  lo  riconoscono
 come  necessario ai fini della prevenzione generale e della tutela di
 ogni diritto e fanno  della  afflittivita'  uno  dei  suoi  caratteri
 essenziali);
      b)  per  i  soli  artt.  133-  bis  e ter (per le altre norme la
 questione e' gia' stata proposta sub I laddove,  nell'articolare  con
 tecniche  non ottimali il metodo di adeguamento della pena pecuniaria
 alle condizioni economiche del reo fanno si' che:
       1.  sia  frequente  la  successiva   conversione   della   pena
 pecuniaria  in  sanzione  sostitutiva  come conseguenza derivante dal
 dato oggettivo della incolpevole insolvenza, per contrasto con l'art.
 27, primo comma, della Costituzione ("la  responsabilita'  penale  e'
 personale");
       2.  sia frequente che per il medesimo reato l'abbiente e il non
 abbiente vengono a subire diverse conseguenze (pagamento di una somma
 allo  Stato  o  restrizione  di  alcune  liberta'  fondamentali)  per
 contrasto  con l'art. 3 della Costituzione che sancisce l'uguaglianza
 sostanziale tra tutti i cittadini.
                       RILEVANZA DELLE QUESTIONI
    E' evidente la rilevanza delle questioni esposte  sulla  decisione
 in  esame  poiche' la declaratoria di incostituzionalita' delle norme
 indicate sub  I  permetterebe  a  questo  ufficio  di  articolare  le
 prescrizioni  della liberta' controllata in modo da non compromettere
 i risultati raggiunti, attraverso  il  lavoro,  sul  persorso  socio-
 riabilitativo del condannato.
    La declaratoria di incostituzionalita' sub II potrebbe addirittura
 paralizzare  la  procedura  oggi  sospesa  in  attesa  di  una  nuova
 normativa  in  materia  applicazione  e  di  esecuzione  delle   pene
 pecuniarie.