IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
    Ha pronunciato la seguente ordinanza;
    Letti gli atti del procedimento;
    Sentite le parti;
                            I N   F A T T O
    In  data  8  maggio 1993 il procuratore della Repubblica presso il
 tribunale di Roma  chiedeva  al  g.i.p.  dello  stesso  tribunale  la
 proroga  del  termine  delle  indagini  preliminari  nel procedimento
 penale instaurato contro Moretti Stefano per il reato di cui all'art.
 73 del d.P.R. n. 309/1990.
    Effettuate le prescritte notifiche, il difensore del  Moretti  nel
 termine  assegnato  chiedeva  la  reiezione della suddetta richiesta,
 deducendo, da un lato, che non era stata indicata dal p.m.  la  causa
 giustificante  la  proroga  del termine delle indagini preliminari e,
 dall'altro, che la richiesta medesima era  inammissibile,  in  quanto
 proposta  successivamente  alla  scadenza del termine previsto per la
 conclusione  delle  indagini  in  contrasto   con   quanto   disposto
 espressamente dall'art. 406, primo comma, del c.p.p.
                          I N   D I R I T T O
    Ritiene  questo  giudice che deve essere preliminarmente esaminata
 la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 405, secondo,
 terzo e quarto comma, 406 e 407 del c.p.p. per violazione degli artt.
 112 e 25, secondo comma, della Costituzione.
    L'art. 405, secondo comma, prima parte, del c.p.p.  fissa  in  sei
 mesi  dalla  data  di  iscrizione del nome della persona indagata nel
 registro delle notizie di reato  il  termine  "ordinario"  di  durata
 delle indagini preliminari per la generalita' dei reati.
    Nella  seconda  parte  dello  stesso  comma il suddetto termine e'
 elevato ad un anno nel caso in cui si procede per taluno dei  delitti
 indicati nell'art. 407, secondo comma, lett. a).
    Il  terzo  comma  dell'art.  405  cit. stabilisce che, quando sono
 necessarie talune condizioni di procedibilita'  (querela,  istanza  o
 richiesta  di procedimento), i suddetti termini decorrono dal momento
 in cui queste pervengono al pubblico ministero.
    Il comma successivo del medesimo articolo dispone che,  quando  e'
 necessaria  l'autorizzazione  a  procedere,  il  decorso  dei termini
 suindicati resta sospeso dal momento della richiesta a quello in  cui
 l'autorizzazione  perviene  al  pubblico  ministero.   L'art. 406 del
 codice di rito a sua volta, detta una serie di disposizioni in ordine
 al meccanismo per la proroga del termine "ordinario"  delle  indagini
 preliminari  ed  all'utilizzabilita'  degli atti di indagine compiuti
 dopo la presentazione  della  richiesta  di  proroga  e  prima  della
 comunicazione  del provvedimento del giudice.  L'art. 407 del c.p.p.,
 nel primo e secondo comma, determina  i  termini  di  durata  massima
 delle  indagini  preliminari,  mentre  nel  comma  successivo pone il
 divieto di utilizzabilita' degli atti di indagine compiuti  dal  p.m.
 dopo  la  scadenza  del termine stabilito dalla legge o prorogato dal
 giudice,  qualora  l'organo dell'accusa non abbia esercitato l'azione
 penale o richiesto l'archiviazione nel termine suddetto.
    Cosi' sintetizzata la  disciplina  dei  termini  di  durata  delle
 indagini preliminari e del meccanismo previsto dal codice di rito per
 la  proroga di detti termini, devesi osservare che, come ben e' stato
 evidenziato dai giudici della Consulta, "fine primario ed ineludibile
 del processo penale non puo' che rimanere quello della ricerca  della
 verita'  (in armonia con i principi della Costituzione ..)" (v. Corte
 costituzionale, 3 giugno 1992, n. 255, in motivazione).
    Con questo fine non sembra coerente la predeterminazione  ex  lege
 del tempo in cui le indagini debbono essere necessariamente concluse,
 presupponendo che la verita' possa essere scoperta, per cosi' dire, a
 termine.
    In altre parole, la previsione di termini di durata delle indagini
 preliminari,  pur preordinata al fine commendevole di contenere entro
 tempi ragionevoli la fase procedimentale, puo' di  fatto  costringere
 l'organo  della  pubblica accusa ad operare in direzione contraria al
 principio   dell'obbligatorieta'   dell'azione   penale    consacrato
 nell'art. 112 della Costituzione.  Di vero, ben puo' accadere che, di
 fronte all'impossibilita' di portare a compimento le indagini avviate
 entro  il termine stabilito dall'art. 405 del c.p.p. e, comunque, ove
 siano state  richieste  o  concesse  proroghe,  nei  termini  massimi
 stabiliti  dall'art.  407 dello stesso codice, il p.m., non ritenendo
 gli elementi gia'  acquisiti  sufficienti  a  sostenere  l'accusa  in
 giudizio,  debba  richiedere  l'archiviazione  anche  per i reati non
 esistenti, non improcedibili o addirittura in relazione ai quali  non
 sia  cessata  la  permanenza;  tutto cio' in contrasto con il preciso
 disposto dell'art. 112 della Costituzione.  Come e' stato esattamente
 rilevato, in un sistema quale e' il nostro fondato sul  principio  di
 uguaglianza  di  tutte  le persone di fronte alla legge, il principio
 dell'obbligatorieta' dell'azione  penale  rappresenta  un  necessario
 completamento  del  principio  sostanziale  di  legalita'  (art.  25,
 secondo comma, della Costituzione) in quanto  impone  una  "legalita'
 nel procedere" (Corte costituzionale, sentenza n. 88/1991). Esso - si
 e'  affermato  in  altra  decisione  -  costituisce  un "elemento che
 concorre a garantire da un lato l'indipendenza del pubblico ministero
 nell'esercizio della propria funzione  e,  dall'altro,  l'uguaglianza
 dei  cittadini  di  fronte  alla  legge  penale", sicche' l'azione e'
 attribuita  a  tale  organo  "senza  consentirgli  alcun  margine  di
 discrezionalita'  nell'adempimento  di  tale doveroso ufficio" (Corte
 costituzionale, sentenza n. 84/1979).    Ne  deriva  che  l'esercizio
 dell'azione  penale,  in  presenza di fattispecie di reato identiche,
 non puo' e non deve dipendere dalla maggiore  o  minore  complessita'
 delle  indagini e, quindi, dal maggiore o minore tempo necessario per
 compierle.  In applicazione di questi principi, la Corte  -  cui  era
 stata  sottoposta  la  questione  di legittimita' dell'art. 125 delle
 disp.      att.   del   c.p.p.   -   ha   ritenuto   che   l'istituto
 dell'archiviazione  puo'  essere  riferito  unicamente  ad una accusa
 priva di fondamento, in quanto solo in tale caso puo' legittimarsi il
 non esercizio dell'azione penale. Laddove  la  notitia  criminis  non
 risulti,  invece,  infondata,  il p.m. ha il dovere di compiere "ogni
 attivita' necessaria", ivi compresi  gli  "accertamenti  su  fatti  e
 circostanze  a favore della persona sottoposta alle indagini". Si e',
 dunque,  stabilito  il  principio  di  "completezza"  delle  indagini
 preliminari  sotto  un  duplice  profilo:  da  un  lato come completa
 individuazione dei mezzi di prova necessari per consentire al p.m. di
 esercitare le varie opzioni processuali possibili;  dall'altro  lato,
 come   "argine   contro  eventuali  prassi  di  esercizio  apparente"
 dell'azione penale che, avviando la  verifica  giurisdizionale  sulla
 base   di   indagini  troppo  superficiali,  lacunose  o  monche,  si
 risolverebbero   in   un   ingiustificato   aggravio    del    carico
 dibattimentale.
    Non   risulta,   pertanto,   compatibile   con   le   disposizioni
 costituzionali una normativa che costringa l'organo inquirente ad una
 richiesta di archiviazione  motivata  non  dalla  infondatezza  della
 notizia  del  reato (che anzi viene dal p.m. sostanzialmente negata),
 non dalla superfluita' del processo (perche' anzi viene  ribadita  la
 necessita'  di proseguire le investigazioni per giungere ad ulteriori
 risultati), ma esclusivamente dalla non  completezza  delle  indagini
 per scadenza dei termini di durata delle stesse.
    Alla situazione prospettata non puo' porsi rimedio facendo leva su
 alcuno degli istituti previsti dal vigente codice di rito.
    Non  attraverso  l'avocazione da parte del procuratore generale ex
 art. 412 del c.p., sia perche' trattasi di attivita' facoltativa, per
 giunta limitata nel tempo a soli trenta giorni,  termine  questo  del
 tutto   insufficiente   per  il  compimento  delle  indagini  che  la
 situazione richiederebbe  o  per  la  formulazione  dell'accusa;  sia
 perche'   la   citata   disposizione  fa  riferimento  a  ipotesi  di
 inattivita'  del  p.m.,  ovvero  ad  inadempienza  rispetto  ai  suoi
 obblighi:  tutte  ipotesi ben diverse da quella in esame.  Neppure la
 situazione puo' ritenersi sanabile attraverso la possibilita' che  il
 p.m.  ha  in  sede  di  archiviazione  di  prospettare  al  g.i.p. la
 necessita' di compiere ulteriori indagini (art.  409,  quarto  comma,
 del c.p.p.).  Tale astratta possibilita', infatti, non risulta idonea
 ad  eliminare  i  suaccennati  dubbi  di legittimita' costituzionale,
 posto che nulla assicura che il giudice dell'archiviazione accolga le
 indicazioni del p.m.
    Senza considerare poi, che la relativa  decisione  sul  punto  e',
 comunque, inoppugnabile.
    D'altra  parte, se interpretato come correttivo alla rigidita' del
 meccanismo della proroga dei termini  per  le  indagini  preliminari,
 l'istituto  delle  indagini coatte previsto dalla disposizione teste'
 richiamata determinerebbe uno stravolgimento dei ruoli  dei  soggetti
 del  processo  incompatibile  con  il  dettato  costituzionale.   Non
 sarebbe,  cioe',  piu'  il  giudice  ad   effettuare   un   controllo
 giurisdizionale  sull'operato del p.m., ma sarebbe piuttosto l'organo
 dell'accusa a servirsi del giudice per attuare la  propria  strategia
 di  investigazione  sino  al  punto di indicare esso stesso al g.i.p.
 quali  sono  gli  ulteriori  atti  di  indagine  che  questo   dovra'
 ordinargli di compiere.  Ben si e' osservato, a tale riguardo che non
 puo'  ritenersi  assolto  l'obbligo  di  esercitare l'azione penale -
 obbligo che la Costituzione pone  direttamente  in  capo  al  p.m.  -
 scaricando  sul  giudice  delle  indagini  preliminari  il compito di
 ovviare ai limiti che lo stesso sistema determina.
    Ancora  i  dubbi  di  legittimita'  costituzionale  sollevati  non
 possono  essere  superati  neppure  mediante il richiamo all'istituto
 dell'attivita' integrativa di indagine (art. 430 del c.p.p.).
    Per  vero,  i poteri investigativi del p.m. previsti in tale norma
 presuppongono che  l'organo  dell'accusa  sia  gia'  in  possesso  di
 elementi idonei a sostenere l'accusa e miri soltanto ad integrarli in
 funzione   delle  richieste  che  dovra'  rivolgere  al  giudice  del
 dibattimento.  Questi poteri di indagine  possono  essere  esercitati
 solo  dopo l'emissione da parte del g.i.p. del decreto che dispone il
 giudizio e sono, inoltre, limitati agli  atti  per  i  quali  non  e'
 prevista   la  partecipazione  dell'imputato  o  del  difensore.    A
 sgombrare il campo dai dubbi in parola non appare idoneo  neanche  il
 richiamo  all'istituto  della riapertura delle indagini (art. 414 del
 c.p.p.), posto che pure questa va autorizzata  dal  giudice  (il  cui
 potere,   peraltro,   non  risultava  vincolato  alla  ricorrenza  di
 particolari elementi  di  fatto  tipizzati  e  non  discrezionalmente
 apprezzabili).
    D'altro  canto,  l'istituto de quo presuppone che la necessita' di
 nuove investigazioni sia emersa  successivamente  alla  richiesta  di
 archiviazione.
 Troppo   facile   sarebbe  altrimenti  aggirare  il  rigido  disposto
 dell'art. 407 del c.p.p.  e  la  sanzione  di  inutilizzabilita'  ivi
 prevista.      Basterebbe,  infatti,  che  il  p.m.,  magari  rimasto
 colpevolmente    inattivo,    richiedesse    al    g.i.p.    dapprima
 l'archiviazione  e  poi  la  riapertura  delle  indagini per svolgere
 quelle stesse investigazioni che avrebbe potuto e dovuto svolgere  in
 precedenza.    E'  da  osservare, infine, che i dubbi di legittimita'
 costituzionale prospettati non rimangono superati neppure nel caso in
 cui si acceda alla tesi che ammette la ricorribilita' per  cassazione
 del  provvedimento  reiettivo  della  richiesta  di proroga (tesi ora
 accolta da Cass., sezione prima, 6 luglio 1992, Barbaro),  posto,  da
 un  lato,  che  questa  puo'  venire  in  rilievo solo per quello che
 attiene appunto  ai  profili  di  legittimita'  costituzionale  della
 "proroga",  ma  non  anche per cio' che concerne la predeterminazione
 dei  termini  insuperabili  fissati  nell'art.  407  del  c.p.p.,  e,
 dall'altro,  che  i  ben  noti  limiti  connaturati  al  controllo di
 legittimita' della Suprema Corte impedirebbero, comunque, alla stessa
 di contrastare validamente la discrezionalita' della valutazione  del
 g.i.p.
    Quanto  alla  rilevanza  delle questioni sollevate, e' sufficiente
 osserva che la declaratoria di  illegittimita'  costituzionale  degli
 artt.  405,  secondo,  terzo  e  quarto  comma,  406 e 407 del c.p.p.
 consentirebbe al p.m. di proseguire nelle indagini preliminari  senza
 dover  richiedere  ed  ottenere  dal  g.i.p.  alcuna  proroga e senza
 prefissazione di termini di durata massima per la  conclusione  delle
 indagini stesse.