ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 500, quarto
 comma, del codice di procedura penale,  nel  testo  introdotto  dalla
 legge  7  agosto  1992,  n.  356,  promosso con ordinanza emessa il 7
 ottobre 1992 dal Pretore di Macerata nel procedimento penale a carico
 di Paolozzi Benedetto, iscritta al n. 3 del registro ordinanze 1993 e
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale  della  Repubblica  n.  3,  prima
 serie speciale, dell'anno 1993;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri;
    Udito nella camera di consiglio del 9  febbraio  1994  il  Giudice
 relatore Mauro Ferri;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Con  ordinanza del 7 ottobre 1992 il Pretore di Macerata ha
 sollevato questione di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  500,
 quarto  comma,  del codice di procedura penale, come modificato dalla
 legge 7 agosto 1992, n. 356  (di  conversione  del  decreto  legge  8
 giugno  1992, n. 306), "nella parte in cui subordina all'esistenza di
 altri elementi di  prova,  capaci  di  confermarne  l'attendibilita',
 l'utilizzabilita' come prove delle dichiarazioni precedentemente rese
 dal  testimone nel corso delle indagini preliminari ed utilizzate nel
 dibattimento per le contestazioni".
    2. - Rileva il giudice a quo  che  in  base  all'originario  testo
 dell'art.  500  del  codice  di  procedura  penale,  le dichiarazioni
 utilizzate per le contestazioni avrebbero potuto servire  al  giudice
 solo    per    valutare    l'attendibilita'    della    testimonianza
 dibattimentale, mentre, a seguito dell'intervento di questa Corte con
 la sentenza n. 255 del 1992, la norma e' stata dichiarata illegittima
 proprio nella parte in cui impediva al  giudice  la  possibilita'  di
 formare  il  suo  convincimento  anche sulla base delle dichiarazioni
 originariamente rese dal testimone ed utilizzate per le contestazioni
 dibattimentali.
    Su tale contesto e' poi intervenuta la novella di cui alla legge 7
 agosto 1992, n. 356, la quale, sostituendo l'art.  500,  consente  al
 giudice   (quarto  comma)  di  valutare  come  prova  detto  tipo  di
 dichiarazioni solo ad una condizione, e cioe'  che  sussistano  altri
 elementi di prova che ne confermino l'attendibilita'.
   Nel caso oggetto del giudizio a quo, in relazione ad una essenziale
 circostanza  riferita  da  una testimone alla polizia giudiziaria nel
 corso delle indagini preliminari e  negata  oggi  al  dibattimento  -
 espone il remittente - non si rinvengono nel fascicolo, ne' all'esito
 dell'istruttoria   dibattimentale,  ulteriori  elementi  di  prova  a
 sostegno  della  veridicita'  delle  originarie   dichiarazioni.   Il
 giudice,  quindi, dovrebbe in questo caso rinunciare al convincimento
 maturato  circa  la  fondatezza  e   la   veridicita'   delle   prime
 dichiarazioni   e   non   potrebbe  far  prevalere  le  stesse  nella
 motivazione della decisione sulla base di  una  semplice  valutazione
 comparativa  di  attendibilita' tra le une e le altre, ne' ricorrendo
 ad  altre  valutazioni   attinenti   all'aspetto   intrinseco   delle
 deposizioni.
    3.  -  Cio'  premesso,  il  Pretore  di Macerata ritiene che detta
 disciplina si ponga in conflitto  con  le  motivazioni  della  citata
 sentenza n. 255 di questa Corte, poiche', in sostanza, reintroduce il
 medesimo contenuto della norma gia' giudicata illegittima. Da un lato
 risulterebbe   evidente   l'irragionevolezza   della  presunzione  di
 genuinita' attribuita alla deposizione dibattimentale e negata invece
 a quella resa nell'immediatezza alla polizia giudiziaria, al pubblico
 ministero, o  addirittura  al  giudice  delle  indagini  preliminari;
 dall'altro  sussisterebbe  la  violazione della regola essenziale del
 libero convincimento del giudice cui viene  nuovamente  sottratta  la
 possibilita'   di   tener  conto  di  tutti  gli  elementi  di  prova
 ritualmente acquisiti al giudizio e, quindi, anche di  scegliere  tra
 due versioni contrastanti rese dal medesimo testimone.
    Inoltre,  in tal modo verrebbero equiparate due diverse situazioni
 processuali: la deposizione del  testimone  (regolarmente  introdotta
 nel  dibattimento  attraverso  lo strumento delle contestazioni) e le
 dichiarazioni del coimputato che pure - ai sensi dell'art. 192, terzo
 comma, del codice di procedura penale - debbono  essere  sorrette  da
 ulteriori elementi probatori che ne confermino l'attendibilita'.
    4.  -  E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
 ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, che  ha
 concluso per l'infondatezza della questione.
    Ad  avviso  dell'Avvocatura  la norma impugnata non esclude che la
 precedente deposizione di un testimone abbia una rilevanza probatoria
 completa (in cio' dunque in piena sintonia con le  indicazioni  della
 sent.  n.  255)  ma, senza derogare in alcun modo all'affermazione di
 principio, ne  subordina  la  utilizzabilita'  piena  alla  effettiva
 esistenza di ulteriori "elementi" che ne confortino l'attendibilita'.
    La  ragione  della  limitazione,  che  certamente non scalfisce il
 principio posto in via generale, sarebbe individuabile  nelle  scelte
 di  fondo  operate dal legislatore con l'emanazione del nuovo codice,
 che, privilegiando la formazione della prova nel dibattimento  e  nel
 contraddittorio  delle  parti, imporrebbero una valutazione di minore
 favore,  per  la  loro  piu'  modesta  affidabilita',  dei  fatti  di
 rilevanza  processuale  formati  in  una  sede  diversa   da   quella
 fisiologicamente  propria.  In questa prospettiva appare evidente, ad
 avviso dell'Avvocatura, la ragione  di  una  maggiore  cautela  nella
 valutazione di tali elementi rispetto a quelli acquisiti direttamente
 nel dibattimento; cautela che pero' non contrasterebbe con l'esigenza
 di  consentire al giudice di delibare compiutamente tutti gli atti di
 cui abbia avuto cognizione nello svolgimento del processo al fine  di
 pervenire ad un corretto accertamento dei fatti.
                        Considerato in diritto
    1.   -   Il   Pretore   di   Macerata  dubita  della  legittimita'
 costituzionale dell'art. 500, quarto comma, del codice  di  procedura
 penale  "nella parte in cui subordina all'esistenza di altri elementi
 di prova, capaci di confermarne  l'attendibilita',  l'utilizzabilita'
 come prove delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone nel
 corso  delle  indagini preliminari ed utilizzate nel dibattimento per
 le contestazioni".
    2. -  Il  giudice  remittente,  premesso  che  in  base  al  testo
 originario   dell'art.   500   le  dichiarazioni  utilizzate  per  le
 contestazioni non potevano, di regola, costituire prova dei fatti  in
 esse  affermati, mentre la norma, a seguito della sentenza n. 255 del
 1992 di questa Corte, e' stata dichiarata illegittima  proprio  nella
 parte  in  cui  impediva  al  giudice  di  formare liberamente il suo
 convincimento anche sulla base delle dichiarazioni utilizzate per  le
 contestazioni dibattimentali, ritiene che la disciplina della novella
 di  cui  alla legge 7 agosto 1992, n. 356, che ha portato all'attuale
 formulazione dell'art. 500,  sia  palesemente  in  conflitto  con  le
 motivazioni  della  citata  sentenza  n. 255 ed abbia sostanzialmente
 reintrodotto  il  medesimo  contenuto  della  norma  gia'  dichiarata
 illegittima.
    Anche la nuova disposizione, pertanto, contrasterebbe:
      1) con l'art. 3 Cost.:
        a)  per  la irragionevole presunzione di genuinita' attribuita
 alla deposizione dibattimentale e negata  invece  alla  dichiarazione
 resa  alla  polizia  giudiziaria, al pubblico ministero, o al giudice
 per le indagini preliminari;
        b)  per  la  irragionevole   equiparazione,   nella   medesima
 disciplina  sostanziale,  di  due  situazioni processuali diverse: la
 deposizione del testimone (introdotta nel dibattimento attraverso  il
 veicolo  delle  contestazioni) e le dichiarazioni del coimputato che,
 ai sensi dell'art. 192, terzo comma, del codice di procedura  penale,
 devono  essere  sorrette  da  ulteriori  elementi  di  prova  che  ne
 confermino l'attendibilita';
      2) con gli artt. 24, 25 e 101 Cost.:
       sotto il profilo della  violazione  del  principio  del  libero
 convincimento  del giudice, cui verrebbe sottratta la possibilita' di
 tener conto di tutti gli elementi di prova ritualmente  acquisiti  al
 giudizio  e,  quindi  anche  la  possibilita'  di  scegliere  tra due
 dichiarazioni contrastanti rese dal testimone; il che, nel  contempo,
 inciderebbe anche sul principio di azione e su quello di legalita'.
    3.1. - La questione non e' fondata.
    Il dubbio di costituzionalita' prospettato dal Pretore di Macerata
 muove, come si e' detto, dalla premessa interpretativa secondo cui la
 medesima  regula  iuris dichiarata illegittima con la sentenza n. 255
 del 1992 di questa Corte sarebbe stata  sostanzialmente  reintrodotta
 dall'attuale testo del quarto comma dell'art. 500.
    Giova riepilogare brevemente i termini della questione.
    3.2.  -  Nel dichiarare l'illegittimita' costituzionale del quarto
 comma dell'art. 500 nel suo previgente testo ("nella parte in cui non
 prevede l'acquisizione nel fascicolo per  il  dibattimento,  se  sono
 state  utilizzate  per  le  contestazioni  previste dai commi primo e
 secondo, delle dichiarazioni precedentemente  rese  dal  testimone  e
 contenute  nel  fascicolo  del  pubblico ministero"), questa Corte ha
 inteso riaffermare che ad un ordinamento costituzionale che  sancisce
 il  principio  di  obbligatorieta' dell'azione penale, ma e' prima di
 tutto improntato alla tutela dei diritti inviolabili dell'uomo ed  al
 principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, non sono
 consone  norme  di  metodologia  processuale  che  ostacolino in modo
 irragionevole  il  processo  di  accertamento   del   fatto   storico
 necessario  per  pervenire ad una giusta decisione (v. anche sent. n.
 111 del 1993).
    3.3. - Piu' in particolare - come  si  e'  chiarito  nella  citata
 decisione  -  ogni regola di esclusione di elementi di prova, che sia
 suggerita da  canoni  ispiratori  della  disciplina  processuale  non
 elevati  al  rango  di  norme  costituzionali  e  rimessi alle scelte
 discrezionali  del  legislatore  ordinario,  deve  essere  dotata  di
 ragionevolezza  sia  in  raffronto  ad ipotesi analoghe, per le quali
 valga invece l'opposto principio  della  utilizzabilita'  probatoria,
 sia  anche,  e  soprattutto,  in  termini assoluti, con riguardo alla
 funzione stessa della giurisdizione penale.
    Se quindi vi e' spazio per una presunzione di genuinita' a  favore
 di  talune  dichiarazioni  rese  anteriormente  al dibattimento (tali
 erano nel previgente testo della disposizione le  dichiarazioni  rese
 nel  corso  delle  perquisizioni ovvero sul luogo e nell'immediatezza
 del fatto), allora e' irragionevole escludere radicalmente ogni altra
 presunzione similare, come quella che empiricamente scaturisce quando
 si constata che la dichiarazione, raccolta dalla polizia  giudiziaria
 o  dal  pubblico ministero (soggetti sui quali - e' bene ricordarlo -
 grava un dovere istituzionale di correttezza  e  di  indifferenza  al
 risultato),  e'  fornita  di precisione, analicita' e concordanza con
 altri elementi di prova, ovvero quando vi sia la convinzione  di  una
 deposizione dibattimentale non genuina.
    3.4.  -  Ma nella citata decisione la Corte non ha inteso soltanto
 affermare   l'illegittimita'    di    una    radicale    regola    di
 inutilizzabilita' delle dichiarazioni predibattimentali, suscettibile
 di  provocare  un concreto sganciamento dalla realta', ma ha altresi'
 indicato,  riferendosi  piu'  volte  al  principio  del  libero,   ma
 motivato,  convincimento  del  giudice  ("inteso  come  liberta'  del
 giudice  di  valutare  la   prova   secondo   il   proprio   prudente
 apprezzamento, con l'obbligo di dare conto in motivazione dei criteri
 adottati  e  dei  risultati  conseguiti") il corretto criterio per la
 valutazione  di   tali   dichiarazioni:   esse   potranno   ritenersi
 preferibili in termini di attendibilita' rispetto alle corrispondenti
 dichiarazioni  dibattimentali, solo in presenza di elementi logici ed
 argomentazioni  specifiche  che  inducano  a  ritenerle  maggiormente
 aderenti alla verita' dei fatti.
    4.  - Queste, in estrema sintesi, le ragioni della sentenza n. 255
 del 1992, dalle  quali  puo'  trarsi  un  primo  dato:  dalla  citata
 decisione    non    e'   lecito   desumere   che   le   dichiarazioni
 predibattimentali   utilizzate   per   le    contestazioni    debbano
 necessariamente,  da  sole,  valere  come  prova  dei  fatti  in esse
 affermati, ma  semplicemente  che  anche  esse  devono  poter  essere
 utilizzate  al  fine dell'accertamento dei fatti, previa, ovviamente,
 una   congrua   motivazione   sulla    loro,    ritenuta,    maggiore
 attendibilita'.
    E'  principio  generale  che discende direttamente dal primo comma
 dell'art. 111  della  Costituzione  che  ogni  qualvolta  si  sia  in
 presenza  di  due  versioni  difformi  di  un fatto rese dal medesimo
 testimone non e' consentito al giudice di privilegiarne una a propria
 discrezione, ma sussiste invece l'obbligo di un piu'  attento  esame,
 sia intrinseco che globale, delle dichiarazioni contrastanti, al fine
 di  rendere  ragione  della  maggiore  credibilita' delle une, ovvero
 della non genuinita' delle altre, della concordanza di alcuna di esse
 con altri elementi di  prova,  o,  infine,  dell'inattendibilita'  di
 entrambe.
    5.1. - Eliminato quindi il limite della inutilizzabilita' a priori
 delle dichiarazioni predibattimentali, la novella portata dalla legge
 7  agosto  1992,  n.  356,  modificando il quarto comma originario ed
 introducendone   un   quinto,   ha    sostanzialmente    esplicitato,
 codificandole,  alcune  ipotesi  tratte  da  regole  d'esperienza che
 possono ritenersi corrispondenti a talune delle situazioni che, anche
 in assenza della modifica legislativa, avrebbero consentito,  secondo
 il vaglio critico del giudice, di ritenere veritiera la dichiarazione
 contestata.
    5.2.  -  Il  quinto  comma  della disposizione (da considerarsi in
 ordine di antecedenza logica in quanto,  non  solo  il  novero  delle
 situazioni dalle quali puo' trarsi un convincimento di non genuinita'
 della  deposizione  e' amplissimo, ma se la stessa risulta in qualche
 modo artefatta non  puo'  ricevere  alcuna  valutazione  nel  merito)
 prevede il caso in cui appaia, dalle modalita' della deposizione o da
 altre circostanze comunque emerse nel corso del giudizio, che l'esame
 dibattimentale  e'  stato inquinato affinche' non riproduca quanto il
 teste ebbe a dichiarare in sede d'indagine.
    La norma ha l'evidente fine di consentire il recupero  proprio  di
 cio'  che  si  voleva disperdere ed autorizza il giudice, ove ritenga
 realizzata   l'ipotesi,   ad   apprezzare   la   dichiarazione   resa
 precedentemente utilizzandola come prova dei fatti affermati, e salvo
 sempre  l'obbligo  di  motivarne  l'attendibilita'  anche mediante il
 ricorso ad elementi intrinseci della dichiarazione stessa. Se infatti
 ravvisare delle violenze o delle minacce al teste  costituisce  certo
 una  valida ragione per disattendere la deposizione resa in giudizio,
 non  per  cio'  solo   e'   possibile   senz'altro   ritenere   vera,
 acriticamente, la dichiarazione antecedente.
    5.3.  -  Nella  nuova  formulazione  del  quarto  comma  e' invece
 prevista l'ipotesi  che  non  siano  ravvisabili  fatti  che  abbiano
 turbato  la  genuinita'  della  deposizione:  anche in questo caso e'
 possibile riconoscere alla dichiarazione predibattimentale  efficacia
 probatoria  se  sussistono  altri  e diversi elementi di prova che ne
 confermano l'attendibilita'.
    In  altri  termini, a fronte di una deposizione dibattimentale non
 "sospetta"  il  legislatore  codifica,   discrezionalmente   ma   non
 irragionevolmente,  un criterio logico-argomentativo in base al quale
 non e' sufficiente un giudizio  di  attendibilita'  intrinseca  o  di
 superiore  dignita'  logica  della  dichiarazione  utilizzata  per la
 contestazione, per assegnare prevalenza a questa,  occorrendo  a  tal
 fine che essa sia anche coerente con qualche altro e diverso elemento
 di  prova,  onde - come e' stato efficacemente osservato - iscriversi
 nella  storia  del  reato  con  la  legittimita'  che   viene   dalla
 connessione fra i vari segni che la compongono.
    Sara'  naturalmente  compito  della giurisprudenza definire questa
 nozione. Posto che  la  dichiarazione  predibattimentale,  in  quanto
 allegata  al  fascicolo,  costituisce  certamente prova (contribuendo
 cosi' a formare il materiale probatorio  utilizzabile  dal  giudice),
 potra' ritenersi idoneo elemento di riscontro altro simile atto, o un
 semplice  indizio,  ovvero  (come  parte  della  dottrina ritiene) un
 qualsiasi elemento estrinseco che non  necessariamente  corrobori  il
 fatto specifico ma solo il quadro generale del racconto.
    6. - Alla stregua delle suesposte ragioni, il regime delineato dal
 nuovo   testo  dell'art.  500  puo'  ritenersi,  nel  suo  complesso,
 sufficientemente equilibrato  e  non  in  contrasto  con  i  principi
 espressi  dalla  sent.  n.  255  di questa Corte, ne' con i parametri
 costituzionali prospettati dal giudice remittente.
    Non puo' ravvisarsi, infatti, violazione del principio del  libero
 convincimento   del   giudice   (ne'   degli  artt.  24  e  25  della
 Costituzione)  ove  correttamente  s'intenda  quest'ultimo  non  come
 liberta'  senza  limiti,  bensi' come possibilita' di scelta motivata
 entro una ragionevole logica; ne', in presenza di  due  dichiarazioni
 contrastanti,  risulta  attribuita  alcuna  presunzione di genuinita'
 alla deposizione dibattimentale, dovendo  anche  quest'ultima  essere
 ordinariamente  apprezzata  dal  giudice,  superato il vaglio critico
 delle contestazioni, in raffronto a tutte le  circostanze  emerse  in
 dibattimento;  ne',  infine,  la  disciplina  in esame, pur se simile
 negli effetti, risulta motivata da una sostanziale equiparazione alla
 norma di cui all'art. 192,  terzo  comma,  del  codice  di  procedura
 penale  (dichiarazioni  rese  dal  coimputato), bensi', si ripete, da
 intenti di non irragionevole cautela nella valutazione di elementi di
 prova tra loro contrastanti.