IL TRIBUNALE PER I MINORENNI Ha pronunciato la seguente ordinanza. Nel procedimento n. 4/94 Cont. avente ad oggetto l'opposizione proposta ex art. 17 della legge 4 maggio 1983, n. 184, avverso il decreto del 2 febbraio 1994 con il quale e' stato dichiarato lo stato di adottabilita' delle minori S.R. e S.R. il collegio investito dall'opposizione si viene a trovare nell'impossibilita' di decidere poiche' i quattro giudici sono in perfetta parita' nel merito della questione loro sottoposta. Ci si trova, pertanto nella necessita' di individuare un criterio di risoluzione della situazione di stallo in cui il collegio si trova. Identica questione e' gia' stata affrontata in passato dal tribunale per i minorenni di Torino, in due decisioni, del 7 marzo 1994 (pres. est. Paze', in "Dir. Fam. e Pers.", 1984, p. 10, CED 386084) e del 7 febbraio 1984 (est. Diluciano, in "Giur. Cost.", 1984, p. 2049, CED 146185). Nelle due decisioni si legge che: "Qualora, nel pronunciarsi in materia civile (nella specie, domanda di decadenza dalla potesta' parentale), vi sia parita' di voti dei componenti il collegio (in numero di quattro) giudicante del tribunale per i minorenni, non potendo soccorrere ne' il principio del prevalente interesse del minore, ne' quello della prevalenza del voto del presidente (previsto solo in materia penitenziaria per le pronunce della sezione di sorveglianza), ne' essendo corretto rimettere la causa in istruttoria per farla poi decidere da un collegio composto in maniera diversa, ne' infine essendo accoglibile la tesi secondo cui un'istanza sulla quale non si formi una maggioranza favorevole al suo accoglimento, va respinta, si perviene all'unica soluzione plausibile: il tribunale non puo' emettere alcuna pronuncia. Poiche' pero' in tale modo si viola la garanzia costituzionale, per il cittadino, di ottenere tutela giurisdizionale dei propri diritti, non appare infondata la questione di legittimita', per violazione dell'art. 24 della Costituzione, dell'art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1441, nella parte in cui fissa in numero pari i componenti il collegio del tribunale per i minorenni, senza prevedere alcun meccanismo per stabilire, nell'ipotesi di parita' dei voti, quale soluzione debba prevalere". Si legge ancora che: trattandosi di decisione in materia civile non incide il principio del favor rei; e neppure si puo' far ricorso a quello dell'interesse del minore dato che la posizione di stallo venutasi a creare impedisce appunto di stabilire in che direzione tale interesse giochi; neppure puo' darsi la prevalenza al voto del presidente, non rinvenendosi alcuna disposizione in tal senso tranne che a proposito della sezione di sorveglianza che riveste carattere affatto particolare; e neppure e' corretto rimettere gli atti all'istruttore, formalmente per un supplemento di istruttoria, in pratica (ed in tal senso si e' andata formando la prassi), perche' la causa sia, rimessa ad altro collegio diversamente composto, poiche' una prassi siffatta non ha il conforto della legge e sembra addirittura porsi in contrasto con il principio del giudice naturale". La questione e' stata diversamente risolta dal tribunale per i minorenni di Palermo, con decreto 18 dicembre 1985 (pres. est. Marino, in Dir. Fam. Pers., 1985, pag. 1024) che riporta la seguente motivazione: "Allorche' i componenti del collegio giudicante (nella specie, tribunale per i minorenni) siano di numero pari e nel deliberare non sia raggiunta la maggioranza dei voti, si applica, stante la necessita' di emettere comunque una decisione e non potendo farsi ricorso al principio del favor minoris, l'art. 275 del t.u. comunale e provinciale, secondo cui, nelle deliberazioni collegiali, a parita' di voti, prevale la soluzione votata dal presidente". Questo collegio non condivide il principio affermato dai giudici di Palermo. In primo luogo perche' l'art. 275 del t.u. della legge comunale e provinciale non e' piu' in vigore, in quanto da ritenersi abrogato in virtu' dell'art. 10 del t.u. 16 maggio 1960, n. 570. In secondo luogo perche' il principio secondo cui il voto del presidente prevale nel caso di parita' di posizioni in camera di consiglio e' affermato solamente nell'art. 70, ottavo comma, della legge 27 luglio 1975, n. 354, sostituito dall'art. 22 della legge 10 ottobre 1986, n. 633, che disciplina i provvedimenti del tribunale di sorveglianza. Vi e' da chiedersi se questa disposizione sia applicabile al caso in esame, in via d'interpretazione estensiva o analogica o se con tale norma si sia introdotto un principio generale in materia processuale. Nel risolvere il problema non si puo' pero' ignorare che la Corte costituzionale ha gia' esaminato la questione sollevata dal tribunale per i minorenni di Torino, con l'ordinanza n. 590 del 31 maggio 1988 (in Gazzetta Ufficiale n. 23) con la quale ha dichiarato la manifesta inammissibilita' della questione sollevata dal giudice piemontese nell'ordinanza del 27 febbraio 1984 affermando che "La composizione in numero pari al collegio del tribunale per i minorenni e' intesa a favorire il piu' intenso e costruttivo confronto tra le diverse esperienze di cui sono portatori i singoli membri, e consente all'organo giurisdizionale di autodeterminare il proprio modus operandi per superare al proprio interno ogni circostanza eventualmente preclusiva al raggiungimento di una decisione. In ogni caso l'opzione tra diverse forme di composizione ovvero tra vari possibili meccanismi di votazione sarebbe certamente di competenza del legislatore, trattandosi di scelta che ricade nella generale riserva di legge sul funzionamento degli organi giurisdizionali sancita dall'art. 108 della Costituzione". Fondamento della decisione della Corte e', quindi, la riserva di legge stabilita dall'art. 108 della Costituzione. La sintetica motivazione dell'ordinanza non affronta direttamente il problema interpretativo se vi sia un principio generale per il quale a parita' di voti nelle deliberazioni collegiali prevale il voto del presidente, ne' se tale soluzione sia ricavabile in via interpretativa dall'art. 70, ottavo comma, dell'ord. pen. Implicitamente il problema si deve intendere risolto in senso negativo. Se vi fosse stata, invero, una soluzione positiva la Corte avrebbe dichiarato non l'inammissibilita' della questione ma la manifesta infondatezza oppure sarebbe pervenuta ad una sentenza additiva utilizzando lo strumento interpretativo. E' pur vero che la Corte ha affermato che sara' compito del giudice trovare la soluzione che consenta di superare la situazione di stallo. Non e' pensabile che in tal modo si sia voluto avallare alcune prassi introdotte nei tribunali minorili, quali una remissione del procedimento in istruttoria che consenta il mutamento di composizione del collegio. E' invece possibile che si sia voluto lasciare spazio ad una interpretazione dell'art. 70, ottavo comma, dell'ord. pen. Di fatto, pero', la soluzione del problema e' stata interamente devoluta al legislatore, senza alcun ricorso al procedimento interpretativo. Con tutta probabilita' il giudice costituzionale confidava in una rapida risposta del legislatore. Dal 1988 ad oggi vi e' stato pero' un completo silenzio ancor piu' grave se si considera che il legislatore avrebbe avuto la possibilita' di intervenire in materia in occasione della parziale riforma dell'ordinamento giudiziario, coeva alla riforma del codice di procedura penale come si e' fatto ad esempio, con il d.P.R. n. 449/1988 per mezzo del quale si e' introdotto l'art. 50- bis incidendo sulla normativa di ordinamento giudiziario. Sarebbe stato sufficiente inserire una disposizione analoga a quella dell'art. 70 dell'ord. pen. per risolvere il problema. Il silenzio del legislatore e la risposta negativa della Corte (una negativita' assoluta, posto che si formalizza nella dichiarazione di inammissibilita' del ricorso) inducono il giudice remittente ad una grande prudenza nell'affermare il principio della prevalenza del voto del presidente in caso di deliberazione collegiale paritaria. Non puo' non far rilevare il remittente che la vicenda che da' origine alla decisione del collegio e' particolarmente delicata, dolorosa per tutti i protagonisti (minori, genitori, parenti) e per gli stessi giudici chiamati a risolvere una lacerazione interiore prima ancora che esteriore ed a decidere l'intero cammino di vita dei vari componenti la famiglia. Cio' spiega la cautela del remittente nell'applicare un criterio risolutorio del conflitto, in mancanza non solo di un orientamento giurisprudenziale o dottrinario consolidato, ma dello stesso conforto interpretativo del giudice costituzionale ed in mancanza finanche di un intervento legislativo chiarificatore. Si ritiene pertanto necessario il nuovo ricorso alla Corte costituzionale. Di fronte all'inerzia del legislatore l'organo costituzionale potrebbe, invero, rivedere il precedente orientamento (riaffermato anche di recente con ordinanza 14-26 gennaio 1994, n. 10) ed operare in via interpretativa conferendo all'interpretazione un'autorita' assai meno relativa di quella che potrebbero fornire i giudici di merito. La Corte potrebbe compiere una seconda operazione, gia' iniziata con la sentenza n. 243 del 5-19 maggio 1993 che costituisce una sorta di "messa in mora" del legislatore (Gazzetta Ufficiale n. 22/1993, prima serie speciale). Vi e' infine una terza ragione che induce questo giudice a sollevare la questione di costituzionalita'. L'art. 23, ultimo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, prescrive che l'ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale sia notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. E' auspicio del remittente che il legislatore, superando l'inerzia dei precedenti organi legislativi intervenga direttamente nella materia secondo le attribuzioni indicate nell'art. 108 della Costituzione, anticipando il giudizio del giudice costituzionale. Le norme sottoposte all'esame della Corte sono l'art. 2 del r.d.l. 20 luglio 1934, n. 1404, e le successive modificazioni ed integrazioni in particolare l'art. 50 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, come sostituito dall'art. 5 della legge 27 dicembre 1956, n. 1441. Queste norme vengono ritenute illegittime nella parte in cui non prevedono che nelle deliberazioni prese dall'organo collegiale minorile, ex lege composto da un numero pari di giudici, a parita' di voti prevalga il voto del presidente del collegio, ovvero nella parte in cui non prevedono un criterio comunque risolutore, individuato dalla Corte. Le norme costituzionali violate sono gli artt. 2, 3, 24, 29, 30, secondo comma, 31 e 97 della Costituzione. Tali norme vanno lette non solo per il rapporto che ciascuna di esse ha con la normativa ordinaria sottoposta all'esame della Corte, ma nella loro connessione. E' indubbiamente diritto di ogni cittadino ottenere una risposta giudiziale che assicuri non solo la piu' ampia garanzia dei diritti di difesa, ma anche che sia il piu' possibile sollecita, come esigono gli artt. 24 e 97 della Costituzione. Se cio' e' vero per il cittadino comune, ancor piu' deve valere per il minorenne, i cui diritti ed interessi godono di una tutela costituzionale rafforzata (Corte costituzionale 10 febbraio 1981, nn. 16, 17 e 18). Negare l'attenzione agli interessi del minore costituisce violazione del dovere di solidarieta' imposto dall'art. 2 della Carta fondamentale e, senza ombra di dubbio, realizza una discriminazione (art. 3 della Costituzione) nei confronti degli altri utenti del c.d. "servizio giustizia" per i quali una tutela e' sempre assicurata o da un giudice monocratico o da un giudice collegiale a composizione dispari, cosi' che non vi sara' mai una situazione di stasi nel decidere; ovvero ove e' previsto un collegio con numero pari di componenti (corte d'assise e assise appello) opera il principio del favor rei. Il non prevedere rimedi ad una situazione di stallo viola anche i diritti dei singoli componenti la famiglia, il cui interesse e' parimenti riconosciuto dal legislatore (artt. 29 e 30 della Costituzione). L'analitica disciplina sostanziale e processuale prevista per la dichiarazione dello stato di adottabilita' (artt. 8 e 21 della legge 4 maggio 1983, n. 184) mostra inequivocabilmente che i diritti della famiglia (sia di quella "nucleare" che di quella "patriarcale") godono di piena tutela anche davanti al tribunale per i minorenni il quale deve tener conto del principio ispiratore della normativa sull'adozione (art. 1 legge adozione). La situazione denunciata pone in pericolo anche l'applicabilita' del principio stabilito dall'art. 30, secondo comma, della Costituzione, da leggersi in stretta connessione con l'art. 2 della Costituzione. Il sistema che risulta dalla connessione tra le norme costituzionali richiamate dimostra, in maniera difficilmente contestabile, che il vuoto legislativo porta ad un grave pregiudizio di interessi che godono di tutela assoluta nell'ordinamento. Non si vuole negare il principio della riserva di legge imposto dall'art. 108 della Costituzione. Vi e' invece la ricerca, all'interno dell'ordinamento e con gli strumenti posti dall'ordinamento, della soluzione che eviti il protrarsi di situazioni di oggettivo diniego di giustizia.