ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 1, capoverso ed ultima parte, del Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promossi con le seguenti ordinanze: 1) ordinanza emessa il 30 giugno 1993 dal Tribunale di Lucera sul ricorso proposto dalla S.p.A. Finanziaria Adriatica contro la s.n.c. Italmarket di D'Errico Giuseppe, iscritta al n. 664 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell'anno 1993; 2) ordinanza emessa il 15 settembre 1993, dal Tribunale di Teramo sulle istanze riunite proposte dalla s.a.s. Aranciata Gran Sasso ed altre contro la s.n.c. Bonomo Import, iscritta al n. 706 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell'anno 1993; Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nella camera di consiglio del 23 febbraio 1994 il Giudice relatore Francesco Guizzi; Ritenuto in fatto 1. - Nel corso del procedimento prefallimentare a carico della societa' in nome collettivo Italmarket di D'Errico Giuseppe, il Tribunale di Lucera, con ordinanza in data 30 giugno 1993, ha sollevato, in relazione agli artt. 3 e 24 e al combinato disposto degli artt. 2 e 3, della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, ultima parte, del Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui dispone che "in nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le societa' commerciali". Ha osservato il Tribunale: che la societa' debitrice era composta da due soli soci, il D'Errico e il coniuge; che l'attivita' commerciale, prettamente familiare, veniva svolta con l'esclusivo lavoro di entrambi i soci-coniugi e in un locale non di loro proprieta'; che gli introiti erano particolarmente modesti. La si potrebbe dunque ritenere "piccola impresa" se non vi ostasse il disposto dell'ultima parte dell'art. 1 del Regio decreto n. 267 del 1942: di qui, la questione di legittimita' costituzionale della norma anzidetta per violazione, ad avviso del tribunale rimettente degli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione, nonostante la sentenza n. 54 del 1991 di questa Corte. 2. - A seguito di questa ed altre pronunce, la nozione di "piccolo imprenditore" non avrebbe piu' un riferimento individuabile con precisione in una norma di legge. Sarebbe infatti necessario, ora, far riferimento al capitale investito, alle dimensioni dell'azienda, al numero dei lavoratori occupati, alla proprieta' dei mezzi di produzione e delle strutture aziendali, all'entita' dei finanziamenti bancari. Non reggerebbe piu', pertanto, l'attuale distinzione tra gli imprenditori individuali e quelli societari, e occorrerebbe prescindere dalla forma esteriore. Che, invece, sulla base di una presunzione di finalita' lucrativa per le imprese organizzate in forma societaria, mancherebbe di comprendere le societa' commerciali, nella nozione di "piccolo imprenditore", e cio' quand'anche le dimensioni si caratterizzino in misura oggettivamente limitata. La presunzione iuris et de iure secondo cui non vi sarebbe piccola impresa societaria in rapporto alla finalita' lucrativa risulterebbe in contrasto con il combinato disposto degli articoli 2 e 3 della Costituzione, perche' creerebbe una disparita' di trattamento irragionevole tra le imprese che, di fatto, sono piccoli imprenditori giusta la forma, individuale o societaria, assunta. Essa cagionerebbe, altresi', una indebita compressione dell'istituto societario, quale formazione sociale ove si svolge la personalita' dei singoli, non essendo siffatto istituto adeguatamente garantito sul piano sostanziale, e processuale, dalla presenza nell'ordinamento della norma impugnata. La disposizione sarebbe pure in contrasto con l'art. 24 della Costituzione, perche' violerebbe il diritto di difesa nello stabilire presuntivamente la non assimilabilita' delle piccole societa' commerciali alla nozione di "piccolo imprenditore", esonerato dal fallimento. Una tale presunzione iuris et de iure, non consentirebbe, infatti, alla societa' debitrice di dimostrare la sua sostanziale natura di piccola impresa commerciale i cui proventi non potrebbero essere assimilati ai profitti, ma unicamente alla remunerazione del lavoro dei soci e al corrispettivo delle spese sostenute. 3. - Con la sentenza n. 368 del 1991 e l'ordinanza n. 395 del 1991 la Corte costituzionale avrebbe sancito la sostanziale omologazione delle piccole societa' artigiane agli artigiani che esercitano l'attivita' in forma individuale. In tal modo questa Corte avrebbe riconosciuto la necessita' di verificare l'effettiva consistenza dell'impresa indipendentemente dalla sua struttura (individuale o societaria). Un analogo rilievo dovrebbe essere formulato, con riferimento alle piccole societa' commerciali, nell'ipotesi in cui queste, dalle emergenze processuali, risultino a tutti gli effetti, per le dimensioni e per i mezzi impiegati, come "piccola impresa". Assoggettandole alla procedura fallimentare, sarebbe percio' concreto il rischio di una mancata realizzazione delle finalita' di tutela degli interessi dei creditori (sent. n. 579 del 1989). 4. - Con ordinanza in data 15 settembre 1993 il Tribunale di Teramo, sulle istanze di fallimento proposte contro la societa' in nome collettivo Bonomo import di Giuseppe Bonomo e C. ha sollevato, per violazione dell'art. 3 della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, capoverso, del Regio decreto n. 267 del 1942. Ha osservato il Tribunale che sarebbe anacronistica, oggi, la presunzione della finalita' speculativa e di lucro, per ogni tipo e grandezza delle societa' commerciali, stante il ricorso, largamente diffuso, all'esercizio di attivita' imprenditoriale, in forma associata, per il profondo mutamento dell'economia rispetto agli anni Quaranta. Lo stesso legislatore, attraverso l'esonero dal fallimento delle societa' in nome collettivo di carattere artigianale, stabilito con la legge 8 agosto 1985, n. 443 (Legge-quadro per l'artigianato) avrebbe compiuto un primo passo in questa direzione; e un secondo passo sarebbe stato compiuto con la recentissima normativa di recepimento della direttiva CEE n. 677 del 1989: il decreto legislativo 3 marzo 1993, n. 88 (Attuazione della direttiva 89/667/CEE, in materia di diritto delle societa', relativa alla societa' a responsabilita' limitata con un unico socio) che avrebbe modificato il concetto di societa' al punto da consentire la costituzione, per atto unilaterale, di una societa' a responsabilita' limitata (unipersonale). Si' che sarebbe proprio l'assolutezza del principio oggetto della disposizione impugnata ("in nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le societa' commerciali") a porsi in contrasto con il principio di ragionevolezza, che si palesa - come nella specie - in presenza di una societa' in nome collettivo costituita non gia' con l'intento di perseguire finalita' speculative o di lucro, ma soltanto con l'esigenza di conseguire mezzi elementari di sostentamento, sopperendo attraverso la forma associativa all'insufficienza del capitale disponibile individualmente. Con la sua "funzione paralegislativa" e, dunque, mediante opportune statuizioni additive, la Corte costituzionale dovrebbe pertanto porre rimedio alla irrazionale disparita' di trattamento nell'esporre al fallimento un operatore commerciale se socio di una societa' in nome collettivo, anche di minime dimensioni, e non anche il socio unico di societa' a responsabilita' limitata, di qualunque dimensione. 5. - Per entrambi i giudizi e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'inammissibilita' e il rigetto della questione sollevata. Essa sarebbe inammissibile, perche' in nessun punto dell'ordinanza di rimessione si farebbe riferimento alla rilevanza e, in particolare, al nesso tra l'assunta illegittimita' della norma e i riflessi sul giudizio in corso. E sarebbe altresi' infondata in conseguenza di recentissime pronunce di inammissibilita' (ordd. nn. 374 e 11 del 1993). Quanto a quella, nuova, che fa riferimento all'art. 24 della Costituzione, sarebbe addirittura non intellegibile. Considerato in diritto 1. - Con distinte ordinanze di rimessione viene proposta, ancora una volta, la questione di costituzionalita' dell'art. 1, ultima parte, del Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), dove si stabilisce che "in nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le societa' commerciali". Nelle due ordinanze, la cui trattazione e' opportuno riunire, si sostiene l'illegittimita' della norma perche' in contrasto con: a) il combinato disposto degli articoli 2 e 3 della Costituzione, per l'irragionevole disparita' di trattamento tra piccoli imprenditori individuali e piccole societa' commerciali, da considerare a tutti gli effetti formazioni sociali aventi pari dignita' cui va assicurata la medesima tutela, in presenza delle stesse dimensioni fattuali; b) con l'art. 24 della Costituzione, per violazione del diritto di difesa, in quanto essa fisserebbe una presunzione iuris et de iure circa la non assimilabilita' delle piccole societa' commerciali alla nozione di "piccolo imprenditore"; c) con l'art. 3 della Costituzione, fonte del principio di ragionevolezza, sia perche' non escluderebbe dal fallimento le societa' personali di piccole dimensioni, caratterizzate non gia' dall'intento di perseguire fini di lucro ma dall'esigenza di conseguire i mezzi elementari di sostentamento, sopperendo, attraverso la forma associativa, all'insufficienza del capitale disponibile individualmente; sia perche' assoggetterebbe a diverse conseguenze il socio della societa' in nome collettivo (estensibile di fallimento) e il socio unico della societa' a responsabilita' limitata di qualsiasi dimensione, non assoggettabile al fallimento; d) con l'art. 3 della Costituzione, per la disparita' di trattamento tra le piccole societa' commerciali e le piccole societa' artigianali, in quanto a parita' di condizioni (e provata assenza di profitto) sarebbero escluse dal fallimento soltanto le seconde e non anche le prime. 2. - Con riguardo alla figura del piccolo imprenditore individuale, questa Corte ha gia' affermato e ribadito (rispettivamente con sent. n. 54 del 1991 e ord. n. 11 del 1993) l'inammissibilita' della questione di costituzionalita' sollevata per violazione all'art. 3 della Costituzione. Ne' l'indicazione di altri parametri costituzionali (l'art. 2 e l'art. 24 della Costituzione) sposta i termini del ragionamento gia' svolto da questa Corte, esulando del tutto la materia de qua da ogni serio riferimento ai valori da ultimo indicati. La questione sollevata soltanto dal Tribunale di Lucera e', dunque, manifestamente inammissibile. 3. - Le due ordinanze, tuttavia, ribadiscono (particolarmente quella del Tribunale di Teramo) il profilo della irragionevole disparita' di trattamento delle societa' commerciali di modeste dimensioni (per capitale sociale e forza lavoro impiegata, prevalentemente, se non esclusivamente, dai soci), gia' in generale confutato dalla sentenza n. 54 del 1991 in relazione al tertium comparationis delle societa' artigianali come disciplinate dalla legge 8 agosto 1985, n. 443. Tale diversita' di regolamentazione risulterebbe oggi ancor piu' stridente in considerazione della non assoggettabilita' al fallimento del socio unico di una societa' a responsabilita' limitata (per effetto del decreto legislativo 3 marzo 1993, n. 88, attuativo della direttiva 89/667/CEE). 4. - La questione non e' fondata. La disciplina dell'impresa artigiana, infatti, costituisce oggetto di un complesso di valutazioni, e disposizioni legislative non limitabili esclusivamente al problema dell'assoggettabilita' al fallimento (peraltro variamente risolto dalla giurisprudenza di merito, proprio con riferimento alla particolare figura dell'impresa artigiana costituita nelle forme societarie consentite dall'art. 3, secondo comma, della legge n. 443 del 1985). Ridurre il problema di questo sottotipo di impresa artigiana, come fanno le ordinanze di rimessione, al nodo, pur non trascurabile, della loro assoggettabilita' (o meno) al fallimento, per dedurne, in base al presunto privilegio loro attribuito, l'irrazionalita' della differente disciplina riservata alle imprese-societa' non artigianali e' certamente operazione ne' logica ne' corretta. L'avere la legge istituito, in vista di alcuni benefici, un albo delle imprese artigiane dove possono iscriversi anche quelle costituite nelle forme societarie consentite; l'aver fissato precisi limiti dimensionali; l'aver stabilito un procedimento amministrativo con organi pubblici preposti alla vigilanza circa il possesso dei requisiti richiesti per l'iscrizione nell'albo, dimostra la diversita' normativa tra le due realta' giuridiche che invece si vorrebbe comparare ed assimilare. Diversita' ribadita dalle recenti disposizioni contenute nella legge 29 dicembre 1993, n. 580 - recanti norme per il riordinamento delle Camere di Commercio - che hanno previsto l'istituzione del registro delle imprese e contemplato l'iscrizione, fra gli altri, degli imprenditori artigiani in una sezione speciale. Dando il particolare rilievo di meritevolezza all'artigianato, qual e' desumibile dagli artt. 45, secondo comma e 117 della Costituzione. La questione va, pertanto, dichiarata non fondata.