IL GIUDICE DELL'UDIENZA PRELIMINARE
    Vista la richiesta di rito abbreviato  formulata  dall'avv.  Carlo
 Fabbri, procuratore speciale dell'imputato Giuseppe Croce Benvenuto;
    Sentito  il  p.m. che ha prestato il suo consenso, sul rilievo che
 la qualita' di collaboratore di giustizia assunta dall'imputato rende
 il reato di cui al capo a) (omicidio premeditato in danno  del  dott.
 Livatino)  punibile  con  pena  detentiva temporanea, e cio' ai sensi
 dell'art. 8 della legge 12 luglio 1991, n. 203 e che il  procedimento
 e' decisibile allo stato degli atti;
    Vista  la  nota,  datata 5 luglio 1994, con cui il p.m. ha chiesto
 integrarsi i capi di imputazione di cui alla lettera A) ad  L)  della
 richiesta  di  rinvio  a giudizio con l'inciso "per il solo Benvenuto
 con l'attenuante di cui all'art. 8 della legge n. 203/1991";
    Vista la memoria depositata dal p.m. in data 7 luglio 1994, con la
 quale,  in  via  subordinata,  e'  stata   sollevata   questione   di
 legittimita'   costituzionale   e   sciogliendo  la  riserva  assunta
 all'udienza del 27 giugno 1994;
                             O S S E R V A
    La  Corte  costituzionale, con sentenza n. 176 del 23 aprile 1991,
 ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale, per eccesso di delega,
 dell'art.  442,  secondo  comma,  del  c.p.p.,  nella  parte  in  cui
 prevedeva  che  potesse accedersi a rito abbreviato anche per i reati
 punibili con l'ergastolo.
    Successivamente, le sezioni unite della Cassazione,  con  sentenza
 del  6 marzo 1992 (depositata 17 marzo 1992, Piccillo ed altro) hanno
 ulteriormente  puntualizzato  che,  sulla  scorta  della  complessiva
 valutazione  della motivazione e del dispositivo della sentenza della
 Corte costituzionale n. 176/1991,  appariva  inequivoca  la  volonta'
 della  Corte  di  subordinare  la ammissibilita' del rito alla natura
 (temporanea o  non)  della  pena  applicabile  in  via  astratta,  da
 determinarsi  sulla  scorta  della  mera  imputazione enunciata nella
 richiesta di rinvio a giudizio  e  cio'  anche  allorche'  il  g.u.p.
 ritenesse  che,  in  concreto,  dovesse  essere  applicata  una  pena
 detentiva temporanea.
    Hanno, inoltre, precisato i giudici  di  legittimita'  che,  nella
 ipotesi  in  cui  all'imputato  e'  attribuito  un reato punibile con
 l'ergastolo, il g.u.p.  e'  privo  della  competenza  a  definire  il
 processo con le forme di cui agli artt. 441 e 442 del c.p.p.
    Ancora  piu'  recentemente, la Corte costituzionale, con ordinanza
 n.  48  del   7   febbraio   1992,   ha   dichiarato   la   manifesta
 inammissibilita'    di   un'ulteriore   questione   di   legittimita'
 costituzionale sollevata in relazione  al  giudizio  abbreviato,  sul
 rilievo che era stato contestato un delitto per il quale era prevista
 la  pena  dell'ergastolo  e  che,  di  conseguenza, per effetto della
 sentenza n. 176/1991, il giudizio abbreviato risultava inapplicabile,
 ribadendo, inoltre, il principio che il  g.u.p.  dovesse  avere  come
 parametro  di  riferimento  la  pena edittale irrogabile in astratto,
 avuto riguardo all'imputazione formulata.
    Da ultimo, infine, la Corte  regolatrice,  conla  sentenza  del  7
 luglio  1993,  n.  305,  ha  dichiarato  non  fondata la questione di
 legittimita' costituzionale degli artt. 438 e seg. del c.p.p.,  nella
 parte in cui "non consentono al g.u.p. di sindacare l'imputazione del
 p.m.,  escludendo  circostanze  aggravanti insussistenti o, comunque,
 diversamente qualificando il fatto-reato ai fini della ammissione del
 giudizio abbreviato richiesto dall'imputato cui sia stato  contestato
 un reato punibile con la pena dell'ergastolo".
    Chiarisce  la  Corte, in motivazione e richiamando suoi precedenti
 (cfr. sentenze nn. 23/1992 e  81/1991),  che  il  codice  circoscrive
 nettamente  i  poteri  del  g.u.p.  in  ordine alla richiesta di rito
 abbreviato, limitandoli ai soli aspetti formali con  la  precisazione
 (cfr.  anche ordinanza n. 163/1992) che, in tale fase, e' suo compito
 esclusivamente verificare la decidibilita' allo stato degli atti e la
 sussistenza dei presupposti e cioe' che vi sia la  rituale  richiesta
 dell'imputato,  il  consenso  del  p.m.  e che non si tratta di reato
 punibile, in astratto, con l'ergastolo.
    Se, dunque, al g.u.p. e' precluso, ai fini dell'ammissibilita' del
 rito  abbreviato,   qualsiasi   sindacato   sulla   esattezza   della
 contestazione  di  reato  formulata  dal  p.m.,  e  cio' anche quando
 risulti ictu oculi l'insussistenza di un'aggravante che determina  la
 punibilita'  con  l'ergastolo  (cfr.  sentenza  citata  n. 305/1992),
 ritiene  questo  decidente  che  il principio debba valere, a maggior
 ragione,  allorche'  si  tratti  di  delibare  sulla  ricorrenza   di
 un'attenuante che presuppone un giudizio di merito vero e proprio.
    E  nel  caso di specie, non e' revocabile, dubbio che l'art. 8 del
 d.l. n. 152/1991 configuri un'attenuante ad effetto  speciale  (art.
 63  del  c.p.) e cio' sia per il dato testuale della norma che per la
 intitolazione  "circostanze  aggravanti  ed  attenuanti   per   reati
 commessi .. ecc." del capo terzo del piu' volte citato d.l.
    Ma  se  si  tratta di circostanza del reato, essa, nel concorso di
 altre circostanze (come, nella specie, quella della  premeditazione),
 va  sottoposta  a giudizio di comparazione ex art. 69 del c.p. e tale
 giudizio  richiede  una  piena  valutazione  del  merito  della   res
 iudicanda   che   non   puo'  essere,  certamente,  ricompresa  nella
 delibazione che il g.u.p. compie ai  fini  della  decidibilita'  allo
 stato  degli  atti, atteso che trattasi, piuttosto, della espressione
 di un giudizio globale  sulla  personalita'  del  colpevole  e  sulla
 entita'  del  fatto-reato,  mirato a rendere la pena piu' adeguata al
 caso  concreto.  E  che  l'attenuante  in  questione   debba   essere
 sottoposta  a  giudizio  di  bilanciamento lo si ricava "a contrario"
 dall'art. 7, secondo comma, del citato d.l., laddove si esclude  che
 il  giudizio  di comparazione tra attenuanti diverse da quella di cui
 all'art. 98 del c.p. e l'aggravante  di  cui  all'art.  7  del  d.l.
 citato  (speculare  alla  attenuante  in  esame ma - si precisa - non
 contestata nel presente procedimento) possa condurre  a  ritenere  le
 prime  equivalenti o prevalenti sulla seconda. Ha ritenuto, dunque il
 legislatore di dovere solo in tale ipotesi, espressamente limitare  i
 poteri  conferiti  al  giudice dall'art. 69 del c.p., senza tuttavia,
 escludere  il  detto  giudizio  di  bilanciamento  ma  imponendo  una
 prevalenza   obbligatoria   dell'aggravante,  in  deroga  alle  norme
 generali.
    L'esposto  convincimento   appare   validamente   confortato   dai
 precedenti    giurisprudenziali   formatisi   sull'attenuante   della
 dissociazione e della collaborazione nei reati commessi  a  scopo  di
 terrorismo  o  di  eversione  ed  in quelli di sequestro di persona a
 scopo di estorsione. Va, in proposito, evidenziato che  il  confronto
 tra il testo normativo di dette attenuanti e quello di cui all'art. 8
 della  legge  n. 203/1991 in esame consente di fondatamente affermare
 che  quest'ultima  ripropone,  anche   sotto   l'aspetto   letterale-
 terminologico,  le  prime  e  presenta  anche  essa natura premiale e
 finalita' di incentivazione delle indagini come le precedenti.
    La giurisprudenza relativa a queste ultime puo',  pertanto  ed  in
 assenza di pronunce piu' recenti, essere analogicamente applicata ala
 attenuante   in  esame.  Ed  allora,  non  puo'  ignorarsi  che,  con
 riferimento alle prime si e' piu' volte affermato  (cfr.  Cassazione,
 sezione  prima, 25 gennaio 1985, Fasoli; Cassazione, sezione prima, 4
 settembre 1984, Goffetti; Cassazione 2 dicembre 1985, Zizi) che  esse
 non si sottraggono al giudizio di bilanciamento.
    Non  si vede, dunque, quali ragioni potrebbero indurre, in assenza
 di espressa deroga  legislativa,  a  sottrarre  l'attenuante  di  cui
 all'art.  8  della  legge  n.  203/1991  alla regolamentazione di cui
 all'art. 69 del c.p.
    Le argomentazioni sin qui'  esposte  non  appaiano  ad  avviso  di
 questo  decidente,  superabili nemmeno alla luce della "integrazione"
 dei capi di imputazione effettuata dal p.m. in data 5 luglio 1994 con
 l'inserimento - in sede di contestazione -  per  il  Benvenuto  della
 attenuante  di  cui all'art. 8 della legge n. 203/1991. A prescindere
 da  ogni  considerazione  sulla  peculiarita'  di  siffatto  modo  di
 procedere,  quasi  che  al  giudice  fosse  precluso  ogni  potere di
 valutazione sulla  reale  concedibilita'  di  detta  circostanza,  si
 osserva  che  la  Corte  di  Cassazione  (Cassazione  12 maggio 1992,
 Cipriano),  proprio  con  riferimento  ai  criteri  da  seguire   per
 stabilire se il reato contestato all'imputato sia o meno punibile con
 l'ergastolo e, conseguentemente se l'imputato possa o meno fruire del
 rito  abbreviato,  ha  statuito  che  "deve  farsi  riferimento  alla
 disposizione generale contenuta nell'art. 4 del c.p.p.", norma questa
 che esclude ogni incidenza delle attenuanti, quale che  sia  la  loro
 natura (cfr. Cassazione 8 novembre 1990, Filomeno).
    Il  riferimento al citato art. 4, che e' intitolato "Regole per la
 determinazione della competenza", appare vieppiu'  condivisibile  ove
 si  tenga  conto  che, come prima riferito, la stessa Corte suprema a
 sezioni unite (cfr. Cassazione  s.u.  6  marzo  1992  gia'  cit.)  ha
 ravvisato  proprio l'incompetenza del g.u.p. a definire, con le forme
 del  rito  abbreviato,  i  procedimenti  per   reati   punibili   con
 l'ergastolo.
    Essendosi,  dunque,  alla  luce  di  quanto  sin  qui  esposto, in
 presenza di un attenuante ad effetto speciale la cui ricorrenza,  per
 le  riferite  motivazioni,  puo' essere valutato solo ex post ai fini
 della irrogazione, in concreto,  della  pena  e  dovendo,  viceversa,
 l'ammissibilita'  del  rito abbreviato essere accertata sulla base di
 un giudizio ex ante, limitato  alla  imputazione  contestata  con  la
 richiesta  di rinvio a giudizio, (senza tener conto delle attenuanti,
 di qualsivoglia specie esse siano), ritiene questo  g.u.p.  che,  alo
 stato,  non  vi siano spazi - ne' legislativi ne' giurisprudenziali -
 per accedere alla richiesta dell'imputato.
    Per  inciso,  si  reputa  opportuno  sottolineare  che  e'   stato
 affermato in giurisprudenza che la limitazione dei poteri del g.u.p.,
 richiamata  in precedenza, non preclude all'imputato di recuperare il
 beneficio della riduzione della  pena,  atteso  che  "la  valutazione
 definitiva  in  ordine  ad essa spetta al giudice del dibattimento il
 che comporta, ovviamente, anche il potere di  controllo  su  tutti  i
 presupposti  che condizionano il beneficio della riduzione di pena e,
 fra questi, anche quello della punibilita' o meno del  fatto  con  la
 pena  dell'ergastolo"  (cfr.  Corte  costituzionale 7 luglio 1993, n.
 305; nn. 23/1992 e 81/1991).
    Con la memoria depositata il 7 luglio 1994, tuttavia, il p.m.  ha,
 in    via    subordinata,   sollevato   questione   di   legittimita'
 costituzionale  dell'art.  442,  secondo  comma,  del  c.p.p.,  cosi'
 argomentando:
    "Lo  scrivente  sollecita i poteri d'ufficio della S.V. al fine di
 ritenere non manifestatamente infondata la questione di  legittimita'
 costituzionale  dell'art. 442, secondo comma, del c.p.p., nella parte
 invece non prevede l'applicazione della circostanza attenuante  della
 collaborazione  ai  fini  della  deterninazione della pena in sede di
 ammissibilita' del giudizio abbreviato.  La  questione  e'  anzitutto
 ictu  oculi  rilevante.  Nel merito ne' a dirsi che l'interpretazione
 restrittiva dell'art. 442 del c.p.p.  integrato  dalla  pronuncia  n.
 176/1991 della Corte costituzionale lede il principio di cui all'art.
 3  della  Costituzione,  laddove  parifica  situazioni  profondamente
 disuguali,  vanificando  poi  il  diritto  premiale  che  ha  un  suo
 fondamento nell'art. 27 della Costituzione (laddove esso  scaturische
 indirettamente   dal   principio)  che  la  pena  deve  tendere  alla
 rieducazione del condannato e quindi nela determinazione in  astratto
 e  in  concreto  della pena irrogabile, il collaborante ha un diritto
 costituzionalmente garantito ad un trattamento differenziato) ed  in-
 fine  comprime in maniera irragionevole il diritto di difesa, ex art.
 25 della Costituzione, del collaborante (in quanto priva costui di un
 importante  strumento   della   difesa   tecnica   costituito   dalla
 definizione delle sue pendenze con il rito abbreviato anche in deroga
 alle  condizioni  ordinarie).  E'  appena  il caso di sottolineare da
 ultimo  il  principio  della  deroga  alle  regole  ordinarie   posto
 dall'art.  13-  ter  del  d.l.  15 gennaio 1991, n. 8, convertito in
 legge 15  marzo  1991,  n.  82,  sulla  concedibilita'  dei  benefici
 penitenziari  ai  collaboranti,  non  avrebbe  un  pendant  in ambito
 processual penalistico.
    Scaturisce conseguenzialmente un'altra questione  di  legittimita'
 costituzionale,  dell'art.  69,  primo  comma  del c.p. e dell'art. 8
 della legge n. 203/1991, ove si accedesse  all'interpretazione  della
 bilanciabilita'  della circostanza attenuante speciale, per escludere
 l'ammissibilita' del giudizio abbreviato, per contrasto con gli artt.
 3, 25 e 27 della Costituzione e per  le  stesse  ragioni  esposte  da
 ultimo nonche' per la considerazione che in questa ottica, che appare
 per   vero   e   come  si  e'  detto  del  tutto  superabile  in  via
 interpretativa, la potesta'  discrezionale  del  legislatore  sarebbe
 stata  usata  in  maniera  irragionevole  (con  ulteriore lesione del
 principio ex art. 3 della Costituzione).
    Tale richiesta subordinata  puo'  essere  accolta.  La  questione,
 invero,  non  appare  manifestamente  infondata,  avuto riguardo alla
 diversa prospettazione effettuata rispetto  alle  analoghe  questioni
 gia'   portate   all'esame   della  Corte  ed  alla  natura  premiale
 dell'attenuante in questione; essa e',  inoltre,  rilevante  ai  fini
 della  definizione  del  procedimento  relativo  al  Benvenuto la cui
 posizione appare decisibile allo stato degli atti. Cio'  comporta,  a
 mente  dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 23, la obbligatoria
 sospensione del procedimento in attesa della  decisione  della  Corte
 costituzionale.
    Trattandosi  di  questione  afferente  il solo Benvenuto e che non
 interferisce con  la  posizione  degli  altri  imputati,  va  inoltre
 disposta,  ai  sensi dell'art. 18, primo comma, lett. b), del c.p.p.,
 la separazione della posizione processuale del Benvenuto  medesimo  e
 la formazione di un autonomo fascicolo processuale.