IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE
    Ha pronunciato la seguente  ordinanza  nel  giudizio  promosso  da
 Ciofani  Florindo; difesa costituita: avv. Carmine Ciofani; domicilio
 di giudizio in Pescara: presso il citato legale in via Conte di  Ruvo
 n.  74,  contro  la u.l.s.s. n. 12 di Popoli; difesa costituita: avv.
 Donatella Boccabella domicilio di giudizio in Pescara: in via  Trento
 n.  138,  presso lo studio dell'avv. Vittoriano Spalletti, in punto a
 riconoscimento,  con  conseguenti   statuizioni   di   condanna   con
 incremento  per  la rivalutazione monetaria ed interessi, del diritto
 del ricorrente a percepire:
       a) per il periodo 7 aprile 1981-17 dicembre 1987, la differenza
 retributiva tra il trattamento economico di  coadiutore  sanitario  e
 quello di dirigente sanitario;
       b)  per il periodo 7 agosto 1987-17 marzo 1988, l'indennita' di
 partecipazione   all'ufficio   di   direzione   nella   qualita'   di
 responsabile del servizio veterinario;
    Visto  il  ricorso  notificato  in  data  11-13  novembre  1989  e
 depositato in data 30 s.m.;
    Visti gli atti difensivi in resistenza;
    Visti i documenti agli atti;
    Udito il relatore designato;
    Uditi, all'udienza del giorno 4 novembre 1993, gli avv.ti: Carmine
 Ciofani per il ricorrente; Ugo Di Silvestre, quale delegato dell'avv.
 Donatella Boccabella, per la u.l.s.s. di Popoli;
                               F A T T O
    Il dott. Florindo Ciofani, dipendente della u.l.s.s. intimata  con
 l'attuale  qualifica  apicale  di  dirigente del servizio veterinario
 conseguita a seguito di concorso "come da provvedimento regionale  26
 novembre  1987, n. 6479, recepito dalla struttura di appartenenza con
 delibera 17 dicembre 1987, n. 1734, ha adito l'intestata  sezione  di
 tribunale  amministrativo  per  ottenere - sulla premessa che, quando
 rivestiva la qualifica di coadiutore  sanitario,  "alle  funzioni  di
 dirigente  del servizio veterinario fu chiamato in data 7 aprile 1981
 con delibera di comitato di gestione n. 263 controllata  in  data  28
 maggio  1981"  -  una  pronuncia  di  accertamento,  con  conseguenti
 statuizioni di condanna, come meglio specificato in epigrafe.
    A  supporto  delle  domande sottomesse il predetto ha precisato di
 aver  inutilmente  diffidato  la  u.l.s.s.  intimata   a   provvedere
 all'erogazione  di  quanto pretende per sorte capitale con esclusione
 del periodo di cui al  secondo  comma  dell'art.  29  del  d.P.R.  n.
 761/1979  ed  ha  invocato  la sentenza della Corte costituzionale n.
 57/1989, gli artt. 15 e 47 della lege n. 833/1978, 8 e 78 del  d.P.R.
 n.  761/1979, 30 della legge della regione Abruzzo n. 10/1980 nonche'
 fatto riferimento a precedenti giurisprudenziali.
    La  u.l.s.s.  intimata  resiste  affermando  che  le  pretese  che
 traggono  supporto  dallo  svolgimento di funzioni superiori a quelle
 della  qualifica  rivestita  sarebbero  infondate  alla  stregua  del
 disposto  dell'art.  29 del d.P.R. n. 761/1979 dal quale deriverebbe,
 in relazione alla fattispecie concreta, che il  relativo  svolgimento
 rientrerebbe  nei  compiti  di  sostituzione  propri  della qualifica
 all'epoca rivestita dal ricorrente ed ha,  preliminarmente,  eccepito
 che  le  pretese  stesse  sarebbero  comunque  inammissibili  perche'
 tardivamente avanzate  in  relazione  al  silenzio-rifiuto  formatosi
 sulla  diffida  a  suo  tempo notificata da parte avversa e/o perche'
 l'amministrazione, con delibera di comitato di gestione  14  dicembre
 1989, n. 2439, ha provveduto ad attribuire a controparte l'indennita'
 di direzione rivendiata.
                             D I R I T T O
    1.  -  Per  restare  a  quella  prima delibazione cui e' opportuno
 mantenersi (Corte costituzionale, sentenza 30 marzo 1992, n. 166)  in
 sede  di  rimessione  di  questioni  alla Corte costituzionale sembra
 sufficiente osservare, onde  assicurare  al  contempo  il  vaglio  di
 rilevanza  giusto  quanto  richiesto (Ord. Corte costituzionale 14-26
 gennaio 194, n. 6 in Gazzetta Ufficiale serie Corte costituzionale  2
 febbraio  1994,  n.  6)  dall'art.  23, secondo comma, della legge n.
 87/1957, che quanto meno la pretesa del ricorrente alla  retribuzione
 di  base per mansioni superiori, che non soggiace (a.p. n. 25/1979) a
 termini  di  decadenza  siccome  integrante  (in   ipotesi)   diritto
 patrimoniale,  appare  definibile,  per  effetto  del richiamo di cui
 all'art. 2129 del c.c., sulla base del disposto di cui all'art.  2126
 del  codice stesso norma quest'ultima che ha gia' formato oggetto, da
 parte dell'intestata sezione, di  rinvii  alla  Corte  costituzionale
 presso la quale tuttavia questi non hanno, volta a volta, avuto esito
 positivo:
       a)  in  quanto (ordinanza 7-23 luglio 1993, n. 377: in Gazzetta
 Ufficiale serie Corte costituzionale 18  agosto  1993,  n.  34),  gli
 inconvenienti   dai   quali,  tra  l'altro,  la  relativa  remissione
 argomentava    integravano    abusi    comportanti    responsabilita'
 disciplinare e/o patrimoniale quando non anche responsabilita' penale
 caso  quest'ultimo che, oltretutto, avrebbe comportato, in ipotesi di
 partecipazione     dell'impiegato     al      disegno      criminoso,
 l'inapplicabilita' della norma rinviata;
       b) in quanto la norma rinviata non opera per virtu' propria nel
 settore  del  pubblico  impiego  sibbene  in  forza del rinvio di cui
 all'art. 2129 del c.c. sicche', in definitiva, sussisteva  un  errore
 di  identificazione  della norma da rimettersi (in ipotesi) al vaglio
 ed in quanto  la  questione  appariva  rimessa  "in  astratto"  senza
 verifica  della  pregiudizialita'  ai fini del giudizio principale in
 seno al quale era stata sollevata (ordinanza 14-26 gennaio  1994,  n.
 12 (in Gazzetta Ufficiale serie Corte costituzionale 2 febbraio 1994,
 n. 6).
   Premesso  quanto  sopra,  osserva a se stesso il collegio anzitutto
 che,  indubbiamente  ma  necessariamente,  l'ordinanza  della   Corte
 costituzionale  di  cui  sub  b,  nella parte in cui tra supporto dal
 mancato riferimento all'art. 2129 del c.c., coglie una  "smagliatura"
 di  quella  corrispondente  di  rimessione  (di cui l'estensore della
 presente  ordinanza,  che  e'  anche   estensore   della   precedente
 rimessione  di  cui  trattasi,  si  rammarica con disappunto verso se
 stesso) ma non definisce la problematica gia' sottomessa sicche' essa
 appare, giustificatamente dal  punto  di  vista  logico,  reiterabile
 senza necessita' di osservazioni per il punto.
    In  via ulteriore il collegio osserva ancora che l'ordinanza della
 Corte costituzionale di cui sopra sub-b - nella parte (afferente alla
 rilevanza della questione nel giudizio dal quale traeva occasione) in
 cui ha osservato che la questione  sembrava  posta  "in  astratto"  -
 ovviamente  non  reca,  neppure  essa,  elementi conferenti nel senso
 della necessaria  definizione  negativa,  in  ogni  fattispecie,  dei
 problemi  di  legittimita'  sottoposti  sicche'  la problematica gia'
 sottomessa anche per tale via appare  reiterabile,  giustificatamente
 dal  punto  di  vista logico, senza necessita' di osservazioni per il
 punto.
    2. - Premesso quanto al paragrafo precedente il collegio,  che  e'
 convinto che il problema meriti approfondimento, ritiene di rimettere
 nuovamente  alla  Corte  di  suprema legittimita' la parte delle gia'
 sollevate questioni pertinente al  giudizio  in  epigrafe.  Cio'  sul
 rilievo  che, a proprio avviso, i sospetti di incostituzionalita' (di
 cui infra) che si rilevano in relazione alle  possibilita'  di  abusi
 che  l'applicazione  dell'art.  2126 del c.c. nel settore di pubblico
 impiego apre non sembrano superabili con  l'osservazione  che  questi
 trovano    sanzione    nella    responsabilita'   (disciplinare   e/o
 patrimoniale) di chi li ponga in essere e/o con l'osservazione che la
 norma e' inapplicabile quando l'abuso integri  un  disegno  criminoso
 con  la  partecipazione dell'impiegato: al proposito sembra invero di
 poter ritenere che l'art. 97  della  Costituzione,  almeno  a  quella
 delibazione  che  e' consentita in sede di rimessione alla competente
 Corte, sia interpretabile  nel  senso  che  esige  che  la  normativa
 afferente   all'organizzazione   dell'amministrazione   sia  tale  da
 assicurarne, logicamente nei limiti del possibile, la correttezza  ed
 imparzialita'   dell'azione   gia'  in  via  preventiva  (sicche'  il
 successivo momento sanzionatorio e/o dirimente non dovrebbe risultare
 risolutivo per la definizione della problematica di cui trattasi).
    Neppure  pare  al  collegio  che  la  sollevanda  problematica  di
 legittimita'  possa  essere ritenuta irrilevante sulla considerazione
 che in fattispecie concreta ben potrebbe  essere  che  non  ricorrano
 estremi  per  individuare  l'effettiva  ricorrenza di abusi dalla cui
 possibilita' si argomenta e cio' perche' pare ovvio ritenere,  sempre
 a  quella prima delibazione pertinente a questa sede, che, dato anche
 il fine perseguito dal legislatore con l'art. 97 della  Costituzione,
 la  costituzionalita' vada necessariamente saggiata in astratto prima
 di  farne  applicazione  indipendentemente  dai   "connotati"   della
 fattispecie  concreta:  se  una  norma non ha diritto di cittadinanza
 nell'ordinamento deve essere espunta dallo stesso e,  dovendo  essere
 espunta,  non  dovrebbe,  come non potra' per il futuro in ipotesi di
 affermata incostituzionalita', trovare applicazione nei casi concreti
 ancorche'  negli  stessi  non  ricorrano  effettivamente  le  ragioni
 dell'espunzione perche', diversamente opinando, pare potersi ritenere
 che si oblitererebbe, in carenza di legittime esigenze discriminanti,
 l'art. 3 della Costituzione in danno  dei  litiganti  successivamente
 alla declaratoria di incostituzionalita'.
    Conseguentemente si sottopone questione di costituzionalita' degli
 artt.  2126  e 2129 del c.c., in combinato tra loro e/o singolarmente
 considerati, nei termini di cui al paragrafo che segue.
    3.  -  Come  anticipato  ritiene  il  collegio  di   sottomettere,
 d'ufficio,   alla  Corte  costituzionale,  siccome  rilevante  e  non
 manifestamente infondata, questione di costituzionalita' degli  artt.
 2126 e 2129 del c.c. nei termini seguenti sul preliminare rilievo che
 tale  normativa ordinaria non reca condizioni e/o limiti (temporali o
 non) di operativita' in relazione alle fattispecie concrete.
    Pare al collegio che, proprio perche' carente  di  condizioni  e/o
 limiti di operativita', la citata normativa ordinaria possa risultare
 in  antinomia  con  l'art.  97 della Costituzione anzitutto in quanto
 apre, sia pure atrattamente, la strada agli avanzamenti  di  carriera
 di  fatto  o  all'anticipazione  di eventuali avanzamenti di diritto,
 fenomeno che sembra  potersi  opinare  che,  tra  l'altro,  la  norma
 costituzionale  teste'  richiamata  intenda che sia prevenuto gia' in
 astratto laddove impone  al  legislatore  ordinario  di  disciplinare
 l'organizzazione  degli uffici (da considerarsi in senso lato perche'
 pare riduttiva, al punto  da  rendere  irrilevante  la  disposizione,
 un'interpretazione     che    riferisca    il    precetto    soltanto
 all'organizzazione intesa  quale  struttura  dell'amministrazione  in
 senso  materiale  cioe'  piante  organiche,  competenze degli uffici,
 ecc.)  secondo  criteri  che  ne  assicurino  il  buon  andamento   e
 l'imparzialita'.
    Puo' ritenersi invero, perche' non si vede un fondamento letterale
 e/o   logico   all'assunto   contrario,   che,   per  quanto  attiene
 all'imparzialita',essa      debba       caratterizzare       l'azione
 dell'amministrazione  non  solo nei confronti di coloro che, rispetto
 al suo apparato, risultano terzi in assoluto ma anche  nei  confronti
 di   coloro   che  ne  sono  destinatari  come  soggetti  incardinati
 nell'apparato stesso tuttavia e  pur  sempre  portatori  di  distinti
 interessi personali di carriera e/o retributivi.
    Per  contro  la  conseguibilita'  incondizionata  e/o senza limiti
 (temporali almeno) del diritto alla percezione della retribuzione per
 mansioni   superiori   non   pare   assicurare   gia'   in   astratto
 l'imparzialita'   dell'azione   della  pubblica  amministrazione  nei
 confronti dei propri impiegati lasciando aperto lo spazio a nepotismi
 elusivi tanto intuibili che sarebbe fuor d'opera esemplificare.
    In secondo luogo pare che, anche  quando  il  conseguimento  della
 superiore  retribuzione  nei  termini  di  cui  s'e'  detto non fosse
 riconducibile nei casi concreti a  nepotismi  sibbene  e  soltanto  a
 trascuratezza   nel   provvedere,  sta  di  fatto  che  la  ricordata
 applicazione di norme ordinarie  si  risolve  in  uno  strumento  che
 sostanzia,  altresi'  e  per  altro  verso  ancora,  un'antinomia con
 l'indirizzo al buon andamento dell'attivita'  amministrativa  che  la
 normativa   ordinaria   sull'organizzazione   degli  uffici  dovrebbe
 assicurare, anche questo gia' in astratto ed  ovviamente  per  quanto
 possibile, secondo l'art. 97 della Costituzione.
    Ed   infatti,   consentendosi   incondizionatamente  e/o  a  tempo
 indeterminato la retribuzione delle mansioni superiori a  coloro  che
 di  fatto  le  vengano  a  svolgere  per  una  qualsiasi  circostanza
 contingente, non si assicura certo  (si  consideri,  ad  esempio,  lo
 svolgimento  delle  funzioni  superiori  in carenza di requisiti) una
 qualificata erogazione della spesa pubblica  e  neppure  si  assicura
 l'adeguatezza  professionale  della  struttura pubblica cui la stessa
 deve tendere.
    In ulteriore luogo deve osservarsi che non e' poi  men  vero  che,
 stante  la  soggezione  di  chi perviene di fatto allo svolgimento di
 mansioni e/o funzioni superiori alle determinazioni degli organi  che
 hanno  il  potere  di  far  cessare  le  condizioni di applicabilita'
 dell'art.  2126  del  c.c.,  la  normativa  ordinaria  ricordata   e'
 suscettibile  di risolversi in un "grimaldello" idoneo ad asservire a
 privati interessi distorti il pubblico dipendente  che,  per  contro,
 deve,  proprio  per  corrispondere  al  disposto  dell'art.  97 della
 Costituzione, essere al servizio  esclusivo  della  Nazione  (secondo
 quanto specifica il suo successivo art. 98).
    Certamente  l'art.  36 della Costituzione impone di riconoscere al
 lavoratore il corrispettivo della sua attivita'  in  misura  adeguata
 alla  quantita' e qualita' della stessa, ma apre al collegio che tale
 norma della Costituzione debba essere letta  facendone  coordinamento
 col successivo art. 97 che e' norma di pari livello formale.
    Benche'  l'art.  36  della  Costituzione  abbia  indubbiamente  un
 rilievo saliente ricollegabile com'e' al disposto del primo comma del
 precedente suo art. 1, non sembra infatti che il successivo  art.  97
 della  legge fondamentale dello Stato debba essere recessivo in grado
 assoluto ove si tengano presenti i condizionamenti potenziali che  si
 ricollegano  alle  carriere  di  fatto  (purtroppo  attualizzatisi, a
 quanto pare, in molti campi:  particolarmente  nel  settore  soggetto
 alla  pratica delle "nomine") e sui quali l'autorevolezza della Corte
 che  dovra'  decidere  dispensa  dal  diffondersi  sui  modi  in  cui
 l'asservimento puo' concretizzarsi.
    Se   la   Repubblica   e'  fondata  sul  lavoro  come  precisa  la
 Costituzione, e' pero' altrettanto vero che la  sua  esistenza  trova
 ragion  d'essere  in  ideali di correttezza ed efficienza dello Stato
 che fanno parte della coscienza sociale e che  costituiscono,  almeno
 in  teoria, logici antecedenti necessari di ogni Carta costituzionale
 e che, come tali, ne condizionano ogni lettura. E non e' men vero che
 l'art.  2126  del  c.c.  appare  concepito  per  la  protezione   del
 lavoratore  in  quanto  in  posizione sostanziale di sottomissione al
 datore di lavoro privato cosi' che la sua integrale ed incondizionata
 applicabilita' al  settore  del  pubblico  impiego  appare  eccedente
 rispetto  ai  fini  vuoi  per  le  garanzie che al pubblico impiegato
 competono nei confronti dell'amministrazione,  vuoi  proprio  perche'
 questa e' tenuta ad informare la sua azione ai canoni di cui all'art.
 97 della Costituzione.
    Conclusivamente   pare  che  gli  artt.  2126  e  2129  del  c.c.,
 considerati nella loro interazione e/o singolarmente, per le  ragioni
 esposte  possano  essere  allegati  a sospetti di incostituzionalita'
 nella parte in cui non recano condizioni e/o limiti  di  operativita'
 nel  settore  dalla  pubblica  amministrazione  e  che,  ove  non sia
 possibile emendarli per il punto con una  sentenza  in  qualche  modo
 additiva,  ricorrano serii, molteplici e consistenti motivi per darsi
 carico  di  stabilire  se  ricorrano  le  condizioni  per dichiararne
 l'incostituzionalita' per il settore dell'impiego pubblico.
    4. - Pare al collegio che nell'altro  sia  da  aggiungere  perche'
 l'autorevolezza   della   Corte  che  dovra'  decidere  dispensa  dal
 diffondersi sulla fallacia di talune argomentazioni  "metagiuridiche"
 (quali il parallelismo con l'efficenza e la produttivita' del settore
 privato  per  giustificare il mezzo col fine) che solitamente vengono
 addotte per  supportare  l'applicazione  della  normativa  che  viene
 rinviata  ed  autorizza  a limitarsi ad un richiamo in proposito (nei
 limiti del
 consentito: cioe' in funzione di  "collaborazione  bibliografica")  a
 quanto osservato (relativamente allo specifico problema: ultimi dieci
 capoverso della motivazione) ad anticipata confutazione nella propria
 precedente ordinanza di rimessione (in Gazzetta Ufficiale n. 39/1993,
 della   pertinente   1a   serie   speciale)   afferente  al  giudizio
 Lizza/u.l.s.s. di Pescara con l'ulteriore  osservazione  che,  quando
 sia  richiesta  una specifica idoneita' per l'attribuzione stabile di
 determinate funzioni come  nel  caso  dei  medici  con  qualifica  di
 primario, il possesso dell'idoneita' stessa sembra essere non solo un
 requisito   necessario   all'inquadramento   ma   anche  un  elemento
 intrinseco (per previsione del legislatore)  relativo  alla  qualita'
 del lavoro.