IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA
    Ha pronunciato la seguente ordinanza.
    Sciogliendo  la  riserva  di  decidere espressa all'udienza del 13
 ottobre 1994 nel procedimento  di  sorveglianza  promosso  da  Corrao
 Antonino,  nato  a  Palermo  il 27 gennaio 1964, ivi residente in via
 Alagna Giacomo, 2/d,  con  istanze  dirette  ad  ottenere  il  rinvio
 obbligatorio  o  il rinvio facoltativo dell'esecuzione della pena, ai
 sensi degli artt. 146 e 147 c.p.
                           RITENUTO IN FATTO
    I Corrao, affetto  da  A.I.D.S.  conclamata  (cfr.  documentazione
 sanitaria  in atti), deve espiare le pene di anno 1 e mesi 10, anni 2
 e mese 1 e anni 4 e mesi 2 di reclusione di cui alle sentenze 3 marzo
 1986, 8 ottobre 1987 e  30  giugno  1989  dalla  corte  d'appello  di
 Palermo,  per  violazioni  della legge sugli stupefacenti, nonche' la
 pena di anni 2 di reclusione di cui alla sentenza 14 luglio 1994  del
 g.i.p. c/o il tribunale di Palermo, per il reato di rapina aggravata,
 pene  la  cui esecuzione e' in atto provvisoriamente sospesa in forza
 di provvedimenti interinali del magistrato di sorveglianza di Palermo
 del 30 luglio 1994 e del 10 ottobre 1994 adottati ai sensi  dell'art.
 684 c.p.p.
    Il  predetto  Corrao, in ragione del riscontrato stato di A.I.D.S.
 conclamata,  ha  ottenuto  con  ordinanza  del  22  luglio  1993  del
 tribunale   di  sorveglianza  di  Palermo  il  beneficio  del  rinvio
 dell'esecuzione della pena ai sensi dell'art. 146, primo comma  n.  3
 c.p.,  per  il  periodo di anno 1, e lo stesso soggetto, durante tale
 periodo di sospensione, si e' reso responsabile del reato  di  rapina
 aggravata  in data 6 agosto 1993 (cfr. citata sentenza 14 luglio 1994
 g.i.p. Palermo).
    Alla luce del grave e recidivante curriculum criminale del  Corrao
 (lo stesso e' incorso negli specifici delitti di detenzione e spaccio
 di  stupefacenti  in  data  10  novembre  1985,  8  ottobre 1987 e 14
 settembre 1988 cfr. certificato penale e citate sentenze di  condanna
 in atti), ed in particolare, in considerazione della recente ricaduta
 -  nonostante lo stato di malattia ed il beneficio applicatogli - nel
 grave delitto di rapina  sopraindicato,  devesi  formulare  nei  suoi
 confronti  un giudizio di elevata pericolosita' sociale, il cui grado
 attuale  esige,  ai   fini   di   un   suo   adeguato   contenimento,
 l'applicazione di una misura detentiva:
                        CONSIDERATO IN DIRITTO
    L'istanza  di  rinvio  obbligatorio  della pena ai sensi dell'art.
 146, n. 3, c.p.  deve  essere  trattata  per  prima,  stante  il  suo
 carattere  assorbente  ed  il  suo  rapporto  di  precedenza  logico-
 giuridica, rispetto all'altra istanza di rinvio facoltativo  ex  art.
 147, n. 2, c.p.
    Ai  fini  del  presente  giudizio,  si  appalesa  rilevante  e non
 manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
 dell'art. 146, primo comma, n. 3, c.p., in relazione agli artt. 2, 3,
 27, primo e terzo comma, e 32, della Costituzione.
    Si  deve,  anzitutto, considerare che la Corte costituzionale, con
 sentenze 21 febbraio-3 marzo 1994, n. 70, e 6-15 luglio 1994, n. 308,
 ha affermato che il bene tutelato dalla norma di  cui  all'art.  146,
 primo  comma,  n. 3, c.p. e' costituito dalla salute collettiva nello
 specifico contesto carcerario.
    La modalita' di tutela di tale bene prevista  dall'art.  146  c.p.
 consiste  nella  decarcerizzazione del condannato affetto da A.I.D.S.
 conclamata o da  grave  immunodeficienza,  attraverso  il  meccanismo
 della sospensione obbligatoria dell'esecuzione della pena detentiva.
    Se,  quindi,  il  bene  tutelato  dall'art. 146, n. 3, c.p. non e'
 tanto la salute individuale del condannato, bensi' appunto la  salute
 collettiva  nel  particolare  consorzio  carcerario e se la tutela di
 essa si  realizza  attraverso  l'allontanamento  del  condannato  dal
 carcere,  cio'  non  puo'  voler  dire  altro  se non che la fonte di
 pericolo alla salute collettiva carceraria e' costituita proprio  dal
 malato  di  A.I.D.S.  e che tale pericolo non puo' che consistere nel
 rischio di contagio ai danni delle altre persone presenti nella  sede
 carceraria,  ossia,  principalmente, il personale penitenziario e gli
 altri detenuti, che  cosi'  assurgono  al  rango  di  veri  e  propri
 beneficiari della denunziata norma.
    Alla  luce di tali prime considerazioni, emerge gia' un profilo di
 irragionevolezza della norma in esame, giacche', se lo scopo di  essa
 e' quello di tutelare la salute collettiva nelle carceri, evitando il
 rischio  di contagio, tale scopo dovevasi perseguire non soltanto con
 riferimento ai malati di A.I.D.S. conclamata, che costituiscono,  tra
 l'altro  una  esigua  minoranza,  bensi'  nei  riguardi  di  tutti  i
 condannati sieropositivi di numero assai maggiore,  essendo  evidente
 che e' dalla sieropositivita' che dipende il rischio del contagio del
 virus H.I.V. e non certo dallo stadio della malattia o dal numero dei
 linfociti.
    La  disfunzionalita'  della  norma  denunziata  rispetto  al  fine
 perseguito acquista un particolare rilievo, ove  si  considerino  gli
 altri    interessi,   costituzionalmente   rilevanti,   coinvolti   e
 irragionevolmente   sacrificati   nella   fattispecie    disciplinata
 dall'art. 146, n. 3, c.p.
    Invero,  nella  vicenda  dell'esecuzione  della pena detentiva nei
 confronti dei condannati affetti da A.I.D.S. conclamata  o  da  grave
 immunodeficienza,  oltre  al  bene della salute collettiva carceraria
 tutelato dall'art.  146  (bene  che  non  trova  una  privilegiata  e
 specifica tutela costituzionale, onde la sua rilevanza costituzionale
 puo'  ricavarsi  soltanto dalla tutela del bene generale della salute
 collettiva previsto dall'art. 32 Cost., essendo, come  e'  ovvio,  il
 consorzio carcerario parte integrante del generale consorzio civile),
 altri beni di elevatissimo rango costituzionale entrano in giuoco.
    Prima  di  individuare tali beni e di argomentare l'illegittimita'
 costituzionale del loro sacrificio nella previsione dell'art. 146, n.
 3,  c.p.,  occorre  premettere  alcune  osservazioni   di   carattere
 generale.
    Secondo  l'insegnamento  della  Corte costituzionale consacrato in
 numerose sentenze, il legislatore ordinario, nell'esercizio  del  suo
 potere  discrezionale  di  dettare  norme  che  incidono su interessi
 costituzionalmente rilevanti, tra loro in rapporto di  concorrenza  o
 di confliggenza, incontra limiti di ordine costituzionale.
    In  via generale, il bilanciamento degli interessi coinvolti ed il
 sacrificio di alcuni di essi, in favore  di  altri,  soggiacciono  al
 limite  della  ragionevolezza  della scelta legislativa, nel senso di
 una non arbitraria e non ingiustificata composizione  dei  valori  in
 giuoco.
    Tale scrutinio di ragionevolezza deve essere tanto piu' penetrante
 quanto  piu' rilevanti sono i beni coinvolti e quanto piu' intenso e'
 il sacrificio loro imposto dalla norma scrutinata.
    In  particolare,  la  Corte costituzionale, con sentenza 13 maggio
 1993 n. 1235, ha affermato che la tutela di  un  interesse  non  puo'
 essere  assoluta  e  incondizionata,  a  totale  scapito  degli altri
 interessi, essendo necessario un loro bilanciamento.
    La stessa Corte,  con  sentenza  1  aprile  1992,  n.  149,  aveva
 affermato che, nel caso di due interessi costituzionalmente rilevanti
 in  conflitto, la norma, per essere costituzionalmente legittima, non
 deve escludere, in ordine all'interesse postergato,  la  possibilita'
 della  prova  dell'inesistenza,  nel  caso concreto, delle condizioni
 che, secondo il bilanciamento sotteso alla norma  stessa,  giustifica
 la precedenza attribuita all'interesse antagonistico.
    Infine,  con riferimento proprio alla normativa penitenziaria, con
 sentenza 11 giugno-8 luglio 1993, n. 306, la  Consulta  ha  affermato
 l'importantissimo  principio secondo cui, nell'ambito delle finalita'
 che la Costituzione assegna alla pena: quella di prevenzione generale
 e di difesa sociale, con i connessi  caratteri  di  retributivita'  e
 afflittivita',  e  quella  di prevenzione speciale e di rieducazione,
 con il connesso carattere di una certa flessibilita'  della  pena  in
 funzione  risocializzatrice,  il  legislatore  ordinario  puo'  - nei
 limiti della ragionevolezza - far tendenzialmente prevalere, di volta
 in volta, l'una o l'altra finalita', ma a patto che nessuna  di  esse
 ne risulti obliterata.
    Alla  luce  e  nell'ambito  di  tali  chiari e stringenti principi
 sanciti dalla Corte costituzionale, e' ora possibile  procedere  alla
 esposizione  delle  molteplici  ragioni  di incostituzionalita' della
 norma denunziata.
    Invero, nell'ipotesi prevista dall'art. 146, primo comma, n. 3 del
 c.p. puo' affermarsi che  tutte  le  finalita'  che  la  Costituzione
 assegna alla pena risultano obliterate.
    Cosi'   e'  totalmente  obliterata  la  finalita'  di  prevenzione
 generale e  di  difesa  sociale  -  finalita'  la  cui  realizzazione
 dipende,  come  e'  noto,  non  soltanto  dalla minaccia legale della
 sanzione penale, ma anche e soprattutto dalla sua concreta esecuzione
 -  giacche'   una   pena   di   cui   e'   stabilita   l'obbligatoria
 ineseguibilita',   in   presenza   di  predeterminate  e  prevedibili
 condizioni tipiche, oggetto di  automatico  accertamento  giudiziale,
 come  nel  caso  della  norma  esaminata,  non  puo'  svolgere alcuna
 funzione di intimidazione e dissuasione, rispetto a possibili  futuri
 comportamenti  criminosi, sia nei confronti del concreto destinatario
 di essa, sia nei confronti degli altri soggetti che si trovano  nella
 medesima situazione prevista dall'art. 146, n. 3, c.p.
    Infatti,  la  minaccia  di una pena - nei confronti di un soggetto
 che puo' prevedere, in termini di certezza o,  comunque,  di  elevata
 probabilita',   anche   in   considerazione   dell'attuale  carattere
 tendenzialmente permanente e irreversibile della malattia  dell'AIDS,
 che  la  stessa  pena  non  verra'  eseguita  -  non ha una efficacia
 intimidativa diversa da quella delle celebri grida manzoniane.
    Puo', anzi,  affermarsi  che,  a  causa  della  norma  denunziata,
 l'intero  sistema  penale perde la sua concreta efficacia deterrente,
 nei confronti di una intera categoria  di  soggetti  legislativamente
 predeterminata,  e  smarrisce nei loro riguardi la sua irrinunziabile
 funzione  di  tutela  dei  beni  giuridici  fondamentali,  perseguita
 attraverso la tipica tecnica dell'intimidazione penale.
    Invero  la  generalita' dei beni penalmente protetti risulta cosi'
 esposta alle possibili offese dei soggetti affetti da AIDS conclamata
 o  da  grave  immunodeficienza,  nei  cui   confronti   l'ordinamento
 giuridico   rinunzia   sostanzialmente   alla  forza  intimidativa  e
 dissuasiva della pena.
    Nell'ipotesi  dell'art.  146,  n.  3,  c.p.   risulta,   altresi',
 vanificata   ogni   dimensione   retributiva-afflittiva  della  pena,
 giacche', come e' evidente, la rinunzia sine  die  all'esecuzione  di
 essa  lascia sostanzialmente impunito il reato commesso, in un'ottica
 di deresponsabilizzazione che contraddice il  principio  sancito  dal
 primo comma dell'art. 27 della Costituzione.
    E',  infine,  totalmente  obliterata  la  finalita' di prevenzione
 speciale di rieducazione della pena.
    Invero, la norma denunziata impone al tribunale di sorveglianza di
 accertare soltanto la ricorrenza  dello  stato  di  AIDS  conclamata,
 certificato  dalle  autorita'  sanitarie, o di grave immunodeficenza,
 con un numero di linfociti inferiori a  100,  in  base  a  due  esami
 consecutivi  a  distanza quindicinale, escludendo ogni considerazione
 specialpreventiva e rieducativa riferibile al caso concreto.
    A differenza di altre ipotesi previste dal nostro  ordinamento  di
 rinunzia  giudiziale,  temporanea  o definitiva, all'esecuzione della
 pena  che  sono  subordinate  ad   una   prognosi   specialpreventiva
 favorevole  (cosi'  la  sospensione  condizionale  della  pena  ed il
 perdono giudiziale, che  presuppongono  un  giudizio  predittivo  nel
 senso  che  il  colpevole si asterra' dal commettere ulteriori reati,
 cosi' il rinvio facoltativo dell'esecuzione della pena  che,  proprio
 nel  carattere  discrezionale della concessione del beneficio, pur in
 presenza di  una  grave  infermita'  fisica,  offre  lo  spazio  alle
 necessarie   valutazioni   specialpreventive   del   caso  concreto),
 nell'ipotesi,  invece,  dell'art.  146,  n.  3,  c.p.   le   esigenze
 specialpreventive  e  rieducative  del reo non hanno alcuna rilevanza
 giudiziale.
    Il  tribunale  di  sorveglianza,  in  presenza  delle   condizioni
 patologiche   prima   indicate,   deve  obbligatoriamente  sospendere
 l'esecuzione della pena detentiva, anche d'ufficio, indipendentemente
 da  ogni  considerazione  specialpreventiva   e   rieducativa;   deve
 sospenderla,   ancorche'   il   condannato  sia  persona  socialmente
 pericolosa,   con   conseguente    vanificazione    della    funzione
 specialpreventiva in senso neutralizzativo della pena detentiva; deve
 sospenderla,  ancorche'  il condannato sia bisognevole di trattamento
 rieducativo  penitenziario,  con  conseguente   vanificazione   della
 funzione   rieducativa   della   pena  detentiva;  deve  sospenderla,
 ancorche' il malato di AIDS sia bisognevole di trattamento  sanitario
 in  ambiente controllato, con conseguente pregiudizio alla sua stessa
 salute, come nell'ipotesi di un  soggetto  incapace  di  autogestione
 responsabile  della sua situazione patologica in ambiente libero, nei
 cui confronti e' preferibile o necessario, ai fini  di  una  adeguata
 assistenza sanitaria, un trattamento istituzionale.
    In  altri  termini,  il  tribunale di sorveglianza deve sospendere
 l'esecuzione della pena detentiva, in base ad un  rigido  automatismo
 giudiziale,  non  importa se tale sospensione sia socialmente utile o
 dannosa, se il condannato sia un soggetto  socialmente  pericoloso  o
 meno,  se  sia  un  pluriomicida o un emissore di assegni a vuoto, se
 debba espiare l'ergastolo o la pena dell'arresto, se sia un  soggetto
 rieducato  e  risocializzato  o meno, se l'alternativa al carcere sia
 una  adeguata  assistenza  sanitaria  e  un  effettivo  reinserimento
 familiare e sociale ovvero il degrado e l'abbandono.
    La pena, nella disciplina dell'art. 146,  n.  3,  c.p.,  smarrisce
 cosi'  i suoi essenziali criteri di personalita', individualizzazione
 e  adeguatezza  alle  necessita'  specialpreventive,  rieducative   e
 risocializzative   del   reo,   in   contraddizione   con   il  volto
 costituzionale della pena configurato dal primo  e  dal  terzo  comma
 dell'art. 27 della Costituzione.
    Di  tale  drastico abbattimento della dimensione specialpreventiva
 della pena puo' non accorgersi soltanto chi  coltiva  una  concezione
 pseudo-umanitaria,  costituzionalmente  inaccettabile, che vede nella
 condizione detentiva  sempre  e  soltanto  un  momento  repressivo  e
 antieducativo  e nella condizione libera sempre e comunque un momento
 rieducativo e risocializzativo.
    L'obliterazione della dimensione specialpreventiva della pena  non
 trova,  peraltro, un adeguato correttivo nella bonta', esaustivita' e
 ragionevolezza della valutazione legale tipica  -  come  puo'  invece
 affermarsi   con   riferimento   alla   diversa   ipotesi  di  rinvio
 obbligatorio prevista  dai  nn.  1  e  2  dell'art.  146  -  giacche'
 all'ipotesi del n. 3 e' riconducibile una varieta' e molteplicita' di
 situazioni  patologiche,  personologiche  e  criminologiche, tra loro
 profondamente differenti, meritevoli di diverso trattamento (cosi', a
 titolo esemplificativo, dal malato terminale ospedalizzato e  ridotto
 all'innocuita'  dal  tipo  di malattia opportunistica insediatasi, al
 soggetto affetto da AIDS conclamata  cui,  invece,  la  malattia  non
 impedisce  la commissione di reati, come nel caso che ha originato il
 giudizio de quo, al soggetto che, addirittura, usa il suo  male  come
 arma  di  minaccia, all'immunodepresso asintomatico che, al di la' di
 valori  linfocitari  bassi,  magari  in  continua  oscillazione,  non
 presenta altri segni patologici o invalidanti etc.).
    Si  aggiunga  che  la  violazione  del  personalismo  e  finalismo
 rieducativo della pena e' tanto piu' grave nella disciplina dell'art.
 146, n. 3, c.p., ove si consideri che il bene tutelato da tale  norma
 - che si e' visto essere la salute collettiva carceraria - e' un bene
 estraneo   o,   comunque,   non   precipuo  rispetto  alle  finalita'
 costituzionali   della   pena,   con   la   conseguente   sostanziale
 strumentalizzazione  del  reo  e  della sanzione penale per finalita'
 eteronome, in evidente contrasto con l'art. 27, primo e terzo  comma,
 Cost.
    Si  osservi,  ancora,  che  la vanificazione, ad opera della norma
 denunziata, delle finalita' generalpreventiva  della  pena  detentiva
 non  trova  de  iure  condito,  ne'  puo'  trovare  de iure condendo,
 adeguati meccanismi compensatori in  altri  misure  coercitive  o  in
 altri  presidi  di sicurezza, specialmente nei confronti dei soggetti
 la cui elevata pericolosita' sociale, come nel caso  di  specie,  non
 puo' essere infrenata se non con l'applicazione di misure detentive.
    La  Corte  costituzionale, con la sentenza n. 70 ed, in particolar
 modo, con quella n. 308 del '94, ha riconosciuto  la  sussistenza  di
 esigenze  di  tutela  collettiva  nei  confronti  dei  malati di AIDS
 socialmente pericolosi, con particolare riferimento  all'applicazione
 delle  misure  di sicurezza detentive, invocando il pronto intervento
 del legislatore nel quadro di un doveroso bilanciamento dei valori in
 giuoco.
    Ora,   nel   caso  dei  malati  di  AIDS  conclamata,  socialmente
 pericolosi e condannati a pena detentiva, perdurando la vigenza della
 disciplina di cui all'art. 146, n. 3,  c.p.,  nessun  altro  presidio
 normativo  e  nessun  altra misura possono adeguatamente surrogare la
 riscontrata  vanificazione  delle  funzioni  essenziali  della   pena
 detentiva.
    Non  le  misure  coercitive processuali, sia in considerazione dei
 limiti  funzionali  e  temporali  derivanti  della   loro   finalita'
 endoprocessuale,  sia  in considerazione del fatto che il legislatore
 ha  coerentemente  previsto  all'art.  286-  bis  c.p.p.,  con  norma
 parallela  all'art.  146  c.p.,  il  divieto di custodia cautelare in
 carcere, nei medesimi casi e nei confronti dei medesimi soggetti, con
 la conseguenza che anche le altre misure cautelari, come gli  arresti
 domiciliari,  perdono ogni concreta efficacia coercitiva, non essendo
 le violazioni delle relative prescrizioni  sanzionabili  mediante  la
 conversione in detenzione cautelare in carcere.
    Non  le misure di sicurezza personali, giacche' la loro esecuzione
 e'  prevista  dall'art.  211   c.p.   successivamente   all'integrale
 espiazione   o  estinzione  della  pena  detentiva,  sicche'  sospesa
 l'esecuzione di quest'ultima ex art. 146 c.p., neppure le  misure  di
 sicurezza,   sia   detentive,  sia  non  detentive,  possono  trovare
 applicazione.
    Il che determina, tra l'altro, per effetto della denunziata norma,
 una ingiustificata e grave disparita' di trattamemto tra i malati  di
 AIDS  socialmente  pericolosi, i quali, dovendo espiare in tutto o in
 parte la pena detentiva e potendo beneficiare dell'art.  146,  n.  3,
 c.p.,   non  possono  essere  sottoposti  alla  misura  di  sicurezza
 detentiva, consecutivamente prevista al  termine  della  pena,  ed  i
 malati   di   AIDS  socialmente  pericolosi,  i  quali,  avendo  gia'
 integralmente scontato la  pena,  possono  invece,  soggiacervi,  non
 essendo  prevista  nel  nostro sistema normativo la sospensione della
 misura di sicurezza per motivi di salute.
    Non le misure di prevenzione, giacche' il nostro  ordinamento  non
 prevede  misure  di  prevenzione  di tipo detentivo, ne' altre misure
 preventive adeguate ai soggetti in esame.
    Non  il  trattamento  sanitario  obbligatorio,  sia  perche'   non
 previsto  nei confronti dei malati di AIDS, sia perche', comunque, il
 presupposto di tale trattamento non puo' che essere la  pericolosita'
 sanitaria  del  malato  e  non  certo  la  sua pericolosita' sociale,
 laddove invece, per le caratteristiche epidemiologiche e sociologiche
 dell'AIDS, la prima e' strettamente connessa alla seconda.
    Se tale e' lo stato dell'attuale normativa,  puo'  verificarsi  il
 caso  -  che  si  cita solo a titolo esemplificativo - di una persona
 affetta da AIDS  conclamata,  che  in  odio  al  mondo,  commetta  un
 omicidio, la quale, non potendo essere detenuta in custodia cautelare
 in  carcere per il divieto sancito dall'art. 286- bis c.p.p., puo' al
 piu' essere posta  agli  arresti  domiciliari,  evadendo  dai  quali,
 commetta  un  altro  omicidio  e,  non  potendo essere neppure allora
 condotta  in  carcere,  venga  nuovamente  riaccompagnata  nella  sua
 abitazione  e,  nuovamente,  evada e commetta un altro reato, e cosi'
 via, teoricamente all'infinito. Tale persona,  una  volta  condannata
 con  sentenze  regiudicate  per gli omicidi ed i reati commessi - non
 importa se uno, dieci o cento - non dovra' espiare alcuna delle  pene
 inflittegli  -  non  importa  se  uno,  dieci  o  cento  ergastoli  -
 beneficiando del rinvio obbligatorio ex art. 146, n. 3, c.p. e,  come
 si  e'  visto,  nei  suoi confronti non sara' neppure applicabile una
 misura di sicurezza.
    Tale e', al di la', del caso estremo  ma  non  impossibile  teste'
 citato,  la  potenzialita'  eversiva  e  distruttiva dell'ordinamento
 giuridico e delle basi stesse della convivenza civile, insita in  una
 norma come quella denunziata. Una norma che prevede un beneficio che,
 stante    la    sua   automatica,   obbligatoria   e   indiscriminata
 concedibilita',  puo'  equivalere   in   pratica   ad   una   licenza
 irrevocabile di delinquere|
    Si  osservi,  comunque, che, anche se il legislatore introducesse,
 in costanza della disciplina di cui all'art. 146, n. 3,  c.p.,  altre
 misure   coercitive   applicabili   ai  condannati  affetti  da  AIDS
 conclamata - che con riferimento ai soggetti di elevata pericolosita'
 non potrebbero che essere di tipo detentivo - la legge entrerebbe  in
 contraddizione  con  se  stessa,  giacche'  non  avrebbe  alcun senso
 sospendere,  da  un  lato,  l'esecuzione  della  pena  detentiva   ed
 applicare,  dall'altro  lato,  una  diversa  misura detentiva, in una
 sorta di giuoco delle etichette, in cui la finalita' di una norma  e'
 vanificata  da  un'altra  norma.  Infatti,  se  il  fine e' quello di
 tutelare la salute collettiva  nelle  strutture  penitenziarie,  poco
 importa  se  il soggetto malato di AIDS sia detenuto in espiazione di
 una pena o in applicazione di altra misura  detentiva  diversa  dalla
 pena.
    Alla  stregua  di  tutte  le considerazioni suesposte, e' evidente
 come il fondamentale principio sancito dalla Corte costituzionale con
 sentenza n. 306 del '93 risulta violato  nella  fattispecie  prevista
 dall'art. 146, n. 3, c.p.
    Tale  violazione e' tanto piu' grave, ove si consideri che non una
 - il che sarebbe gia' sufficiente per tacciare di incostituzionalita'
 la norma - bensi' tutte le finalita' essenziali della pena  risultano
 sacrificate  e  ove  si  consideri,  ancora,  che  tale sacrificio si
 consuma per la tutela di un bene - la salute collettiva carceraria  -
 di   rango  quantitativamente,  se  non  qualitativamente,  inferiore
 rispetto  alla  generalita'  dei   beni   correlati   alle   funzioni
 costituzionali  della  pena,  tutela  che  avrebbe  dovuto  e  potuto
 perseguirsi, non in modo assoluto, incondizionato  e  indiscriminato,
 bensi'  in  modo  compatibile  e  non confliggente con i fondamentali
 interessi protetti dal sistema penale  e,  invece,  irragionevolmente
 socrificati nella disciplina di cui all'art. 146, n. 3, c.p.
    Cosi'  per  evitare  che  il condannato malato di AIDS rechi danno
 alla salute collettiva carceraria, invece di  adeguare  le  strutture
 sanitarie e penitenziarie al fine di realizzare una gestione "sicura"
 di  tali  soggetti,  si  e'  adotatta una soluzione normativa, il cui
 effetto sostanziale e' quello di esporre a grave pericolo  tutti  gli
 altri  fondamentali beni della collettivita' e dei singoli cittadini,
 beni assistiti dalla garanzia di inviolabilita' sancita  dall'art.  2
 della  Costituzione: dalla vita, all'incolumita', al patrimonio, alla
 stesa salute individuale e collettiva.
    Invero,  lo  stesso  art.  32  Cost.  che   fonda   la   rilevanza
 costituzionale  del  bene  tutelato  dall'art.  146,  n. 3, c.p. puo'
 essere invocato per  sancire  l'incostituzionalita'  di  tale  norma,
 sotto  il  profilo  che il legislatore, trasferendo il malato di AIDS
 dal carcere all'ambiente libero e salvaguardando cosi' il bene  della
 salute  collettiva  carceraria, ha esposto a grave e maggior pericolo
 il  bene  della  salute  collettiva  extracarceraria,  ossia  un bene
 quantitativamente  maggiore,  essendo   riferibile   ad   un   numero
 enormemente  piu'  elevato  di  soggetti.  In  tale trasferimento dal
 carcere all'ambiente libero, il legislatore ha, per giunta, aggravato
 l'entita' del pericolo della salute collettiva, essendo evidente  che
 un  conto  e'  il  controllo  di  tale  pericolo nei confronti di una
 persona detenuta, in statu subiectionis e come  tale  coercibile  con
 varie  misure  precauzionali  tra  cui,  ad esempio, l'isolamento per
 ragioni sanitarie previsto dall'art.  33  dell'ordin.  penit.,  altro
 conto  e'  realizzare  tale  controllo  nei  confronti di una persona
 libera e, come si e' visto prima, non coercibile.
    Si aggiunga che l'irragionevolezza della norma denunziata  risalta
 ancor  di  piu', ove si consideri che, sia le esigenze umanitarie nei
 confronti del condannato, sia le esigenze di salvaguardia  della  sa-
 lute   collettiva   carceraria,   trovavano  gia',  nella  disciplina
 previgente all'introduzione dell'art. 146, n. 3,  c.p.,  adeguata  ed
 equilibrata   tutela,  in  particolare,  negli  istituti  del  rinvio
 facoltativo dell'esecuzione della pena detentiva ex art. 147,  n.  2,
 c.p.  e  del ricovero in luoghi esterni di cura previsto dall'art. 11
 ordin. penit.
    Si aggiunga, infine, un profilo secondario di  incostituzionalita'
 della    norma   denunziata,   ampiamente   assorbito   dai   profili
 precedentemente  illustrati,  ossia  la  mancata  previsione   -   in
 violazione del principio generale sancito con sentenza 1 aprile 1992,
 n.  149,  della  Corte  costituzionale  -  della  possibilita'  della
 verifica giurisdizionale dell'inesistenza, nel caso  concreto,  delle
 condizioni  che dovrebbero giustificare il sacrificio degli interessi
 postergati e la precedenza  accordata  all'interesse  tutelato  dalla
 norma,  come  nell'ipotesi di pena detentiva che devesi concretamente
 espiare  in  un  carcere  adeguatamente  attrezzato,  con   strutture
 sanitarie  e  logistiche  interne  e  con  collegamenti con strutture
 esterne, tali da rendere pienamente tutelati i beni della salute  del
 singolo condannato e della collettivita' carceraria.