Ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dalla Corte dei conti, in persona del presidente pro-tempore - in forza dei poteri conferitigli con la determinazione n. 135/93 del 12 agosto 1993 (depositata il 23 settembre 1993) della Corte dei conti, sezione del controllo sugli atti del Governo (doc. n. 1) - rappresentato e difeso dal prof. avv. Alessandro Pace, ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest'ultimo, in Roma, piazza delle Muse n. 8, come da mandato in calce al presente atto, contro il Governo della Repubblica, in persona del Presidente del Consiglio dei Ministri pro-tempore, in relazione: alla sottrazione del decreto del Ministro del tesoro 22 giugno 1993, n. 242632, al controllo preventivo della Corte dei conti, concretatasi nell'omesso invio dell'originale del provvedimento, in violazione dell'art. 100, secondo comma, della Costituzione e dell'art. 7, primo comma, del d.-l. n. 143 del 1993 e dell'art. 7, decimo comma, del d.-l. n. 232 del 1993; al connesso comportamento del Governo, consistente nella modifica dell'art. 7, decimo comma, del d.-l. n. 232 del 1993, in violazione sia dell'art. 77, secondo comma, che dell'art. 100, secondo comma, della Costituzione; alla connessa illegittimita' costituzionale - sotto vari profili, e in subordine - degli artt. 3, tredicesimo comma, e 8, primo comma, della legge n. 20 del 1994, per violazione degli artt. 77, secondo e terzo comma, e 100, secondo comma, della Costituzione. F A T T O Si riportano le "premesse in fatto" della delibera n. 135/93 della Corte dei conti. "Con il decreto indicato in epigrafe il Ministro del tesoro, sentito il comitato interministeriale per il credito e il risparmio (C.I.C.R.), ha fissato, in attuazione dell'art. 22, primo comma, lettere a) e c) del decreto legislativo 14 dicembre 1992, n. 481, i nuovi criteri cui devono uniformarsi le partecipazioni detenibili in imprese dagli enti e gruppi creditizi ed ai quali deve a sua volta attenersi la Banca d'Italia nell'attivita' ordinatoria e di vigilanza, che le compete in materia. Nella relazione in data 30 luglio 1993, il consigliere delegato al controllo sugli atti del Ministero del tesoro ha espresso l'avviso che il decreto sia da assoggettarsi al controllo preventivo di legittimita' di questa Corte ai sensi dell'art. 7, primo comma, lett. c) del d.-l. 17 luglio 1993, n. 232, in ragione delle sue caratteristiche di atto generale di indirizzo. Il consigliere delegato al controllo ha rilevato, altresi', che il provvedimento si configura anche nel suo complesso e per gli specifici richiami contenuti nel testo come atto generale attuativo di norme comunitarie, in particolare della direttiva n. 89/646 del 15 dicembre 1989, relativa al coordinamento delle disposizioni legisla- tive, regolamentari e amministrative riguardanti l'accesso alle attivita' dell'ente creditizio e l'esercizio delle stesse. Cio' implica l'assoggettabilita' del provvedimento medesimo al controllo preventivo anche ai sensi della lett. e) del soprarichiamato art. 7, primo comma, del d.-l. n. 232 del 1993. Cio' nonostante, ha fatto presente il consigliere delegato, il Ministero del Tesoro e per esso l'amministrazione non hanno ritenuto di dover sottoporre l'atto al controllo preventivo di questa Corte ed hanno altresi' ritenuto di potervi dare esecuzione per il tramite della Banca d'ltalia, che ha infatti provveduto ad impartire agli enti e gruppi creditizi le istruzioni di propria competenza in applicazione del decreto di cui trattasi (si veda la nota n. 242824 in data 9 agosto 1993 del direttore generale del tesoro, segretario del C.I.C.R.). Ne' l'amministrazione ha aderito all'invito dell'ufficio di controllo di astenersi da ulteriori atti di esecuzione e di porre in essere i provvedimenti idonei a consentire il pieno esercizio della funzione di controllo preventivo sul decreto, ai cui fini e' stata rappresentata, senza esito, la necessita' della trasmissione dell'originale e dell'avviso espresso dal Comitato interministeriale per il credito e il risparmio (nota n. 463 in data 14 luglio 1993 dell'ufficio di controllo sugli atti del Ministero del tesoro). L'amministrazione, peraltro, a spiegazione del proprio atteggiamento ha rappresentato, dapprima con nota n. 242771 del 27 luglio 1993, poi nelle deduzioni contenute nella memoria trasmessa l'11 agosto 1993 e richiamata nell'intervento orale all'adunanza del 12 agosto 1993, il convincimento che il decreto ministeriale sia esente dall'assoggettamento al controllo preventivo di cui all'art. 7, primo comma, del d.-l. n. 232/93 in ragione della clausola derogatoria contenuta nel decimo comma dello stesso articolo, secondo cui le disposizioni di quest'ultimo non si applicano nei confronti degli enti che svolgono la loro attivita' nelle materie contemplate nell'art. 1, del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 17 luglio 1947, n. 691. L'argomentazione fondamentale dell'amministrazione e' che gli 'enti' cui si fa riferimento in quest'ultima norma non sono, come ritenuto dal consigliere delegato al controllo, gli enti e i gruppi creditizi, bensi' lo Stato e i suoi organi e cioe' quel complesso apparato politico-amministrativo (C.I.C.R., Ministro del tesoro, Banca d'Italia) che e' titolare di poteri di indirizzo e vigilanza nel settore creditizio". Sin qui i fatti assunti a presupposto della delibera n. 135/93 della Corte dei conti, che ne desumeva la violazione delle attribuzioni ad essa spettanti in base all'art. 100, secondo comma della Costituzione, come specificate nell'art. 7 del d.-l. 17 luglio 1993 n. 232, e concludeva per la sottoposizione del conflitto di attribuzione alla Corte costituzionale. Come si e' visto, la delibera in questione faceva seguito all'adunanza del 12 agosto 1993, nella quale il Governo aveva fatto valere, a favore della sua posizione, la clausola derogatoria contenuta nel decimo comma del citato art. 7. Poco tempo dopo avveniva peraltro che il Governo, nel reiterare il d.-l. n. 232 - ormai destinato a decadere - adottasse un nuovo decreto-legge (n. 359 del 14 settembre 1993) di identico tenore e contenuto, decidendo peraltro di modificare proprio la disposizione dell'art. 7, decimo comma. La clausola derogatoria contenuta in quest'ultima disposizione veniva infatti riferita non piu' agli "enti che svolgono la loro attivita' nelle materie contemplate nell'art. 1 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 17 luglio 1947, n. 691", ma agli "atti ed ai provvedimenti emanati nelle materie monetaria, creditizia, mobiliare e valutaria". Con l'evidente conseguenza .. di rendere legittimo, a partire dall'entrata in vigore del d.-l. n. 359, il rifiuto del Governo di sottoporre a controllo preventivo il decreto ministeriale indicato in epigrafe, in quanto indubbiamente relativo alla "materia creditizia". In seguito ad una ulteriore reiterazione veniva infine adottato il d.l. n. 453 del 15 novembre 1993 (pedissequamente ripetitivo del precedente) a cui spettava una sorte inconsueta: una parte di esso veniva infatti convertita (nella legge n. 19 del 14 gennaio 1994), mentre la parte restante veniva "trasformata" in disegno di legge governativo e, diveniva, a seguito della discussione e approvazione parlamentare, la legge n. 20 del 14 gennaio 1994. Quest'ultima - pur non essendo una legge di conversione, con le conseguenze che vedremo successivamente - contiene, all'art. 3, tredicesimo comma, una previsione identica a quella contenuta sia nell'art. 7, decimo comma del d.-l. n. 359 del 1993, sia nell'art. 7 decimo comma del d.-l. n. 453 del 1993, nonche', all'art. 8, primo comma, una clausola di sanatoria di tutti gli effetti prodotti medio- tempore dai decreti non convertiti. La legge n. 20 del 1994 produce quindi l'effetto di legittimare, a partire dalla sua entrata in vigore, il permanente rifiuto del Governo di sottomettere il d.m. in epigrafe al controllo della ricorrente; e di convalidare tale rifiuto retroattivamente, a partire dall'entrata in vigore del d.-l. n. 359 del 1993. Non per questo viene meno l'interesse della Corte dei conti a sentir dichiarare, ex art. 100, secondo comma, della Costituzione, la non spettanza al Governo del potere di sottrarre a controllo preventivo il decreto in epigrafe; e altresi' la non spettanza al Governo del potere di modificare, a tal fine, la disposizione dell'art. 7, decimo e ultimo comma, del d.-l. n. 232 del 1993. D I R I T T O A) In rito. Per cio' che riguarda i presupposti soggettivi del conflitto, ossia il riconoscimento della qualita' di "potere dello Stato" sia alla Corte dei conti che al Governo, bastera' richiamare la ormai consolidata giurisprudenza di codesta Corte. Dopo le sentenze n. 406 del 1989 e n. 466 del 1993 e' infatti fuori discussione che la Corte dei conti, nello svolgimento della funzione di controllo, goda della posizione di autonomia e di indipendenza che e' caratteristica dei "poteri dello Stato". Come tali pronunce hanno correttamente rilevato, interpretando l'art. 100 secondo e terzo comma, della Costituzione, la natura "ausiliaria" della funzione attribuita non toglie invero che essa, per avere un senso e svolgersi correttamente, richieda l'indipendenza del controllante nei confronti del controllato, o dell'ausiliare nei confronti dell'ausiliato (siano essi Governo o Parlamento). In conformita' ai medesimi precedenti, e in particolare alla sent. n. 406 del 1989, si deve inoltre ritenere che legittimata a proporre il ricorso per la Corte dei conti sia la "Sezione di controllo sugli atti del Governo", come "organo competente a dichiarare definitivamente la volonta' del potere", a norma dell'art. 37, primo comma, della legge n. 87 del 1953. Quanto alla legittimazione passiva del Governo, bisogna ricordare che codesta Corte ha costantemente ritenuto imputabili alla responsabilita' collegiale del Governo i comportamenti dei singoli Ministri, a meno che questi non agissero eccezionalmente in forza di una specifica attribuzione costituzionale di competenza. Nell'ordinanza n. 24 del 1993 tale principio e' stato ribadito con riguardo ad "atti e comportamenti connessi all'interpretazione di un decreto-legge", che e' fattispecie identica a quella che ha determinato l'insorgere del presente conflitto. Il Governo ha d'altronde fatto esplicitamente propria la posizione del Ministro, provvedendo a modificare in via d'urgenza la disposizione di riferimento, contenuta nell'art. 7, ultimo comma, del d.-l. n. 232. Il ricorso de quo viene dunque rivolto contro il Governo, come responsabile degli "atti e comportamenti" che il Ministro del tesoro ha adottato nell'interpretazione del d.-l. n. 232, oltre che dell'adozione dell'art. 7, ultimo comma, citato, nel nuovo testo. Pure pacifica deve ritenersi, infine, la ricorrenza dei presupposti oggettivi del conflitto, ossia la "sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali" ex art. 37, primo comma, della legge n. 87 del 1953. La lesione lamentata dalla ricorrente Corte dei conti attiene infatti alla funzione di controllo preventivo di legittimita' sugli atti del Governo, prevista dall'art. 100, secondo comma, della Costituzione, e incide dunque su di una sfera di attribuzioni di livello costituzionale, cosi' come ha riconosciuto la gia' citata sentenza n. 406 del 1989. B) Nel merito. Nel merito, la ricorrente lamenta la menomazione delle proprie competenze costituzionalmente garantite, da imputare al comportamento illegittimo del Governo. Riguardo ai motivi di diritto e' peraltro necessario operare una scansione temporale, in relazione al succedersi degli avvenimenti che si sono brevemente riassunti nel "fatto". La lesione lamentata con il presente ricorso scaturisce infatti dal medesimo comportamento omissivo, iniziato in coincidenza con l'emanazione del decreto ministeriale in epigrafe e tuttora perdurante: ma nel frattempo sono mutate le disposizioni di riferimento. 1. - Illegittimita' del comportamento assunto dal Governo, in violazione dell'art. 100, secondo comma, della Costituzione e dell'art. 7, primo comma, del d.-l. n. 143 del 1993 e dell'art. 7, decimo comma, del d.-l. n. 232 del 1993. In relazione alla fase cui si riferisce la delibera n. 135 della sezione di controllo, il comportamento omissivo del Governo deve ritenersi illegittimo, in quanto costituisce una palmare violazione dell'art. 7, primo comma, del d.-l. n. 143 del 1993 e, successivamente, in quanto basato su di un'errata interpretazione della clausola derogatoria di cui all'art. 7, decimo comma, del d.-l. n. 232 del 1993. A parte il fatto che quando fu adottato il d.m. in epigrafe, l'art. 7 del d.-l. n. 143 del 1993 non prevedeva alcuna clausola derogatoria, va comunque aggiunto che anche a volersi muovere nell'ottica del d.-l. n. 232 del 1993 le cose non cambiano. Ed infatti, come si rileva nella delibera della sezione di controllo, non puo' condividersi l'assunto - fatto proprio dal Governo - secondo il quale gli "enti che svolgono la loro attivita' nelle materie con- template nell'art. 1 del d.l.c.p.s. n. 691/47" (art. 7, decimo comma, del d.-l. n. 232 del 1993) sarebbero le autorita' investite di poteri pubblicistici nella materia del risparmio, credito e valuta, vale a dire Ministro del tesoro, Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio, Banca d'ltalia. E cio', in primo luogo, in base ad elementi testuali inconfutabili, che attengono all'uso sia del termine "enti", evidentemente improprio in relazione ad organi dello Stato, quali il Ministro del tesoro e il C.I.C.R., sia della locuzione "che svolgono la loro attivita'", adatta ad indicare l'espressione di autonomia privata, piu' che l'esercizio di competenze autoritative. Corretta appare, dunque, l'interpretazione sostenuta dalla ricorrente, che identifica gli "enti" in questione con le banche, i gruppi bancari e gli intermediari finanziari, ossia con i soggetti (privati) che a norma del t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, che riproduce sul punto il precedente d.lgs. 14 dicembre 1992, n. 481) sono autorizzati a "svolgere la loro attivita" nelle materie in questione. Tali enti, ex art 5, secondo comma, del citato t.u. n. 385 del 1993, rappresentano dunque i destinatari della vigilanza esercitata dalle "autorita' creditizie", che, ex art. 1, lett. a), sono a loro volta da identificare con il C.I.C.R., il Ministro del tesoro e la Banca d'ltalia. E sembra invero molto strano che nello stesso torno di tempo il Governo abbia adottato, per indicare questo complesso organizzativo, da un lato, una terminologia imprecisa ed erronea, dall'altro una definizione perfettamente corretta, come quella di "autorita' creditizie", inserita per di piu' in un puntiglioso elenco di "Definizioni" posto al principio del citato testo unico (art. 1). Si ricordi infatti che l'amministrazione ha sostenuto l'interpretazione che si contesta nella nota del 27 luglio 1993, n. 242771, e cioe' quando il testo unico in questione era gia' stato approvato dal Consiglio dei ministri, in data 2 luglio 1993 (prima di essere sottoposto al parere delle Camere). Come sottolinea inoltre la citata delibera della sezione di controllo, non puo' neppure condividersi l'assunto del Governo, secondo il quale "gli enti cui fa riferimento il decimo comma dell'art. 7 non possono essere quelli creditizi, perche' cosi' si priverebbe di qualsiasi significato l'emanazione stessa della norma", dal momento che la Corte dei conti "non ha mai esercitato il controllo sugli enti creditizi stessi". L'obiezione non tiene infatti conto dell'esatta collocazione sistematica della clausola limitativa di cui al decimo comma, nell'ambito dell'art. 7 del d.-l. n. 232 del 1993. "Essa, in realta' - rilevava esattamente la citata delibera -, e' riferita all'insieme delle disposizioni contenute nell'articolo e quindi non necesariamente a quelle concernenti i controlli, preventivi e successivi, sugli atti, i quali risultano circoscritti alla sfera provvedimentale del Governo e della pubblica amministrazione statale (art. 7, primo e quarto comma), bensi' a quelle, tra tutte le possibili forme di controllo previste dall'art. 7, che siano suscettibili di applicazione nei riguardi degli enti destinatari della norma. E non v'e' dubbio che, nel quadro fortemente innovativo dei controlli della Corte dei conti, introdotto dall'art. 7, oltre alla nuova disciplina del controllo sugli atti, assumono particolare rilievo i controlli di tipo gestionale, che mirano a verificare le modalita', l'andamento ed i risultati dell'attivita' amministrativa, finanziaria o patrimoniale delle amministrazioni pubbliche, anche non statali (art. 7, commi dal quinto al nono). E' appunto in un tale contesto che sono agevolmente individuabili occasioni e ragioni di verifiche, accertamenti e valutazioni, da parte della Corte dei conti, nei riguardi di enti e gruppi creditizi in funzione dei soprarichiamati controlli sulle amministrazioni pubbliche. Tali occasioni e ragioni, evidentemente, il decimo comma, dell'art. 7 mira a sopprimere o quanto meno a comprimere. Vengono per questi aspetti in evidenza, in primo luogo, gli accertamenti di cui la Corte avrebbe potesta' di esercitare anche nei riguardi degli enti creditizi in ordine al buon esito dell'attivita' di indirizzo e di vigilanza nel settore creditizio, posta in essere attraverso il provvedimento in esame. La Corte ne sarebbe facoltizzata dal quinto comma, seconda frase, e potrebbe, a tal fine, tanto avvalersi dei controlli effettuati da altre istituzioni come fa intendere l'inciso "anche in base all'esito di altri controlli", quanto effettuare o disporre ispezioni e accertamenti diretti nei confronti degli enti e gruppi creditizi, ai sensi del nono comma, prima frase. Vanno altresi' considerati gli accertamenti e le verifiche che, nella nuova logica del controllo, la Corte dei conti avrebbe potesta' di effettuare nei confronti degli enti creditizi cui le amministrazioni pubbliche si affidano per il servizio del debito pubblico ovvero per l'erogazione di finanziamenti a privati o ad enti pubblici o ancora per la gestione di contribuzioni pubbliche a favore di imprese, come nel caso previsto dall'art. 31, quinto comma, della legge 5 ottobre 1991, n. 317. Nei riguardi di queste ultime fattispecie, il controllo che spetterebbe alla Corte dei conti sugli enti creditizi ai sensi dell'art. 7, commi dal quinto al nono, avrebbe rilevanza particolarmente pregnante in considerazione dei compiti e poteri pubblicistici di cui vengono investiti gli enti medesimi, pur sempre rimanendo nell'esercizio del credito. Ne' vanno trascurate altre importanti potenzialita' di controllo, dirette o indirette, della Corte dei conti sulle istituzioni creditizie, che svolgono le funzioni di tesoreria o di esattoria per i pubblici enti. Cosi' pure non va trascurato l'importante fenomeno degli enti creditizi a capitale pubblico, nei cui riguardi si profila - a prescindere dalle ipotesi in cui sia da ritenersi ancora operante la legge n. 21 marzo 1958, n. 258, sul controllo degli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria (legge richiamata all'art. 7, ottavo comma) - una tematica di controlli incentrata sulla considerazione che le partecipazioni azionarie dello Stato o di altri enti pubblici in imprese (anche bancarie) costituiscono elementi del patrimonio pubblico, la cui conservazione e gestione forma oggetto di controllo da parte della Corte dei conti ai sensi del quinto comma, dell'art. 7. Ne discende che la Corte nell'esercitare quest'ultimo controllo, inteso a verificare l'efficacia e l'efficienza degli investimenti azionari pubblici ed anche delle relative trasformazioni e dismissioni, avrebbe ragioni per acclarare anche lo stato patrimoniale degli enti bancari partecipati e i loro programmi di attivita' e investimenti sulla base di una molteplicita' di criteri di indagine, di cui e' stato gia' reso edotto il Parlamento, su un piano piu' generale, in sede di relazione sul conto del patrimonio per il 1992. Alla luce delle esposte potenzialita' di controllo nei confronti degli enti e gruppi creditizi, appare evidente che la clausola limitativa di cui al decimo comma, se intesa come riferita a quegli enti e ai loro gruppi, non e' affatto priva di significato, come vorrebbe l'amministrazione, ma, al contrario, ha un senso ben preciso, quello, come si diceva, di comprimere se non proprio di eliminare del tutto quelle stesse potenzialita' di controllo, impedendo, in ogni caso, che esse possano esercitarsi, 'nei confronti' degli enti medesimi e cioe' direttamente sugli stessi. E, facendo salva, invece, la possibilita' di verifiche che, nei vari schematismi cui si e' accennato, si fermino al momento gestionale strettamente riconducibile all'amministrazione pubblica". In definitiva, non puo' in alcun modo accogliersi l'interpretazione, sostenuta dal Governo, dell'art. 7, decimo comma, del d.-l. n. 232 del 1993 (nel testo vigente sino al 16 settembre 1993: giomo dell'entrata in vigore del d.-l. n. 359 del 1993, che ha illegittimamente modificato detto comma). Tale illegittima interpretazione ha pertanto confermato un comportamento illegittimo - qui denunciato -, consistente nel sottrarre al controllo preventivo della Corte dei conti il d.m. indicato in epigrafe, con conseguente lesione delle attribuzioni costituzionalmente attribuite alla Corte dei conti. Ne' varrebbe opporre, al riguardo, la clausola di sanatoria contenuta nell'art. 8, primo comma, della successiva legge n. 20 del 1994, secondo la quale "restano validi gli atti e provvedimenti adottati, nonche' le attivita' poste in essere .." sulla base dei dd.-ll. nn. 54, 143, 232, 359 e 453 del 1993 (ossia sulla base dei decreti-legge piu' volte reiterati contenenti "Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti"). E' evidente infatti che possono "restare validi" solo atti e comportamenti che gia' lo fossero in base alla normativa di urgenza e in accordo ai principi costituzionali. La clausola di sanatoria e' diretta infatti a consolidare gli effetti che traggono origine dalla decretazione d'urgenza, venendo meno la quale essi hanno perso di fondamento. Tale clausola sana dunque il vizio nascente dalla mancata conversione, e non certo altri vizi. Pertanto quegli atti e quelle attivita' che dovevano considerarsi illegittimi allora (com'e', nel caso de quo, il comportamento omissivo del Governo, secondo l'interpretazione del d.-l. n. 232 del 1993 sostenuta dalla ricorrente) poiche' non trovavano il loro fondamento nel decreto- legge a quel tempo vigente, non possono considerarsi in alcun modo sanati, e rimangono contestabili ai fini del presente conflitto. 2. - Illegittimita' del successivo comportamento omissivo del Governo, derivato dalla illegittimita' costituzionale dei dd.-ll. nn. 359 e 453 del 1993 (non convertiti), dell'art. 3, tredicesimo comma, e dell'art. 8, primo comma, della legge n. 20 del 1994, per violazione dell'art. 100, secondo comma della Costituzione. A partire dal 16 settembre 1993 (data di entrata in vigore del d.-l. n. 359 del 1993) il comportamento omissivo del Governo non si e' piu' fondato sulla disposizione sopra riportata, ma su di una nuova clausola derogatoria, cosi' formulata: "Le disposizioni del primo comma non si applicano agli atti ed ai provvedimenti emanati nelle materie monetaria, creditizia, mobiliare e valutaria". Tale clausola ha formato oggetto dell'art. 7, decimo comma, del d.-l. 14 settembre 1993 n. 359, dell'art. 7, decimo comma, del d.-l. 15 novembre 1993 n. 453, nonche' dell'art. 3, tredicesimo comma, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, attualmente in vigore, di contenuto identico. Il tenore di tale disposizione, in combinato disposto con la clausola di sanatoria dell'art. 8, primo comma, gia' citata, autorizzerebbe in effetti a ritenere conforme alla legge il comportamento omissivo del Governo, a partire dal giorno di entrata in vigore del d.-l. n. 359 del 1993. Tuttavia, cio' non fa venire meno il conflitto in esame, ma ne cambia semplicemente il termine di riferimento: che inizialmente era l'illegittimita' del comportamento del Governo direttamente nascente dalla violazione sia dell'art. 100, secondo comma, della Costituzione, sia dall'art. 7, decimo comma, del d.-l. n. 232 del 1993, e in seguito e' divenuto l'illegittimita' del comportamento del Governo derivata dall'applicazione dei dd.-ll. n. 359 e 453 del 1993, nonche' della legge n. 20 del 1994, tutti - a loro volta - contrastanti sotto i diversi profili qui denunciati) con l'art. 77, secondo e terzo comma, e con l'art. 100, secondo comma, della Costituzione. Ed infatti, se la decisione del Governo, di sottrarre il d.m. in epigrafe al controllo preventivo della Corte dei conti, ledendo con cio' le competenze della ricorrente, non e' in contrasto - a partire dal d.-l. n. 359 del 1993 - con la normativa che regola la materia, ma anzi vi trova il suo fondamento, cio' non toglie che la illegittima lesione alle suddette competenze derivi, in ultima analisi, dalla incostituzionalita' dei dd.-ll. nn. 359 e 453 del 1993 e della legge n. 20 del 1994. Alla ricorrente non resta pertanto che sollecitare codesta ecc.ma Corte a sollevare dinanzi a se stessa, ritenendola rilevante e non manifestamente infondata, la questione di legittimita' costituzionale della disciplina in esame, ma non del d.-l. n. 453 del 1993 (che, come i precedenti, non e' stato convertito), bensi' dell'art. 3, tredicesimo comma e dell'art. 8, primo comma, della legge n. 20 del 1994, per violazione dell'art. 100, secondo comma, della Costituzione, in relazione al comportamento illegittimo (ancorche' conforme a legge) tenuto dal Governo a partire dal 16 settembre 1993. Che tali disposizioni contrastino con la norma costituzionale che prevede il controllo preventivo della Corte dei conti sugli atti del Governo e' di palmare evidenza. ln base a tale norma si deve infatti ritenere che il legislatore non possa in alcun modo spingersi ad eliminare il controllo preventivo della Corte dei conti su determinati tipi di atti governativi, a meno che non ricorrano motivi costituzionalmente rilevanti. Al riguardo si possono evocare le considerazioni che codesta ecc.ma Corte ha svolto con riguardo alla disposizione dell'art. 100, secondo comma, seconda frase, della Costituzione, relativa al controllo della Corte dei conti sugli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. Tali considerazioni traggono origine da una disposizione che rimette esplicitamente alla scelta del legislatore "i casi e le forme" del controllo, e valgono quindi a maggior ragione per il nostro caso, ossia per una disposizione che non contiene alcun esplicito rinvio alla discrezionalita' del legislatore, com'e' appunto quella dell'art. 100, secondo comma, prima frase. Nella sentenza n. 466 del 1993 codesta ecc.ma Corte ha invero valutato se esistessero "motivi sufficienti" (Considerato in diritto, punto 4) per determinare il venir meno del controllo della Corte dei conti sugli enti pubblici economici trasfomnati in S.p.a., a fronte della permanenza dell'apporto finanziario dello Stato, che rappresenta la ratio del controllo previsto dalla Costituzione. E tale ratio e' prevalsa, nella pronuncia in esame, sulle istanze di efficienza economica fatte valere dal Governo, nonostante tutte le difficolta' nascenti sia dal tenore letterale di alcune disposizioni - quali l'art. 12 della legge n. 259 del 1958, e la dizione di "enti pubblici" in esso contenuta -, sia dall'adattamento dei controlli in esame alla struttura privatistica delle societa' per azioni. Seguendo un analogo iter argomentativo, codesta ecc.ma Corte potrebbe agevolmente verificare, nel caso de quo, l'inesistenza di "motivi sufficienti" a giustificare la sottrazione degli atti come il d.m. in esame al controllo preventivo della Corte dei conti, controllo che, oltre tutto, la Costituzione impone in forma assoluta, senza alcun rinvio alla legge. Tali motivi, alla luce della disciplina costituzionale, non potrebbero infatti riguardare altro che l'impossibilita' materiale o giuridica, da parte del Governo, di sottoporre a controllo determinati atti: impossibilita' che certo non ricorre nella specie. Non si dimentichi, infatti, che il Governo dispone comunque, per gli atti urgenti (talvolta indispensabili in materia valutaria o creditizia) dello strumento del decreto-legge. In conclusione si deve ritenere che il legislatore, nel dettare l'art. 3, tredicesimo comma, abbia oltrepassato i limiti della propria discrezionalita': e cio' soprattutto se si considera che lo stesso art. 3, al primo comma, attua gia' un'ampia limitazione di tale potere rispetto alla disciplina precedente, in ossequio alla convinzione, piu' volte sostenuta dal Govemo, che il controllo preventivo debba essere limitato agli atti piu' importanti e significativi dell'attivita' governativa, per i quali solamente apparirebbe giustificata la complessita' del procedimento di controllo stesso. Non caso l'art. 3, primo comma, esordisce con tale formulazione: "Il controllo preventivo di legittimita' della Corte dei conti si esercita esclusivamente sui seguenti atti non aventi forza di legge: ..". A cio' segue un'elencazione ragionata dei provvedimenti in questione, caratterizzati o dal rilievo finanziario o dall'importanza politica generale. Tra i primi si contano, ad esempio, i "provvedimenti dei comitati interministeriali di riparto o di assegnazione di fondi" (lett. b); tra i secondi, gli "atti normativi a rilevanza esterna", gli "atti generali di indirizzo" (art. 7, primo comma, lett. c), e gli "atti generali attuativi di norme comunitarie (lett. e). Sembra pertanto che il legislatore abbia compiutamente esercitato, ed esaurito, nell'ambito dell'art. 3, primo comma, la sua discrezionalita' a proposito della scelta dei provvedimenti da sottoporre a controllo: scelta rispetto alla quale appare totalmente irragionevole la clausola derogatoria contenuta nel tredicesimo e ultimo comma dello stesso articolo. L'adozione di un criterio materiale - informato cioe' all'oggetto della disciplina - che si sovrappone al criterio generale, fondato sul rilievo finanziario e/o politico, non ha infatti alcuna verosimile giustificazione, se non quella di "accontentare" il Governo. In tal modo il d.m. in epigrafe - che ha ad oggetto l'attuazione della direttiva comunitaria n. 89/646 in ordine ai criteri da seguire in materia di partecipazioni detenibili dalle banche (ex art. 22, lett. c) del d.lgs. 14 dicembre 1992, n. 481, ora riprodotto dall'art. 67 del t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia), e che pertanto rientrerebbe a pieno titolo sia nella categoria degli atti generali d'indirizzo, sia nella categoria degli atti generali attuativi di norme comunitarie (gia' citate lett. c) ed e) dell'art. 3, primo comma) - risulta in pratica sottratto a controllo. E cio' non in base a motivi costituzionalmente rilevanti, ma alla semplice .. esigenza del Governo di evitare controlli cui e' insofferente, perche' ostacolano la speditezza delle sue decisioni. Ma per l'appunto questa esigenza non sembra affatto in grado di prevalere, a termini della Costituzione, sulla ratio cui si informa la disciplina del controllo preventivo, che ha il preciso scopo di introdurre istanze di legalita' e di garanzia in quelle decisioni. In definitiva, si deve ritenere che il legislatore, nel dettare l'ultimo comma dell'art. 3, abbia oltrepassato i limiti della propria discrezionalita', che andava comunque esercitata in modo coerente rispetto alle premesse poste nel primo comma, onde non violare la norma di riferimento, costituita dall'art. 100, secondo comma, della Costituzione. 3. - Illegittimita' del comportamento, connesso a quello omissivo e diretto, anzi, a convalidarlo, concretatosi nella modifica dell'art. 7, decimo comma, del d.-l. n. 232 del 1993. Illegittimita' costituzionale, sotto vari profili (nonche' in posizione subordinata) dell'art. 3, tredicesimo comma, e dell'art. 8, primo comma, della legge n. 20 del 1994 per violazione dell'art. 77, secondo e terzo comma, della Costituzione, anche con riferimento all'art. 15, secondo comma, lett. b) e terzo comma, della legge n. 400 del 1988. E' doveroso, a questo punto, aggiungere che se la legge n. 20 del 1994 fosse una legge di conversione, essa sarebbe altresi' viziata per aver fatto salva una catena di decreti-legge che incidevano pesantemente nelle competenze della ricorrente, in violazione della disciplina costituzionale dell'art. 77 della Costituzione. Deve infatti ritenersi che la necessita' di riformare radicalmente la struttura e le competenze della Corte dei conti non autorizzava il Governo ad intervenire, con decreto-legge, in causa propria, e cioe' con riguardo alla disciplina del controllo che la ricorrente esercita sugli atti del Governo stesso. E cio' in forza di una regola fondamentale del nostro sistema, il quale, in ossequio alle istanze di garanzia dei diritti e delle liberta' individuali e di tutela delle minoranze, impedisce alla maggioranza di predisporre, da sola e per conto proprio, le regole che disciplinano i suoi stessi poteri. Regola che (con mera efficacia dichiarativa) e' oggi espressa nell'art. 15, secondo comma, lett. b) della legge n. 400 del 1988 con riguardo al divieto di provvedere con decreto-legge in "materia costituzionale". Ora, potrebbe bensi' sostenersi, in via teorica, che la legge n. 20 del 1994 sia, sostanzialmente, una legge di conversione, dal momento che adotta una disciplina analoga, nel contenuto, a quella dei precedenti decreti-legge non convertiti, dei quali fa altresi' salvi tutti gli effetti prodotti medio tempore. A nostro avviso questa tesi non sarebbe pero' condivisibile: tale ultima circostanza rimane infatti secondaria rispetto al fatto, inconfutabile, della mancata conversione del decreto-legge in oggetto, per la parte che ci riguarda; il che comprova che di "legge di conversione" non possa, nella specie, parlarsi. Il Parlamento ha invero manifestato nel modo piu' chiaro il suo dissenso rispetto all'uso del decreto-legge nella materia in esame: dapprima, non convertendo a piu' riprese il decreto-legge in oggetto, e costringendo il Governo a reiterarlo per ben quattro volte; e poi rifiutando espressamente la conversione alle disposizioni che ci riguardano. ln effetti le Camere avevano ben donde di lamentarsi il decreto- legge de quo (avente inizialmente il n. 54 del 1993, reiterato con i nn. 143, 232, 359 e 453) rappresenta quasi un esempio di scuola dell'abuso che (ormai quotidianamente) il Governo compie ai danni del Parlamento, violando i limiti imposti dall'art. 77 della Costituzione a tutela delle competenze legislative delle Assemblee. Le "Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti" mostrano infatti non solo l'intento del Governo di adeguare la disciplina dei giudizi di responsabilita' alle esigenze della lotta alla corruzione, ma addirittura l'ambizione dello stesso di ridefinire ex novo, con una riforma radicale, tutta la struttura e il funzionamento della Corte dei conti, sia in sede giurisdizionale, che in sede di controllo, in chiara violazione, ancora una volta, dell'articolo 77, secondo comma, della Costituzione, la' dove - nella interpretazione di esso data dall'art. 15, terzo comma, della legge n. 400 del 1988 - vieta che con il decreto-legge si possano porre in essere "misure che non siano di immediata applicazione", e il cui contenuto non sia specifico, omogeneo e corrispondente al titolo. Ebbene, la riforma della Corte dei conti era certo attesa da moltissimi anni, senza, pero', che, per questo, essa apparisse necessaria e urgente piu' di tante altre. Ed e' stata appunto questa la valutazione espressa dal Parlamento, nel momento in cui ha suggerito al Governo di trasformare una buona meta' del decreto in autonomo disegno di legge, onde consentire alle Assemblee di valutarlo con la serenita', e con le garanzie richieste dalla delicatezza del tema (v. l'atto Senato n. 1510 richiamato nella relazione governativa al d.d.l. n. 1656, XI Leg., Sen. rep.). Il Parlamento ha dunque accondisceso alla logica del "fatto compiuto" per la parte relativa alla "regionalizzazione" della Corte dei conti, che sembrava ormai (dopo quattro reiterazioni ..) cosa ormai impossibile da disfare (v. l'intervento del Ministro per la funzione pubblica, prof. Cassese, nella seduta del Senato del 30 novembre 1993); ma per la restante parte del decreto, relativa alla riforma delle competenze della Corte dei conti, ha reclamato le proprie prerogative costituzionali. La circostanza che poi, per un miracolo di tempestivita', la legge di disciplina della materia sia stata approvata nello stesso giorno della legge di conversione dell'altra parte, e sia entrata in vigore contemporaneamente alla prima, rimane un fatto politico: una prova di buona volonta' offerta dal Parlamento, ma del tutto irrilevante, a nostro avviso, in relazione alla natura della legge n. 20 del 1994, che non acquista per questo, la natura di legge di conversione. Solo in apparenza, infatti, il Governo ha raggiunto un risultato equivalente ad una legge di conversione; ed infatti, oltre a non ottenere la novazione della fonte, ossia la retroattiva convalida delle disposizioni contenute nel decreto (del quale sono stati sanati solo gli effetti), il Governo non ha avuto a suo favore nemmeno un formale "bill d'indennita'". La mancanza di quest'ultimo rimane forse irrilevante sul piano politico, date le circostanze; ma non sul piano giuridico, perche' consente a codesta ecc.ma Corte di sindacare autonornamente il comportamento del Governo, il che non potrebbe avvenire - secondo la sua costante giurisprudenza - se il decreto fosse stato convertito. Le censure che si potrebbero rivolgere alla legge n. 20 del 1994, ove fosse considerata legge di conversione, debbono pertanto essere mantenute in subordine rispetto alla censura che si muove, con questo motivo di ricorso, al comportamento del Governo, in se' e per se' considerato. Se infatti la legge n. 20 del 1994 non e' una legge di conversione, ex art. 77, secondo comma, ma una legge di sanatoria, ex art. 77, terzo comma, cio' significa che essa non assolve il Govemo dalla responsabilita' che si e' assunto emanando i decreti-legge, ovvero non "fa proprio" quel comportamento del Governo: con l'effetto di lasciare spazio all'autonomo sindacato che codesta ecc.ma Corte volesse svolgere, per valutare se esso risulti lesivo delle competenze della ricorrente. Si noti che il sindacato cade appunto sul comportamento consistente nell'adozione dei decreti-legge (in quanto collegati al rifiuto di sottoporre a controllo il d.m. in epigrafe), e non sui decreti-legge stessi, dal momento che questi non esistono piu' nel mondo del diritto. Ebbene, l'illegittimita' di tale comportamento appare evidente, se solo si rifletta sulla concatenazione dei fatti. Da principio, il Ministro del tesoro sottrae, in violazione sia del d.-l. n. 143 del 1993 che del d.-l. n. 232 del 1993, un proprio atto al controllo preventivo; in seguito, il Governo modifica il decreto-legge contenente la norma di riferimento, in modo da convalidare l'atteggiamento del Ministro. Con un disegno ben definito, il Governo agisce, dunque, in causa propria, abusando del potere di decretazione d'urgenza che la Costituzione ad esso attribuisce, e lo fa al solo scopo di sottrarsi ad un controllo che giudica fastidioso, e quindi al fine di risolvere a suo favore, con un atto d'imperio, la contesa con la Corte dei conti. Come non ricordare, al riguardo, la sentenza n. 302 del 1988, con la quale codesta ecc.ma Corte sanzionava il ricorso ai decreti-legge, e alla loro reiterazione, avvenuti in violazione delle competenze costituzionalmente garantite alle Regioni? Oggi, come allora, si tratta di censurare un palese sviamento di potere rispetto alla disciplina posta dall'art. 77 della Costituzione, nell'interpretazione, assolutamente corretta, ad esso data dall'art. 15 della legge n. 400 del 1988 (sia al secondo comma lett. b) che al terzo comma); sviamento che non e' stato sanato dal Parlamento, e che rimane pertanto censurabile in questa sede per la grave menomazione che esso apporta alle attribuzioni costituzionali della ricorrente.