IL PRETORE
    Ha   pronunciato   la   seguente   ordinanza   dibattimentale  nel
 procedimento penale n. 93/714, reg. dibattimento, a carico di Ferioli
 Alessandro e Gelli Paolo, imputati del  reato  di  cui  all'art.  21,
 terzo  comma,  legge  n.  319/1976, osserva che il p.m. di udienza ha
 richiesto pronuncia di questo pretore in ordine  all'ipotesi  di  non
 manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale
 dell'art.  3  del  d.-l.  17 settembre 1994, n. 537, con trasmissione
 degli atti alla Corte costituzionale, argomentando che detto articolo
 che modifica il terzo comma dell'art. 21 della  legge  Merli  prevede
 una manifesta disparita' di trattamento tra coloro che scaricando non
 osservano  i  limiti di accettabilita' previsti dalle tabelle, per la
 cui fattispecie la  sanzione  comminata  dal  legislatore  e'  penale
 soltanto  laddove  lo  scarico  supera  di  oltre  il 20% i limiti di
 accettabilita' delle tabelle stesse, e coloro che ai sensi del  primo
 comma  dell'art.  21  della  legge  Merli  scaricano  in  difetto  di
 prescritta autorizzazione, fattispecie per la quale il legislatore ha
 previsto l'obbligatorieta' della sanzione penale. A parere  del  p.m.
 la  norma  citata  si  pone  in  contrasto  con gli artt. 3 e 9 della
 Costituzione per manifesta disparita'  di  trattamento  sanzionatorio
 che  il  legislatore  ha previsto per fattispecie analoghe ed anzi di
 maggiore gravita' sostanziale per quanto in particolare  concerne  la
 modifica  del  comma  3 dell'art. 21 della legge-Merli come novellato
 dal decreto-legge citato.
    In contrasto altresi' con l'art. 9 della Costituzione in relazione
 al  secondo  comma  dell'articolo  stesso  in   quanto   la   mancata
 applicazione   della   sanzione  penale  nella  fattispecie  prevista
 dall'art. 3 del decreto-legge citato appare insufficiente a  tutelare
 il  paesaggio  nell'accezione  piu'  lata che recenti pronuncie delle
 Corti Supreme hanno dato alla nozione del paesaggio; infine la  norma
 in  questione  appare  in  contrasto  altresi'  con  l'art.  10 della
 Costituzione che impone allo Stato italiano di conformarsi alle norme
 del diritto internazionale generalmente riconosciute  laddove  omette
 la  sostanziale  applicazione  e  attuazione  delle  direttive CEE in
 materia di inquinamento ambientale.
    Osserva il pretore che la richiesta  del  p.m.  e'  fondata  e  si
 ritiene, pertanto, di dover dichiarare rilevante e non manifestamente
 infondata,   per   violazione  degli  artt.  3,  9,  10  e  32  della
 Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 3
 del d.-l. 17 settembre 1994, n. 537, il quale,  nella  sua  integrale
 stesura  prevede,  in  modifica  globale del terzo comma dell'art. 21
 della legge n. 319/1976 e succ. mod. che "fatte salve le disposizioni
 penali di cui al primo ed al secondo comma, l'inosservanza dei limiti
 di accettabilita' di cui alle tabelle allegate alla  presente  legge,
 ovvero  di  quelli  stabiliti  dalle  regioni, ai sensi dell'art. 14,
 secondo comma, nei rispettivi limiti e modi di  applicazione,  ovvero
 di  quelli  specifici  eventualmente  prescritti  in sede di rilascio
 dell'autorizzazione o di modifica della stessa, ove  non  costituisca
 reato o circostanza aggravante di altro reato connesso, e' punita con
 la  sola  sanzione amministrativa pecuniaria da lire 3 milioni a lire
 30 milioni, salvo diversa  disposizione  della  legge  regionale.  In
 deroga a quanto previsto dal terzo comma, per gli scarichi diversi da
 quelli   provenienti   da   insediamenti  abitativi  o  adibiti  allo
 svolgimento di attivita' alberghiera turistica, sportiva, ricreativa,
 scolastica e sanitaria, in caso di superamento, in  misura  superiore
 al  20 per cento, dei limiti di accettabilita' previsti dalle tabelle
 allegate alla presente legge, o di quelli stabiliti dalla regione, ai
 sensi dell'art. 14, secondo comma, si applica la pena dell'ammenda da
 lire 10 milioni a lire 100 milioni. Si applica la  pena  dell'ammenda
 da  lire  20  milioni  o  la pena dell'arresto da due mesi a due anni
 qualora siano superati i limiti di accettabilita' inderogabili per  i
 parametri di natura tossica, persistente e bioaccumulabile, di cui al
 n. 4) del documento unito alla delibera 30 dicembre 1980 del comitato
 interministeriale   previsto   dall'art.   3  della  presente  legge,
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 9 del 10 gennaio  1981,  e  di
 cui all'elenco allegato 1 della delibera medesima".
   La  valutazione  del  caso  in  questione richiede un riesame degli
 aspetti giuridici della tutela ambientale, cosa non  agevole  per  la
 vastita' dei problemi sollevati dalle due fondamentali leggi che sono
 state  promulgate  in  merito,  e  precisamente dalla legge 10 maggio
 1976, n. 319, meglio conosciuta sotto il nome di legge Merli, e della
 successiva legge 24 dicembre 1979,  n.  650,  comunemente  denominata
 Merli- bis.
    La  citata  legislazione  speciale  non  si  inseriva  in un vuoto
 normativo, poiche' gia' prima  della  legge  Merli  esistevano  degli
 scarichi  inquinanti, anche se il bene giuridico protetto era il piu'
 vario. Basti pensare alle norme del testo  unico  delle  leggi  sulla
 pesca  del  1931,  che nell'art. 9 prescrivevano l'autorizzazione del
 presidente  della  giunta  provinciale  per   l'effettuazione   degli
 scarichi  industriali  in  acque  pubbliche, conferendo alla predetta
 autorita' il potere di imporre prescrizioni atte  ad  impedire  danni
 all'ittiofauna   e   ad   obbligare   chi   determinava  fenomeni  di
 inquinamento ad eseguire opere  di  ripopolamento  ittico.  L'art.  6
 della  stessa  legge,  poi,  vietava,  tra  l'altro  di  gettare o di
 infondere nelle  acque  materie  atte  ad  intorpidire,  stordire  od
 uccidere  i  pesci,  con  la  conseguenza  che  attraverso  la tutela
 dell'ittiofauna    veniva    preservato    il    corso     dell'acqua
 dall'inquinamento  o  comunque  da  forme  di  inquinamento  che  non
 consentissero la vita dei pesci.
    Le norme del testo unico sanitario che disciplinavano direttamente
 l'igiene e la salubrita' dell'ambiente svolgevano parimenti un  ruolo
 importante,  ad  esempio  in  relazione  allo smaltimento delle acque
 immonde, delle materie escrementizie e di altri rifiuti che ai  sensi
 dell'art.   218  dovevano  avvenire  in  modo  da  non  inquinare  il
 sottosuolo, o in relazione al divieto di immissione nei corsi d'acqua
 che attraversavano l'abitato di fogne o canali di raccolta  di  acque
 immonde,   tra   cui  le  acque  inquinate  provenienti  da  scarichi
 industriali, previsto dall'art. 227.
    Il codice penale, infine sotto il titolo VI  dedicato  ai  delitti
 contro  l'incolumita'  pubblica sanzionava penalmente l'avvelenamento
 doloso o colposo di acque destinate  all'alimentazione  umana,  prima
 che  fossero  attinte  o  distribuite per il consumo (vedi i problemi
 collegati all'uso di atrazina).
    Altre norme del codice penale che  non  sembrano  disciplinare  il
 fenomeno  dell'inquinamento, neanche indirettamente, furono applicate
 dai  pretori  cosiddetti  di  "assalto",  attraverso  una  opera   di
 intelligente   interpretazione   giurisprudenziale,   sostanzialmente
 recepita dalla Suprema Corte di cassazione.
    Fu cosi' ritenuto applicabile l'art. 635  del  codice  penale  che
 sanziona  la  condotta  di  chiunque  distrugge, disperde deteriora o
 rende, in tutto o in parte inservibili come mobili o immobili altrui,
 con la contestazione frequente dell'aggravante di cui al n. 3,  comma
 secondo, della norma, in relazione all'ipotesi prevista dall'art. 625
 n.  7  del  c.p.,  per  la  natura  pubblica,  la destinazione ad uso
 pubblico o per la esposizione alla pubblica fede  del  corso  d'acqua
 inquinata.
    Fu la stessa giurisprudenza di merito a ritenere applicabile anche
 l'art.  674  del  c.p.  che  punisce il getto pericoloso di cose e in
 particolare la condotta di colui che getta o versa  in  un  luogo  di
 pubblico  transito  o  in luogo privato ma di comune o di altrui uso,
 cose atte ad offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero,  nei
 casi  non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori
 o di fumo, atti a cagionare tali effetti, in  tutti  i  casi  in  cui
 dallo  svernamento  delle  sostanze  inquinanti  potesse  derivare un
 pericolo per la salute o anche per  la  decorosa  parvenza  esteriore
 della persona umana.
    Ora  appare  evidente  che  tutte  le norme richiamate, la maggior
 parte delle quali devono ritenersi ancora  vigenti,  non  assolvevano
 pero'  all'esigenza,  da  piu' parti sentita, di disciplinare in modo
 organico  la  materia  degli  scarichi  per   una   migliore   tutela
 dell'ambiente.
    Questo  obiettivo  risulta  appunto  consacrato  nell'art. 1 della
 legge 10 maggio 1976, n. 319, il quale alla lettera A),  testualmente
 recita "la presente legge ha per oggetto la disciplina degli scarichi
 di qualsiasi tipo, pubblici e privati diretti e indiretti in tutte le
 acque  superficiali e sotterranee interne e marine, sia pubbliche che
 private, nonche' in fognature, sul suolo e nel sottosuolo".
    Occorre subito chiarire che la legge non fornisce  la  nozione  di
 scarico   e  che,  contrariamente  a  quanto  potrebbe  apparire,  il
 significato del termine non e' riferibile a tutti i tipi  di  scarico
 in senso assoluto.
    La  giurisprudenza e la dottrina, attraverso lo studio sistematico
 della normativa,  compresa  la  legge  di  parziale  modifica  dell'8
 ottobre  1976, n. 690, e la delibera del comitato dei Ministri per il
 rilevamento delle caratteristiche dei  corpi  idrici  e  dei  criteri
 metodologici  per  la  formazione e l'aggiornamento dei catasti del 4
 febbraio 1977, hanno precisato il concetto nei seguenti termini:
       a) deve trattarsi innanzitutto di sostanze di scarto, cioe'  di
 rifiuti derivanti dall'utilizzazione di altre sostanze;
       b) in secondo luogo, le sostanze devono essere liquide o quanto
 meno  solubili in acqua, poiche' solo in tali condizioni e' possibile
 realizzare la misurazione dei limiti di accettabilita' degli scarichi
 con  riferimento  alle  tabelle  allegate  alla  legge   cosi'   come
 prescritto dall'art. 9.
    Cio'  che viene misurato infatti, e' l'acqua la quale non puo' che
 essere l'acqua di rifiuto dell'insediamento.
    Cio' risulta evidente dalla lettura del titolo IV della  legge  ed
 in particolare dagli artt. 9, 10, 12 e 15.
   Il  primo  stabilisce,  in  proposito,  che  la  misurazione  degli
 scarichi si intende effettuata subito a monte del punto di immissione
 nei corpi ricettori di cui all'art. 1, lett.  A),  che  gli  scarichi
 devono   essere  resi  accessibili  per  il  campionamento  da  parte
 dell'autorita'   autorizzata   ad   effettuare   all'interno    degli
 insediamenti   produttivi   tutte   le  ispezioni  che  essa  ritenga
 necessarie per l'accertamento delle condizioni che danno  luogo  alla
 formazione degli scarichi.
    Le  altre norme poi, nel disciplinare le modalita' per il rilascio
 dell'autorizzazione allo  scarico  degli  insediamenti  produttivi  e
 civili, esistenti o di nuova realizzazione presuppongono tutte che vi
 sia  un  impianto  di scarico, funzionante con una certa continuita'.
 Cio' viene anche confermato dal contenuto dell'art. 5 della legge che
 attribuisce  alle  provincie  il  compito di effettuare il catasto di
 tutti gli scarichi pubblici e privati nei corsi d'acqua superficiali.
    La legge, pertanto, secondo taluni non trova applicazione nei casi
 di scarico di sostanze solide non solubili in acqua  e  nei  casi  di
 scarichi  occasionali  non  ricollegabili  immediatamente ad impianti
 stabili. Tali ipotesi  sarebbero  applicabili  altre  norme,  sia  di
 natura  amministrativa, quali ad esempio la legislazione regionale in
 materia di rifiuti solidi, sia di natura penale qualora ne sussistono
 i presupposti (ad es. l'art. 674 del c.p. nel  caso  di  pericolo  di
 imbrattamento  o comunque di offesa alla persona, gli artt. 439 e 452
 del c.p.,  qualora  dal  fatto  derivi  l'avvelenamento  delle  falde
 acquifere, e secondo taluni, l'art. 6 del testo unico sulla pesca, se
 ne sia derivato un pericolo per la vita dei pesci e cosi' via).
    Secondo   altri  per  definire  il  concetto  di  scarico  occorre
 riconsiderare la nozione di scarichi che compare nella norma  di  cui
 all'art.  21 della legge n. 319, onde realizzare il superamento della
 definizione   restrittiva   prevalente   in   dottrina   sino    alla
 promulgazione  della  legge  n.  650/1979.  In  effetti all'art. 1 il
 legislatore ha disciplinato, come si e' detto, gli scarichi  ma  tale
 previsione va collegata con quella contenuta nell'art. 26, che abroga
 ogni  altra  norma  che  disciplina  la  materia  in  questione,  sia
 direttamente che indirettamente.  Il  precetto  comune  e'  contenuto
 nell'art.  9,  secondo  il  quale  "tutti  gli scarichi devono essere
 autorizzati".
    Dalla modifica operata da parte della legge 29 dicembre  1979,  n.
 650, all'art. 11 possono ricavarsi concreti elementi a sostegno della
 posizione  che  si  sta  illustrando, imponendosi una interpretazione
 lata dalla nozione di scarico, e quindi dell'ambito  di  applicazione
 della intera normativa dell'inquinamento idrico.
    La  modifica  in  questione  ha  determinato la soppressione della
 espressione "immissione diretta di rifiuti di lavorazioni industriali
 o provenienti da servizi pubblici o da insediamenti di qualsiasi spe-
 cie" con quella onnicomprensiva di "scarichi".
    Ove si sia d'accordo nel ritenere che  la  nozione  soppressa  sia
 compresa  nel  termine con il quale si e' operata la sostituzione, la
 conseguenza sul piano pratico  sara'  che  nel  concetto  di  scarico
 andra'  compreso  anche quello derivante da singoli episodi isolati o
 periodici, oltre quello proveniente da insediamento.
    Tutto cio' comporta la positiva  conseguenza  di  un  allargamento
 della  sfera di applicazione delle norme antinquinamento, dotando gli
 operatori di sempre maggior strumenti.
    Quanto alla disciplina  degli  scarichi,  la  legge  prescrive  in
 particolare che:
       a)  gli  scarichi degli insediamenti produttivi (art. 12 e art.
 13) devono rispettare direttamente le tabelle. Fanno eccezione i soli
 scarichi gia' esistenti al 13 giugno 1976 (data di entrata in  vigore
 della  legge) immessi in pubbliche fognature provviste di impianto di
 depurazione  funzionante.  In  tal  caso  il  comune   che   gestisce
 l'impianto puo' prescrivere limiti piu' permissivi;
       b)   gli   scarichi  degli  insediamenti  civili  in  pubbliche
 fognature  sono  sempre  ammessi  purche'  osservino  i   regolamenti
 comunali (art. 14, primo comma);
       c) gli scarichi da pubbliche fognature e da insediamenti civili
 che  non  scaricano  in  pubbliche fognature (art. 14, secondo comma)
 sono disciplinati dalle regioni, le quali devono  tener  conto  delle
 direttive  statali  (emesse  con  delibera del 30 dicembre 1980), dei
 limiti delle tabelle e delle situazioni locali.  In  particolare,  le
 citate  direttive  statali,  mentre  sono  molto elastiche e nulla di
 preciso prescrivono in relazione a questi insediamenti civili  (salvo
 la  predisposizione  di incentivi per favorirne l'allaccio in fogna),
 stabiliscono invece per le pubbliche fognature  che  le  regioni  non
 possono  mai  derogare  ai  limiti  piu'  restrittivi  previsti dalle
 tabelle in relazione ai parametri di natura  tossica,  persistente  e
 bioaccumulabile  (specificati  in un elenco) e che, quanto agli altri
 parametri, deroghe (permissive) alle  tabelle  sono  consentite  solo
 quando  "la  presenza  degli  scarichi  provenienti  da  insediamenti
 produttivi  non  sia  tale  da  conferire  al  liquame  in   ingresso
 all'impianto     di     depurazione    caratteristiche    qualitative
 sostanzialmente  diverse  da  quelle   attribuibili   agli   scarichi
 provenienti  da  soli  insediamenti  civili". Solo quando, cioe', gli
 scarichi  industriali  siano  di  minima  entita'   o   siano   stati
 efficacemente pretrattati a monte.
    Quanto  alle  sanzioni,  la  omessa richiesta di autorizzazione e'
 punita alternativamente con l'ammenda da 1.500.000 a 10 milioni o con
 l'arresto da due mesi a due anni (art. 21, primo  e  secondo  comma),
 mentre,  per  il  superamento  dei  limiti,  l'art.  21, terzo comma,
 prevede che "si applica sempre la pena dell'arresto (da  due  mesi  a
 due anni) se lo scarico supera i limiti di accettabilita' di cui alle
 tabelle  allegate  alla  legge,  nei  rispettivi  limiti  e  modi  di
 applicazione", con la ulteriore pena accessoria della incapacita'  di
 contrattare con la pubblica amministrazione.
    In  conclusione,  la  legge  Merli basa la sua operativita' su tre
 ordini di obblighi, tutti penalmente  sanzionati  e  tutti  fra  loro
 connessi,  nei  confronti  dei  titolari  di  scarichi:  l'obbligo di
 richiedere l'autorizzazione, l'obbligo di rispettare le  prescrizioni
 dell'autorizzazione  e  l'obbligo  di  rispettare  limiti prefissati,
 direttamente o indirettamente, dalla legge.
    Con riferimento a tale quadro normativo venivano emessi una  serie
 di decreti-legge l'ultimo dei quali redatto dal governo Berlusconi il
 17  settembre  1994  con il n. 537. Le principali modifiche apportate
 alla legge Merli dal citato decreto sono:
       A) in relazione all'obbligo di richiedere autorizzazione,  dopo
 18  anni,  si riaprono i termini per tutti gli inadempienti e, per il
 passato, si riazzera tutto e si  estinguono  i  reati  gia'  commessi
 purche'  i contravventori presentino, oggi, domanda di autorizzazione
 in sanatoria entro i 90 giorni e paghino 1 o 3 milioni (art. 5);
       B) quanto ai limiti da  rispettare  nello  scarico,  scompaiono
 quasi  del  tutto  gli  obblighi  (validi  a livello nazionale) delle
 tabelle (art. 1, comma primo  e  art.  2).  Gli  scarichi  dei  nuovi
 insediamenti produttivi in pubbliche fognature con impianto terminale
 di  depurazione  (prima  obbligati  a rispettare almeno la tabella C)
 quelli da pubbliche fognature e quelli degli insediamenti civili  non
 in  pubbliche  fognature devono rispettare limiti non piu' prefissati
 ma rimessi alla discrezionalita' di regioni  o  comuni,  che  possono
 tranquillamente derogare alle tabelle; anche se, l'immediato e fino a
 nuove    direttive,   "restano   ferme   le   prescrizioni   adottate
 anteriormente  ed  in  particolare quelle di cui alla delibera del 30
 dicembre 1980". Di modo che vengono  penalizzate  le  regioni  che  a
 questa delibera si erano adeguate e vengono premiate le inadempienti;
       C)  la  inosservanza  dei  limiti tabellari e non e' punita, di
 regola, non piu' con sanzione penale ma con  sanzione  amministrativo
 da  3  a  30  milioni  "salvo diversa disposizione regionale" Con due
 eccezioni: scatta l'ammenda da 10 e 100  milioni  (oblabile,  con  33
 milioni)   solo   se  si  tratta  di  scarichi  non  "provenienti  da
 insediamenti  abitativi  o  adibiti  allo  svolgimento  di  attivita'
 alberghiera, turistica, sportiva, ricreativa, scolastica e sanitaria"
 - quindi, in sostanza, scarichi industriali o di pubbliche fognature,
 e  i limiti vengono superati in misura superiore al 20%. Infine ed e'
 la seconda eccezione alla  regola  della  sanzione  amministrativa  -
 scatta  la pena, ma alternativa e non piu' unica, dell'arresto da due
 mesi a due anni (ovvero ammenda da 20 a 200 milioni) nel caso in  cui
 il superamento riguarda i parametri tossici della delibera del 1980.
    Quanto  alle  ulteriori  conseguenze  per il superamento di limiti
 venuta  gia'  meno  con  il  nuovo  codice  di  procedura  penale  la
 possibilita'  di  custodia cautelare in caso di recidiva, il decreto-
 legge in esame cancella della legge Merli anche  la  pena  accessoria
 della incapacita' di contrattare con la pubblica amministrazione;
       D)  analogamente,  la  inosservanza  delle  prescrizioni  delle
 autorizzazioni allo scarico, sanzionata penalmente dalla legge  Merli
 con  arresto  o ammenda, comporta, con il decreto-legge in esame solo
 una sanzione amministrativa da 2 a 24 milioni.
    In conclusione, limiti certi vengono sostituiti da limiti  rimessi
 alla  discrezionalita'  quasi  totale  di  regioni  e  comuni, con il
 pericolo di gravi disparita' di trattamento di vuoti  di  tutela,  in
 piu',   la   inosservanza   di  questi  limiti,  con  il  conseguente
 inquinamento, di regola puo' comportare o una sanzione amministrativa
 pecuniaria ovvero una ammenda oblabile  senza  vero  rischio  penale.
 Questo   rischio,   paradossalmente,   resta   solo   per  violazioni
 soprattutto formali e "burocratiche" (quali la  omessa  richiesta  di
 autorizzazione  allo  scarico).  Ma, comunque, per esse dopo 18 anni,
 scatta una  totale  sanatoria  rispetto  al  passato,  premiando  gli
 inottemperanti e penalizzando chi ha rispettato la legge.
    Appare  evidente  che  il decreto-legge n. 537, scardina, o quanto
 meno depotenzia in modo rilevante,tutti e  tre  i  capisaldi  su  cui
 fonda  la  legge Merli (obbligo di richiedere autorizzazione, obbligo
 di rispettare  le  prescrizioni  dell'autorizzazione  ed  obbligo  di
 rispettare limiti prefissati).
    Per  tutto quanto sopra detto il decreto-legge in esame, come gia'
 rilevato da alcuni giudici (cfr. l'ord. del pretore di Vicenza del  2
 agosto  1994  con riferimento al precedente, ma simile decreto-legge,
 nonche', da ultimo, pretore Terni 27 settembre 1994),  e  lucidamente
 sostenuto  in scritti (G. Amendola) viola il principio di uguaglianza
 sancito dall'art. 3 della  legge  fondamentale  dello  Stato.  Appare
 evidente  che,  dopo  le modifiche introdotte dal decreto nel sistema
 sanzonatorio  della  legge   Merli,   la   violazione   di   obblighi
 "burocratici"  e  formali,  certamente  non ricollegabili ad un danno
 all'ambiente  quali  la  omessa  richiesta  di  autorizzazione   allo
 scarico, viene punita, ai sensi dell'art. 21, primo comma, come reato
 con la pena dell'arresto o dell'ammenda; mentre la fattispecie di ben
 maggiore  gravita'  sostanziale,  quale  l'inquinamento dell'ambiente
 provocato con il superamento dei limiti, prevista dall'art. 21, terzo
 comma, e proprio per questo sanzionata fino al decreto-legge in esame
 con  la  pena  piu'  severa  di  tutta  la  legge (solo arresto, pena
 accessoria), viene punita, di regola,  come  illecito  amministrativo
 con  una  sanzione  pecuniaria  ovvero,  salvo  ipotesi eccezionali e
 gravissime, al piu' con la sola ammenda  (con  tutte  le  conseguenze
 piu'  favorevoli  che  questo  comporta). Insomma, in tal modo, fatti
 gravi vengono illogicamente puniti in modo  molto  piu'  benevolo  di
 fatti  certamente  piu' lievi. Peraltro, in tal modo si introduce una
 disparita' di trattamento anche rispetto al sistema complessivo della
 normativa di tutela ambientale che si e' rappresentato in  precedenza
 (cfr.,   ad   esempio,   il   d.P.R.   24   maggio   1988,   n.  203,
 sull'inquinamento atmosferico da industrie), ed in particolare con le
 altre leggi che si occupano, come la  Merli,  di  inquinamento  delle
 acque (quale la legge a difesa del mare n. 979 del 31 dicembre 1981 e
 il  d.lgs.  27  gennaio  1992,  n.  133,  sugli  scarichi di sostanze
 pericolose),  le  quali  prevedono  tutte  sanzioni  penali  (e   non
 amministrative)  per  fatti  di  inquinamento  o per violazione delle
 prescrizioni dell'autorizzazione.
    In questo quadro, appare allora sufficiente richiamare la costante
 giurisprudenza della Corte costituzionale secondo cui il principio di
 eguaglianza consente al legislatore di  emanare  norme  differenziate
 riguardo  a  situazioni  obiettivamente diverse solo a condizione che
 tali norme rispondano all'esigenza che la disparita'  di  trattamento
 sia fondata su presupposti logici obiettivi, i quali razionalmente ne
 giustifichino  l'adozione (cfr. per tutta la sentenza n. 3 del 1963).
 Per cui la Corte ha dichiarato illegittime norme che  prevedevano  un
 trattamento  sanzionatorio  irrazionalmente  differenziato rispetto a
 quello previsto da altre fattispecie, diminuendo, ad esempio, la pena
 edittale minima per l'oltraggio (n. 341 del 1994);  ovvero,  con  una
 decisione  proprio  relativa all'art. 21 della legge Merli (ove si fa
 espresso riferimento anche al complesso della normativa  ambientale),
 eliminando   il  divieto  di  applicazione  di  sanzioni  sostitutive
 (sentenza n. 254 del 20-23 giugno 1994).
    Orbene, in questa sentenza, ricorda  la  Corte  che  si  viola  il
 principio  di eguaglianza qualora con leggi successive si dia vita ad
 un "sistema normativo assolutamente  squilibrato"  come  avviene,  ad
 esempio,  quando  si  favorisce  "chi  ha  posto  in  essere, fra due
 condotte gradatamente lesive dell'identico bene, quella connotata  da
 maggiore  gravita',  discriminando  invece chi ha realizzato il fatto
 che meno offende lo stesso valore  giuridico  (sentenza  n.  249  del
 1993)".  Esattamente  quello  che ha fatto il governo con il decreto-
 legge in esame.
    Ma l'art. 3 della Costituzione risulta violato anche  sotto  altri
 profili.   La  nuova  formulazione  dell'art.  14,  concedendo  ampia
 discrezionalita' alle regioni per la fissazione di  limiti  comporta,
 con   ogni   evidenza,  la  possibilita'  che  vi  siano  marcate  ed
 irrazionali disparita' di trattamento da regione a regione per cui un
 medesimo fatto  puo'  essere  considerato  illecito  penale  (con  il
 superamento del 20%) in una regione e lecito in un'altra.
    In   detto   svuotamento  sanzionatorio  di  uno  dei  reati  piu'
 importanti in materia di  tutela  ambientale  (forse  il  reato  piu'
 importante  in  assoluto  in  materia  di inquinamenti) si profila ad
 avviso dello scrivente pretore, in sintonia con il p.m.  di  udienza,
 una  violazione  del  disposto  dell'art.  9,  secondo  comma,  della
 Costituzione, laddove la tutela del paesaggio, inteso secondo le piu'
 recenti  pronunce  della  Corte   di   cassazione   e   della   Corte
 costituzionale, non deve essere inteso solo come bellezza estetica da
 cartolina ma come ambiente naturale in senso lato, quindi comprensivo
 anche degli inevitabili ed inscindibili aspetti bionaturalistici.
    Per  gli  stessi  motivi  esposti  in  relazione  all'art. 9 della
 Costituzione, si ritiene che la norma in esame si ponga in  contrasto
 anche con l'art. 32 della Carta costituzionale.
    Infatti,  nel  concetto  di  tutela  della  salute  come principio
 costituzionalmente garantito deve, per forza di cose,  ricomprendersi
 il  piu'  vasto  concetto  della  salute  pubblica  nel  senso  della
 salubrita' dell'ambiente naturale ed  urbano  ove  ciascun  cittadino
 vive.  Il  diritto alla salute inteso anche come diritto all'ambiente
 salubre e' stato ormai ripetutamente accertato in giurisprudenza  (si
 veda  per  tutte  la famosa sentenza delle sezioni unite n. 517 del 6
 ottobre 1979, nonche' la Corte costituzionale  in  data  31  dicembre
 1987, n. 641, ed in data 16 marzo 1990, n. 17). E' fuor dubbio che la
 diminuita,  ed  anzi  per  certi  versi  di fatto del tutto caducata,
 possibilita' di intervento deterrente/punitivo in sede di illeciti da
 inquinamento  idrico  crea   i   presupposti   per   una   evoluzione
 incontrollata  del  fenomeno,  incoraggiata  dall'abbassamento  della
 guardia in sede di controlli di p.g.  e  possibilita'  di  intervento
 processuale; e tutto questo si traduce in via diretta in un danno per
 la  salute  e  salubrita'  pubblica  in  un  ambiente che resta cosi'
 maggiormente ed incontrollatamente esposto al degrado inquinante.
    Va ancora rilevato che la norma in  esame  pare  porsi  in  totale
 contrasto   con  gli  obblighi  che  derivano  al  nostro  Paese  per
 l'appartenenza all'Unione europea. Gia' due volte la Corte europea di
 giustizia ha condannato il nostro  Paese  per  il  contrasto  tra  la
 "legge  Merli"  e  le direttive comunitarie, tra l'altro anche per la
 permissivita'  del  sistema  autorizzatorio   previsto   e   per   la
 "insufficienza"  delle  sanzioni  penali  previste  dall'art.  22  in
 relazione alla inosservanza  delle  prescrizioni  dell'autorizzazione
 (Corte  di  giustizia  28 febbraio 1991 e 13 dicembre 1990). La sopra
 esposta generale regressione sanzionatoria creata  dal  decreto-legge
 in  esame  concretizza  di  conseguenza  una ulteriore evoluzione del
 grado di inadempienza italiana verso le  direttive  CEE  e  verso  le
 sentenze della Corte europea.
    Peraltro  il  decreto  stesso,  eliminando  i limiti certi per gli
 scarichi da pubbliche fognature si pone in evidente contrasto con  la
 direttiva  CEE  n. 271 del 21 maggio 1991 sul trattamento delle acque
 reflue urbane, che lo Stato italiano  avrebbe  dovuto  gia'  recepire
 entro  lo  scorso  giugno  1993  e  che  fissa  obblighi e limiti ben
 precisi, con ben pochi margini  di  discrezionalita'  specie  per  le
 "aree  sensibili".  E del resto il contrasto e' apparso evidentemente
 gia' in sede di redazione del testo in esame se il decreto  specifica
 espressamente  nell'art.  1,  comma  terzo,  che "le disposizioni del
 presente  decreto  si  applicano  in  attesa  dell'attuazione   della
 direttiva  91/217/CEE del 21 maggio 1991". Dunque da un lato l'Italia
 non ha recepito la direttiva CEE nei termini stabiliti  e  dall'altro
 ha  adottato un decreto-legge in antitesi ai principi della direttiva
 stessa, con una mora temporale applicativa illogica. Ove  il  decreto
 n.  537  dovesse  essere  convertito in legge, le sue prescrizioni si
 applicheranno dunque finche' non si sara' data attuazione alla citata
 direttiva;  attuazione  che  dovrebbe  avvenire,  secondo  la   legge
 comunitaria  1993, n. 146 del 22 febbraio 1994, entro il marzo 1995 e
 cioe' entro i pochissimi mesi; e, peraltro, con  rigidi  principi  di
 attuazione  predeterminati  dal  Parlamento (art. 37, primo comma) in
 evidente contrasto con la elasticita' e genericita'  del  decreto  in
 esame,  il  che  provochera'  ulteriore  confusione ed incertezza del
 diritto.
    Ed in ogni caso va  sottolineato  che,  secondo  la  citata  legge
 comunitaria,  il  Governo dovrebbe dare attuazione a questa direttiva
 provvedendo all'"adeguamento della normativa vigente alla  disciplina
 comunitaria,  apportando  alla  prima  ogni  necessaria  modifica  ed
 integrazione allo scopo di definire un quadro  omogeneo  ed  organico
 delle disposizioni di settore" (art. 36, lett. c).
    Dato  il carattere regressivo in sede sanzionatoria del decreto n.
 537, ritiene lo scrivente che si appalesa un contrasto con l'art.  10
 della  Costituzione  per  mancata conformazione alle citate norme del
 diritto internazionale.
    Da quanto  sopra  esposto  emerge  la  rilevanza  della  sollevata
 eccezione  sul  caso  in  esame,  ove  si  renderebbe  necessaria una
 indagine sul livello di superamento  dei  limiti  tabellari,  con  le
 differenze  normative  richiamate  e le diverse strategie processuali
 percorribili da parte della difesa, sia in caso  di  rigetto  che  di
 accoglimento della eccezione.