IL PRETORE
   Letti gli atti del procedimento penale a carico di  Garofalo  Elvio
 nato  ad  Agropoli  (Salerno) il 22 novembre 1930, imputato del reato
 previsto e punito "dall'art. 25 del  d.P.R.  n.  915/1982  per  avere
 installato  e  gestito  quale  legale  rappresentante  della Societa'
 Trascavi S.r.l., un  impianto  di  smaltimento  di  rifiuti  speciali
 derivanti  da  demolizioni,  costruzioni e scavi (d.P.R. n. 915/1982,
 art.  2,  comma  quarto,  n.  3)  in  assenza  della   autorizzazione
 amministrativa prescritta dall'art. 6, lettera d), della citata legge
 nonche'  della  legge  regionale n. 30/1987, primo comma, lettera e),
 come modificata dagli articoli  5  e  22  della  legge  regionale  n.
 65/1988. Fatto accertato in Trebiciano-Trieste il 14 luglio 1992";
    Rilevato  che in pendenza del presente giudizio sono stati emanati
 e reiterati piu' decreti-legge (a tutt'oggi  non  convertiti),  e  da
 ultimo  quel  d.-l.  7 gennaio 1995 n. 3, sul riutilizzo dei residui,
 derivanti da cicli  di  produzione  o  di  consumo,  in  un  processo
 produttivo o in un processo di combustione;
    Ritenuto   che   l'art.   2,   quarto   e  quinto  comma  di  tale
 decreto-legge, appare in contrasto  con  gli  artt.  3,  25,  secondo
 comma, 97, 10 e 11 della Costituzione;
    Ritenuto  che tale questione sia rilevante ai fini della decisione
 del presente giudizio e non manifestamente infondata;
                             O S S E R V A
    L'istruttoria dibattimentale ha evidenziato come l'attivita' posta
 in essere dall'imputato rientri nella fattispecie di cui  all'art.  3
 del d.-l. citato.
    La  difesa,  dopo  avere asserito che i materiali inerti di natura
 lapidea provenienti da scavi non possono essere  considerati  rifiuti
 ai  sensi  del d.P.R. n. 915/1982, in quanto oggetto di compravendita
 nel settore edilizio, ha prodotto a tal fine due bollettini ufficiali
 della Camera di commercio, industria, artigianato  e  agricoltura  di
 Udine  e  Milano, da cui risulta l'inclusione di essi tra i materiali
 quotati e  invocato  il  disposto  dall'art.  2,  quarto  comma,  del
 decreto-legge  n.  3/1995,  nonche'  evidenziato  la  loro inclusione
 nell'allegato I del d.m. 5 settembre 1994 (i cui effetti  sono  fatti
 salvi  dall'art.  21  del  d.-l.  n.  3/1995) tra i materiali quotati
 presso le camere di commercio che continuano ad  essere  esclusi  dal
 campo di applicazione del d.-l.
    Il  disposto  dall'art.  2,  quarto comma del decreto-legge citato
 definisce infatti i casi in cui i materiali quotati dalle  camere  di
 commercio,  sono  da  classificare  come  merci  o  prodotti e quindi
 "esclusi dal campo di applicazione della normativa (in questione)".
    Da una prima interpretazione della norma  potrebbe  desumersi  che
 tali   materiali  acquisiscano  la  qualifica  di  merci  o  prodotti
 ("purche' comunicati al Ministero dell'ambiente entro  l'11  novembre
 1993"),  anche  in  assenza  di qualsiasi provvedimento ministeriale,
 conservandola sino a "ricognizione positiva" (ma aggiungeremmo, anche
 "negativa"), come sembra arguirsi dal disposto del quinto comma dello
 stesso articolo, secondo cui la formazione - entro i 45 giorni  della
 entrata  in  vigore  del  decreto stesso - di un elenco nazionale dei
 materiali quotati, ha solo la funzione di evidenziare quelli tra essi
 che "continueranno" ad essere esclusi dal campo di  applicazione  del
 presente decreto e di quelli ai quali non si applichera' l'esclusione
 stessa.
    Cio'  determina  la  inevitabile  conseguenza  che  quei materiali
 continueranno a circolare come merci  o  prodotti,  senza  controlli,
 sino   a   quando  non  interverranno  i  provvedimenti  ministeriali
 suddetti.
    In quest'ultimo caso  potrebbe  verificarsi  la  inclusione  degli
 stessi  materiali  che  prima  circolavano  liberamente  come  merci,
 nell'elenco ministeriale  dei  materiali  ai  quali  non  si  applica
 l'esclusione e quindi essere "riclassificati" come residui.
    L'aggiornamento  periodico  di  cui  al settimo comma dello stesso
 articolo, non aiuta di molto l'interprete.
    Da quanto suesposto, discende che  se  alla  lettura  della  norma
 (art.  2,  quarto  comma,  del  d.-l.)  si  da'  una  interpretazione
 estensiva, nel senso di ritenere che vadano  esclusi  dall'ambito  di
 applicazione  del  decreto  in  questione,  i  materiali  quotati  in
 qualsiasi  listino,  mercuriale  o   borsa-merci   istituito   presso
 qualsiasi   camera   di  commercio  del  territorio  nazionale  (tale
 interpretazione sembrerebbe  avvalorata  dalla  modifica  intervenuta
 gia'  nel  decreto-legge 7 novembre 1994 n. 619 e da ultimo in quello
 n. 3/1995, essendo  stato  escluso  il  riferimento  alle  camere  di
 commercio  "dei  capoluoghi  di  Regione"),  essa  norma non dovrebbe
 sfuggire al sindacato di codesta Corte, per contrasto con  gli  artt.
 3, 25, 97, 10 e 11 della Costituzione.
    Analogamente,   se   si  desse  invece  una  lettura  restrittiva,
 ritenendo che l'esclusione trovi applicazione  solo  in  presenza  di
 materiali quotati nei listini della camera di commercio delle singole
 Regioni,  essa  non  sfuggirebbe a censura di costituzionalita' per i
 motivi che qui si esporranno.
    Sembra infatti che, la scelta del legislatore, di affidare ad  una
 autorita'  amministrativa,  il  potere  di  includere  o meno un dato
 materiale in un  listino  (e  quindi  sottrarlo  alla  normativa  sui
 rifiuti:  d.P.R.  n.  915/1982 e da ultimo a quello del decreto-legge
 citato con riferimento soprattutto agli artt. 3 e 5 e  segg.),  violi
 il  principio  di  uguaglianza  sostanziale  di  cui all'art. 3 della
 Costituzione, potendo dare origine  a  ingiustificate  disparita'  di
 trattamento  tra  Regione  e  Regione,  ove la identificazione di uno
 stesso materiale come "merce" avvenga in un capoluogo  di  Regione  e
 non  in un altro (cio' se aderisce alla seconda interpretazione della
 norma di cui all'art. 2,  quarto  comma  del  d.-l.)  e  altrettanto,
 qualora  si  accolga  la  prima  interpretazione  della norma citata,
 attesi  gli  spazi  temporali  vuoti  che  si  creerebbero  in attesa
 dell'elenco nazionale predisposto  sulla  base  dei  commi  quinto  e
 settimo dello stesso articolo.
    La  eventuale  diversa  qualificazione operata infatti dal decreto
 ministeriale,  qualora  venisse  riclassificato  come  "residuo"   un
 materiale   prima   quotato   come  merce,  determinerebbe  di  certo
 disparita' di trattamento tra  identici  beni  qualificati  ora  come
 merce  liberamente  circolante  ora  come  rifiuto e incertezza sulla
 liceita'/illiceita' del proprio comportamento da parte del cittadino.
    Il lasciare alla p.a. la discrezionalita', nel modo irrazionale in
 cui si e' detto, di valutare le fattispecie che possono avere o  meno
 rilevanza  penale,  sembra violare inoltre il principio della riserva
 di legge penale e quello di stretta legalita', potendo tali  condotte
 condurre  a  valutazioni  giudiziarie difformi sotto il profilo della
 rilevanza penale (gli stessi fatti  illogicamente  potrebbero  andare
 sic et simpliciter esenti da pena o essere invece puniti, qualora non
 venisse dimostrato che si tratti di "residui individuati" nei sensi e
 nei  termini  di cui all'art. 5 e segg. del d.-l. o non fosse provato
 la loro effettiva o oggettiva finalizzazione al riutilizzo).
    Sarebbe poi contrario ad ogni principio di civilta' giuridica,  la
 retroattiva applicazione di disposizioni penali (quelle del d.P.R. n.
 915/1982) a materiali dichiarati e regolati come "merci" nei listini,
 qualora  gli stessi fossero poi classificati come residui dai decreti
 ministeriali.
    La eventualita' di una mancata o parziale conversione del decreto,
 condurrebbe, poi per i fatti pregressi al decreto legge, come  quello
 in  esame,  a ritenere applicabile il d.P.R. n. 915/1982, non potendo
 la  norma  contenuta  in  un  decreto  legge  non  convertito   avere
 attitudine  (  ex  art.  77,  ultimo  comma  della  Costituzione)  ad
 inserirsi  in  un  fenomeno  successorio  quale  quello  disciplinato
 dall'art.  2,  commi secondo e terzo del c.p. (Corte cost. n. 51, dd.
 19  febbraio  1985),  per  cui,  potrebbe  arrivarsi  all'assurdo  di
 emettere sentenze del tutto diverse per fatti identici, a seconda del
 momento in cui gli stessi sono trattati.
    In  questo  quadro,  appare  corretto  il  richiamo  alla costante
 giurisprudenza di codesta  Corte  in  casi  simili,  secondo  cui  il
 principio  di  uguaglianza  consente  al legislatore di emanare norme
 differenziate riguardo a situazioni  obiettivamente  diverse  solo  a
 condizioni  che  tali norme rispondano all'esigenza che la disparita'
 di trattamento sia fondata su presupposti  logici  e  obiettivi,  che
 razionalmente ne giustifichino l'adozione (cfr. n. 3/1963).
    La  stessa  Corte  ha ritenuto violato il principio di uguaglianza
 quando con leggi successive si dia  vita  ad  un  "sistema  normativo
 assolutamente squilibrato" (sent. n. 254/94).
    Il  che  e'  avvenuto,  a  giudizio  di chi scrive - e pertanto si
 chiede una pronuncia sul punto - con  l'articolo  del  decreto  legge
 citato  che  ha  introdotto  una normativa squilibrata e contraria ad
 ogni principio di ragionevolezza.
    Inoltre il legislatore, dopo aver definito il concetto di  residuo
 (quale  si  ricava  dall'art.  3  lett.  g) e lett. a)), e dettato la
 relativa disciplina, ha demandato in primis alle camere di  commercio
 e  poi  al  ministero  dell'ambiente  la  esclusione  o  inclusione -
 dall'ambito di applicazione  del  decreto-legge  in  questione  -  di
 determinati materiali senza fornire presupposti, carattere, contenuto
 e   limiti   cui   dovra'   soggiacere   l'autorita'  amministrativa,
 nell'espletamento  dell'attivita'  delegata  e  quindi  ha  demandato
 all'autorita'  amministrativa tutti i termini normativi rilevanti per
 l'individuazione del fatto tipico, contraddicendo l'esigenza che  sia
 solo  la legge dello Stato a stabilire con sufficiente precisione gli
 estremi di un fatto o condotta penale.
    Ora, in ordine alla delimitazione dei rapporti tra legge penale  e
 fonti  subordinate,  e  giurisprudenza  costante di codesta Corte, e'
 stata quella di ritenere che il principio  di  legalita'  in  materia
 penale, sia soddisfatto sotto il profilo della riserva di legge (art.
 25,  secondo  comma,  Cost.),  allorche'  quest'ultima  determini con
 sufficiente specificazione il  fatto  cui  e'  riferita  la  sanzione
 penale.
    E'  necessario  che  la legge consenta di distinguere tra la sfera
 del lecito e quella dell'illecito, fornendo a tal fine un'indicazione
 normativa sufficiente ad orientare la condotta dei  consociati  (cfr.
 Corte cost. n. 364/1988 e 282/1990).
    Nel  caso  di  specie,  l'incertezza sulla liceita'/illiceita' del
 comportamento  e'  aggravata  dalla  possibilita'  di   aggiornamento
 periodico  di  cui  al  settimo  comma  dell'articolo  citato che non
 esclude un potere della p.a. nei termini  contraddittori  di  cui  in
 motivazione   (Camera   di   commercio/Min.   ambiente)   di  revoca,
 sostituzione  o  modifica   dei   materiali   contenuti   nell'elenco
 preesistente,  dando  vita  ad  una tecnica normativa suscettibile di
 indurre incertezze sul contenuto essenziale  dell'illecito  penale  e
 quindi   non   corrispondente   alle   esigenze   del   principio  di
 determinatezza.
    Ulteriore parametro normativo e'  l'art.  97  della  Costituzione,
 essendosi  determinata  una  situazione incompatibile con l'esercizio
 della giurisdizione ed in  particolare  con  il  principio  del  buon
 andamento della p.a. (e quindi delle decisioni giudiziarie).
    Quest'ultimo  richiede  maggiori  certezze  e  maggiore stabilita'
 delle  leggi,  costringendo  l'attuale  ricorso   alla   decretazione
 d'urgenza  -  ormai  in  voga  nel  nostro  Paese  da alcuni anni - a
 decisioni giudiziarie a volte difformi  su  identiche  situazioni;  a
 costi   elevati  dell'attivita'  giurisdizionale  per  le  lungaggini
 (rinvii in attesa della conversione) che si determinano nei  processi
 e alla conseguente necessita', per l'ufficio requirente, di ricorrere
 a  "fantasiose" impugnazioni al fine di evitare sperequate decisioni,
 in attesa che i termini -  ormai  dilatata  tra  la  emissione  della
 sentenza  di  primo  e  secondo  grado -, conducano ad un punto fermo
 sulla materia.
    L'articolo richiamato sembrerebbe contrastare infine con gli artt.
 10 e 11 della costituzione, a seguito della  entrata  in  vigore  del
 regolamento  CEE  del  Consiglio n. 259/1993 (approvato il 1 febbraio
 1993 ed entrato in vigore il 10 maggio 1994)  "sulle  spedizioni  dei
 rifiuti  all'interno  della Comunita' europea ed in entrata ed uscita
 dal suo territorio",  il  quale,  nell'allegato  II,  qualifica  come
 "rifiuti",   gli   stessi   residui   produttivi   che,   secondo  il
 decreto-legge in esame, possono ricadere sia nell'elenco dei  listini
 o  mercuriali  (e  quindi  circolare  liberamente come prodotti al di
 fuori del  campo  di  applicazione  del  decreto),  sia  nei  residui
 destinati al riutilizzo di cui al decreto-legge citato.
    Gia'  codesta  Corte  in  casi  similari  ha espresso il principio
 secondo  cui  una  legge  italiana  contrastante  con  la   normativa
 comunitaria,  comportando violazione di convenzioni internazionali ed
 in particolare degli impegni limitativi  della  sovranita'  nazionale
 assunti  con  la CEE, viola gli artt. 10 e 11 della Costituzione cfr.
 nn. 183/1973, 232/1975, 205/1976 e 163/1977).
    Nel caso di specie, lo Stato Italiano non solo non ha recepito  le
 direttive   CEE   (come   emerge   dall'art.  1,  quarto  comma,  del
 decreto-legge citato) entro i  termini  previsti  (aprile  1993),  ma
 consapevolmente  sta  legiferando  di  urgenza in contrasto con essa,
 basti pensare che i materiali quotati non  sono  piu'  soggetti  agli
 obblighi  comunitari (direttive CEE nn. 156 e 689 del 1991) stabiliti
 per i rifiuti (o residui) destinati al riutilizzo o al recupero.
    Le questioni prospettate appaiono rilevanti ai fini  del  presente
 giudizio,   dipendendo   dalla   loro   risoluzione  la  formula  del
 dispositivo da adottare.
    La dichiarazione di costituzionalita' della norma (art. 2,  quarto
 e  quinto  comma del decreto-legge citato) e quindi, la inclusione di
 materiali inerti provenienti da scavi nei  listini  della  camera  di
 commercio  di  Udine  e  Milano, comporterebbe l'inapplicabilita' del
 decreto-legge citato e la assoluzione della imputata, trattandosi  di
 "merce e non residuo".
    Viceversa,   una   eventuale   dichiarazione   di   illegittimita'
 costituzionale, condurrebbe  ad  una  eventuale  condanna,  salvo  il
 supplemento   di  indagine  sulla  sussistenza  della  causa  di  non
 punibilita' di cui all'art. 12, terzo comma del d.-l. n. 3/1995  (sul
 quale  articolo e' gia' stata sollevata questione di legittimita' dal
 pretore di Verona con ordinanza  n.  423  pubblicata  nella  Gazzetta
 Ufficiale del 13 luglio 1994).