ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  2, quinto
 comma,  del  d.P.R.  10  gennaio  1957,  n.  3  (Testo  unico   delle
 disposizioni  concernenti  lo  statuto  degli  impiegati civili dello
 Stato), promosso con ordinanza emessa il 14 maggio 1993 dal Tribunale
 amministrativo  regionale  per  la  Lombardia,  sezione  staccata  di
 Brescia,  sui ricorsi riuniti proposti da Macaluso Vincenzo contro il
 Ministero della pubblica istruzione ed altri, iscritta al n. 505  del
 registro  ordinanze  1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
 Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell'anno 1994;
    Visto l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del 20 aprile 1995 il Giudice
 relatore Francesco Guizzi;
                           Ritenuto in fatto
    1. - Il  Tribunale  amministrativo  regionale  per  la  Lombardia,
 sezione  staccata di Brescia, adi'to dal signor Vincenzo Macaluso per
 l'annullamento del decreto del Provveditore agli studi di Brescia che
 lo  esclude  dalla  graduatoria  per   supplenza   annuale,   e   per
 l'annullamento  della  decisione  di rigetto di un successivo ricorso
 gerarchico,  solleva,  in  riferimento  agli  artt.  3  e  97   della
 Costituzione,  questione  di legittimita' costituzionale dell'art. 2,
 quinto  comma,  del  d.P.R.  10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle
 disposizioni concernenti lo  statuto  degli  impiegati  civili  dello
 Stato),   nella   parte   in   cui  prevede  l'automatica  esclusione
 dall'accesso  ai  pubblici  impieghi   di   quei   soggetti   privati
 dell'elettorato attivo a seguito della dichiarazione di fallimento.
    Dopo aver ricordato che il ricorrente, inserito in una graduatoria
 provinciale  per  supplenza  annuale,  e'  stato escluso dalla stessa
 perche'  depennato  dalle  liste   elettorali   per   effetto   della
 dichiarazione   di   fallimento,   il   giudice   a   quo  invoca  la
 giurisprudenza di  questa  Corte  che  ha  censurato  la  irrogazione
 automatica  di  sanzione  disciplinare  (sentenza  n. 197 del 1993) e
 osserva che considerazioni analoghe varrebbero per  l'esclusione  dai
 pubblici   impieghi,   adottata   in   forma  indifferenziata  e  per
 fattispecie disomogenee (art. 2 della legge 7 ottobre 1947, n.  1058,
 e successive modificazioni).
    Il   sistema   andrebbe   percio'   ricondotto   a   razionalita',
 contemplando una valutazione del  caso  singolo,  che  eviterebbe  di
 equiparare  fattispecie  fra  loro assai diverse, anche perche' nella
 coscienza comune il fallimento  non  e'  piu'  evento  indicativo  di
 particolare  allarme sociale e, comunque, ha importanza di gran lunga
 inferiore rispetto alle altre ipotesi  contemplate  dalla  norma  che
 disciplina l'esclusione dall'elettorato attivo.
    2.  -  E'  intervenuto  il  Presidente del Consiglio dei ministri,
 rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
 concludendo   nel   senso   dell'inammissibilita'   o,  quanto  meno,
 dell'infondatezza della questione.
    La fissazione dei requisiti per  l'accesso  ai  pubblici  impieghi
 rientra nella discrezionalita' del legislatore, e la norma denunziata
 rappresenta  un  corretto esercizio di tale potere, sia alla luce del
 principio di ragionevolezza, sia con riguardo  al  canone  introdotto
 dall'art. 97 della Costituzione. Le norme che impediscono ai soggetti
 dichiarati  falliti  di accedere ai pubblici impieghi sono infatti le
 stesse che precludono il godimento dei diritti politici, tra le quali
 rientrano, oltre a quella in esame, ipotesi di pericolosita'  sociale
 risultanti da condanne penali.
    La  limitazione  del godimento dei diritti politici, per legge, e'
 consentita dall'art. 48 della Costituzione, con riferimento al  quale
 -  ricorda  l'Avvocatura  -  la  Corte  si e' pronunziata, proprio in
 ordine alla situazione del fallito, con la sentenza  di  infondatezza
 n.  43  del  1970; mentre la disciplina della destituzione di diritto
 non sarebbe comparabile con il caso  in  esame,  dove  si  tratta  di
 accertare  i  requisiti soggettivi per l'accesso al pubblico impiego.
 La destituzione presuppone, invero, l'esistenza  di  un  rapporto  in
 atto,  e  richiede  la  valutazione del comportamento del dipendente,
 diversamente da quanto accade per l'ammissione a un  concorso;  e  in
 tale   fase,   nessun  apprezzamento  discrezionale  potrebbe  essere
 effettuato, di norma, dalla pubblica amministrazione.
                        Considerato in diritto
    1. - Il  Tribunale  amministrativo  regionale  per  la  Lombardia,
 sezione  staccata  di  Brescia,  solleva  questione  di  legittimita'
 costituzionale dell'art. 2, quinto comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957,
 n. 3 (Testo unico delle disposizioni  concernenti  lo  statuto  degli
 impiegati   civili   dello   Stato),   nella  parte  in  cui  esclude
 "automaticamente" dall'accesso  al  pubblico  impiego  quei  soggetti
 privati  dell'elettorato  attivo  in  ragione  della dichiarazione di
 fallimento, sospettando che tale norma sia in contrasto con gli artt.
 3 e 97 della Costituzione.
    In base al quinto comma dell'art. 2 in esame, non possono accedere
 agli impieghi civili dello Stato i soggetti  esclusi  dall'elettorato
 politico  attivo e coloro i quali siano stati destituiti o dispensati
 dall'impiego presso una pubblica amministrazione.  L'art.  2  rinvia,
 cosi', alla disciplina positiva sull'elettorato attivo, dove lo stato
 di  fallimento  e'  ricompreso,  insieme con altre fattispecie, quale
 causa ostativa (v. dapprima l'art. 2 della legge n. 1058 del 1947,  e
 successive  modificazioni,  e  il testo unico approvato con d.P.R. 20
 marzo 1967, n. 223, art. 2, a sua volta novellato dall'art.  1  della
 legge  16  gennaio  1992,  n. 15; e, poi, il regolamento sull'accesso
 agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni, di  cui  al  d.P.R.  9
 maggio 1994, n. 487, art. 2, comma 3).
    Il giudice a quo insiste sulla sentenza di questa Corte n. 197 del
 1993,  ritenendo che il sistema andrebbe ricondotto a razionalita' in
 base ai principi affermati da tale decisione, che avrebbero carattere
 generale e  varrebbero,  dunque,  anche  per  l'accesso  al  pubblico
 impiego:  dall'accoglimento  della  questione  proposta seguirebbe la
 possibilita', per l'autorita' competente, di valutare i singoli  casi
 evitando  l'equiparazione  di fattispecie fra loro assai diverse. Non
 potendosi reputare il fallimento - cosi' conclude l'ordinanza - quale
 evento indicativo di grave  allarme  sociale,  idoneo  a  determinare
 l'esclusione  dal godimento dei diritti politici e, conseguentemente,
 dall'accesso ai pubblici impieghi.
    2.  -  Quest'ultimo  rilievo   potrebbe   essere   meritevole   di
 approfondimento,   alla  luce  sia  dell'esperienza  di  quest'ultimo
 decennio, che registra un notevole incremento delle dichiarazioni  di
 fallimento, anche "incolpevole", sia della riflessione dottrinale che
 -    nel    superare    la   sistemazione   tradizionale   imperniata
 sull'"indegnita'" del  fallito  -  ha  tenuto  altresi'  conto  delle
 eventuali   conseguenze   penali,  produttive  di  ulteriori  effetti
 giuridici.  Ma  il  giudice  rimettente  non  indirizza  il  sospetto
 d'incostituzionalita' sulla norma che ricomprende la dichiarazione di
 fallimento fra le cause ostative al godimento dei diritti politici (e
 quindi  sull'art.  2 del d.P.R. 20 marzo 1967, n. 223, come novellato
 dalla legge 16 gennaio 1992,  n.  15),  bensi'  sull'art.  2,  quinto
 comma,  del  d.P.R.  n.  3  del  1957,  nella  parte  in  cui esclude
 automaticamente dall'accesso ai pubblici impieghi il fallito.
    E', questo, un campo per il quale non e' evocabile il principio di
 gradualita' e di articolazione del procedimento. E, infatti, mentre i
 provvedimenti che portano alla  destituzione  (o  alla  decadenza  ex
 legge 18 gennaio 1992, n. 16) non possono avere carattere automatico,
 perche'  e'  necessario  ponderare  ogni  singolo caso, attraverso il
 procedimento disciplinare secondo il principio  affermato  da  questa
 Corte,  in particolare nella sentenza n. 197 del 1993 (ma v. anche le
 sentenze nn. 16 del  1991,  158  e  40  del  1990),  nell'accesso  al
 pubblico impiego occorre che i requisiti soggettivi siano definiti in
 termini  univoci dal legislatore; e il riconoscimento, in ipotesi, di
 un'ampia discrezionalita' alla pubblica  amministrazione,  in  questo
 campo,  rischierebbe  di compromettere i principi di eguaglianza e di
 buon andamento, pervenendo cosi' a esiti opposti a quelli perseguiti,
 in astratto, dall'ordinanza di rimessione.