IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento di sorvegliana relativo a Ghirardini Pasqualino nato a Belfiore (VR) il 26 marzo 1948 e detenuto nella cassa circondariale di Bari. O S S E R V A Il Ghirardini ha interposto reclamo ex art. 30-bis, della legge n. 354/1975, avverso il decreto in data 12 ottobre 1994 con cui il magistrato di sorveglianza di Bari ha disatteso per inammissibilita' la sua domanda di permesso premio. Detto giudicante, in particolare, ha reputato ostativo all'accoglimento della istanza il titolo del reato per cui l'interessato e' stato condannato (art. 630 del c.p.), non avendo il medesimo prestato la collaborazione con la giustizia, necessaria al superamento della preclusione normativa a termini del novellato art. 4-bis della legge n. 354/1975. Per la precisione il Ghirardini ha presentato due successive domande di permesso: nella seconda ha invocato l'applicazione dei principi enunciati con la sentenza della Corte costituzionale n. 306/1993, allegando di aver gia' reiteratamente beneficiato del permesso premio, esperienza questa che gli sarebbe stata irragionevolmente (perche' senza sua colpa) preclusa dal sopravvenire della nuova disciplina. Il magistrato ha confermato la precedente decisione di diniego, dichiarando che non risultava agli atti che il soggetto avesse gia' beneficiato di permessi durante l'attuale carcerazione, e che, comunque a suo giudizio la cit. sent. n. 306/1993 aveva disposto in tema di revoca di benefici gia' concessi, non gia' di concessione di benefici. Contro questa seconda decisione (decreto in data 12 ottobre 1994) il detenuto ha proposto il presente reclamo, rinnovando le argomentazioni presentate in prime cure. Rileva il Collegio che il Ghirardini, condannato con la sentenza 12 giugno 1985 della Corte di appello di Milano, e' stato detenuto dal 23 dicembre 1982 al 17 giugno 1988 e dal 13 ottobre 1988 al 5 dicembre 1991. Attualmente trovasi nuovamente ristretto sin dal 7 maggio 1992 e la scadenza della sua pena e' fissata al 22 novembre 1997. Nel corso di questa lunga carcerazione (oltre dieci anni effettivi) ha fruito, in realta', di oltre venticique permessi premio (dal 28 febbraio 1987 sino all'ultimo dell'8 novembre 1991) e risulta essere stato anche ammesso al lavoro all'esterno (art. 21 della legge penitenziaria) in Parma, sempre per breve periodo (dall'11 aprile 1988 sino alla sospensione della esecuzione della pena del 17 giugno 1988). Questi dati, evidentemente, non risultavano dalla cartella biografica agli atti del mag. di sorv., riguardante soltanto la carcerazione sofferta dall'ultimo arresto del maggio '92. Non puo' pertanto negarsi che l'eperienza del permesso costituisse ormai parte del programma di trattamento del detenuto, giudicata utile alla sua progressiva risocializzazione anche quale momento di passaggio verso benefici piu' ampi (che oggi, peraltro, appaiono a lui preclusi). Con l'entrata in vigore della legge n. 356/1992, che ha novellato l'art. 4-bis della legge n. 354/1975, il soggetto non e' piu' ammesso a fruire del permesso, salvo che non (abbia prestato o non) presti attivita' di collaborazione con la giustizia nei termini previsti dalla normativa; attivita' di collaborazione, come sottolinea la sentenza n. 306 innanzi citata, che da un lato potrebbe risultare incolpevolmente impossibile - e in specie con riferimento al sequestro di persona che "non di rado e' frutto di aggregazioni occasionali o comunque di strutture criminali circoscritte, che tendono a dissolversi con la cattura dei compartecipi" - dall'altro potrebbe non essere prestata per valutazioni "non ragionevolmente rimproverabili", quali il timore di gravi ritorsioni ai danni del collaboratore o dei suoi familiari. Tale sopravvenuto impedimento alla fruizione dei permessi interviene senza colpa del Ghirardini, che ha sempre tenuto condotta corretta nel corso degli stessi e non puo' ritenersi oggi collegato alla criminalita' organizzata, vuoi per la durata della carcerazione sofferta ed il lungo lasso di tempo ormai intercorso dalla commissione del reato (23 dicembre 1982), vuoi per le stesse caratteristiche del reato, che dalla lettura della sentenza risulta perpetrato da "una banda di nomadi giostrai" operante nel monzese, non da un'organizzazione collegata alla grande criminalita'. Alle stesse conclusioni, d'altronde, si perviene esaminando il certificato penale del Ghirardini (vi figura annotato un solo precedente per furto) ed anche alla luce del qualificato giudizio formulato dalla questura di Caserta (v. nota 15 novembre 1994, in atti, laddove si indicano, bensi', taluni gravi precedenti di polizia, ma non risulta che essi abbiano mai avuto per epilogo sentenze di condanna). Questo Tribunale non ritiene, peraltro, che l'interessato possa giovarsi delle recenti pronunce rese dalla Corte costituzionale in subiecta materia, con le sentenze n. 357/1994 e n. 68/1995: quanto alla prima, perche' la posizione del condannato nell'esecuzione del reato appare in tutto assimilabile a quella dei suoi correi; il suo ruolo non fu, secondo i giudici della cognizione, per nulla marginale, tant'e' che e' stato punito con la stessa pena inflitta agli altri. Non potrebbe quindi affermarsi che egli sia stato sempre nell'obbiettiva impossibilita' di prestare una qualsivoglia collaborazione per la sua minima partecipazione al fatto; quanto all'altra, perche' dalla lettura della sentenza si desume chiaramente che i partecipi del sequestro di persona de quo non furono soltanto quelli poi identificati e condannati (in numero di tre per l'art. 630 del c.p.): al delitto presero parte altre persone, verosimilmente note al Ghirardini (il quale avrebbe tra l'altro partecipato ad una cena presso una pizzeria di Bologna nella tarda serata del 22 dicembre 1992 - giorno anteriore al fatto - in compagnia di altre quattro persone coinvolte nel reato, due soltanto delle quali poi identificate nei suoi coimputati). In definitiva, non resterebbe a questo Tribunale che confermare la decisione negativa adottata dal magistrato di sorveglianza, essendo indispensabile alla definizione del giudizio l'applicazione del citato art. 4-bis della legge n. 354/1975, se non apparisse meritevole di vaglio da parte della Corte costituzionale - in quanto non manifestamente infondata - la questione di legittimita' della norma ora detta nei termini che si vanno ad esporre: Illegittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, della legge n. 354/1975 per contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione. Preliminarmente va affermata la legittimazione di questo Tribunale a sollevare, pur in questa specifica sede (reclamo ex art. 30-bis, della legge penitenziaria), l'eccezione, siccome gia' ritenuto dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 68/1995. La questione di merito si traduce, nella sostanza, nella applicazione alla materia dei permessi premio dei principi enunciati dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 306/1993. In questa decisione, come e' noto, la Corte ha giudicato illegittima la revoca di misure alternative alla detenzione nei confronti di condannati per delitti contemplati all'art. 4-bis della legge n. 354/1975, non collaboratori a termini dell'art. 58-ter della stessa legge, in assenza della accertata sussistenza di loro attuali collegamenti con la criminalita' organizzata (la revoca e' prevista all'art. 15, secondo comma, del d.-l. n. 306/1992, convertito nella legge n. 356/1992). La decisione e' stata fondata, da un lato, sul "necessario scrutinio di ragionevolezza" della normativa sopravvenuta la quale vanifichi il "diritto" del condannato ammesso a misura alternativa, ad espiare la pena con modalita' idonee a favorire il completamento del suo processo di risocializzazione; dall'altro, sull'osservanza, costituzionalmente imposta, del principio di colpevolezza ex art. 27 della Costituzione anche nella fase della esecuzione della pena, si da giungere ad affermare che - non potendo necessariamente ascriversi a demerito del condannato la sua mancata collaborazione con la giustizia - non possa egli subire la revoca della misura alternativa concessagli se non abbia manifestato, con la persistenza dei collegamenti con la criminalita' organizzata (fatto a lui addebitabile), "un'effettiva carenza del processo di risocializzazione" (sentenza n. 306 cit.). La sentenza n. 306 si e' occupata, per ragioni di rilevanza rispetto al giudizio a quo, della sola revoca delle misure alternative, laddove l'art. 15, secondo comma, del decreto-legge n. 306 prevede anche, per le stesse condizioni la revoca dei permessi premio. Una volta revocato il permesso al momento in esecuzione, da parte del magistrato di sorveglianza, il detenuto non potrebbe piu' ottenerne per la disciplina dell'art. 4-bis. In sostanza, data la struttura dei permessi premio, che non si sostanziano, come le misure alternative, in una continuativa esperienza di risocializzazione, secondo un programma di trattamento che si estende a tutta la durata della pena, bensi' in reiterate, piccole esperienze di liberta' per il detenuto, che nel loro complesso costituiscono "parte integrante del programma di trattamento" (art. 30-ter, terzo comma, della legge n. 354/1975, che significativamente parla di "esperienza dei permessi premio"), ritiene il tribunale che il non poter piu' fruire del permesso, per un detenuto che ormai vi era sistematicamente ammesso, sia ben equiparabile alla "revoca" del permesso stesso, intesa come revoca del trattamento praticato mediante il permesso. Anche questa, si ritiene, deve soggiacere ai principi costituzionali richiamati nella sentenza della Corte, giacche' anche il detenuto che fruisce di periodici permessi (magari in attesa del maturare dei termini di legge per accedere ad un regime alternativo) dimostra un progredire della sua risocializzazione e una diminuzione di pericolosita' sociale (recita l'art. 30-ter, della legge penitenziaria che i permessi premio possono essere concessi ai condannati che, tra l'altro, "non risultano socialmente pericolosi"); anche egli ha diritto a che questa sua situazione soggettiva non venga, irragionevolmente e senza suo demerito, compressa o estinta per jus superveniens. Ad avviso del Collegio, deve pertanto dubitarsi della legittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, della legge n. 354/1975 come novellato dalla stessa legge n. 356/1992, nella parte in cui prevede il divieto di concessione dei permessi premio ai condannati per i delitti indicati nel primo periodo del primo comma dello stesso art. 4-bis gia' ammessi a fruire di tali benefici, che non abbiano prestato o non prestino collaborazione con la giustizia ex art. 58- ter, della legge n. 354/1975, anche quando non sia stata accertata la sussistenza di collegamenti attuali dei medesimi con la criminalita' organizzata.